domenica 14 gennaio 2024

La peggior forma di governo

 "La democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre fino ad ora sperimentate"

Winston Churchill alla Camera dei Comuni (1947)

martedì 12 dicembre 2023

Riparate la Chiesa con l’esempio e la testimonianza

Nel giorno in cui la famiglia del santo di Assisi festeggia gli 800 anni dall'approvazione della Regola, Francesco scrive una lettera a religiose e religiosi che seguono il carisma perché escano "incontro al mondo là dove molti fratelli e sorelle attendono di essere consolati, amati e curati”. Tre le raccomandazioni: osservare il Vangelo, obbedire alla Chiesa, andare per il mondo

Tiziana Campisi – Città del Vaticano

 Andate per il mondo “condividendo la beatitudine della povertà, divenendo un segno evangelico eloquente e mostrando alla nostra epoca, segnata purtroppo da guerre e conflitti, da egoismi di ogni genere e logiche di sfruttamento dell’ambiente e dei poveri, che il Vangelo è davvero la buona notizia per l’uomo affinché ritrovi la direzione migliore per la costruzione di una nuova umanità insieme al coraggio di mettersi in cammino verso Gesù”: è quanto chiede il Papa alla famiglia francescana in una lettera scritta per l’ottavo centenario della conferma della Regola dei frati minori da parte di Papa Onorio III, avvenuta in Laterano il 29 novembre 1223. Un’occasione propizia per ravvivare “il medesimo spirito che ispirò Francesco d’Assisi a spogliarsi di tutto, e dare origine ad una forma di vita unica ed affascinante poiché radicata nel Vangelo”, un giubileo, auspica Francesco, che possa essere “tempo di una rinascita interiore, di un rinnovato mandato missionario della Chiesa che chiama ad uscire incontro al mondo là dove molti fratelli e sorelle attendono di essere consolati, amati e curati”. Alla famiglia francescana il Papa consegna anche altre due esortazioni, ispirate dalle “parole del Poverello d’Assisi” nella Regola bollata: osservare il Vangelo e obbedire alla Chiesa.

 

Osservare il Vangelo

Il Pontefice ricorda che la Buona Novella è stata al centro dell’esistenza di San Francesco, che ne ha fatto “una forma di vita” e invita a tornare con urgenza a “un impegno cristiano e battesimale, capace di lasciarsi ispirare, in ogni scelta, dalla Parola del Signore”. “Cristo è il punto focale della vostra spiritualità - sottolinea il Papa alla famiglia francescana -. Siate uomini e donne che alla Sua scuola apprendano davvero ‘regola e vita’”.

 

Obbedire alla Chiesa

“Frate Francesco promette obbedienza e riverenza al signor papa Onorio e ai suoi successori canonicamente eletti e alla Chiesa romana. E gli altri frati siano tenuti a obbedire a frate Francesco e ai suoi successori”: dichiarava nella Regola bollata l’umile innamorato di Cristo dopo aver espresso “la volontà di seguire i consigli evangelici”. Dunque, “per vivere gli insegnamenti del Maestro è necessario rimanere nella Chiesa”, spiega Francesco, aggiungendo che “in quel legame di ‘obbedienza e riverenza’ al Papa e alla Chiesa di Roma”, il Poverello d’Assisi “ha riconosciuto un elemento essenziale per la fedeltà alla chiamata e per ricevere Cristo nell’Eucarestia”. Guardando all’oggi, il Papa esorta i francescani a vivere “lo spirito della Regola nell’ascolto e nel dialogo, come il cammino sinodale suggerisce di compiere” e prosegue: “Sostenete tenacemente la Chiesa, riparatela con l’esempio e la testimonianza, anche quando sembra costare di più”.

 

Un’evangelizzazione che promuove la fraternità

Infine Francesco raccomanda “uno speciale programma di evangelizzazione”: l’andare per il mondo “in uno stile di fraternità e di vita pacifica, senza liti o dispute né tra voi né con gli altri, dando prova di ‘minorità’, con mitezza e mansuetudine, annunciando la pace del Signore e affidandovi alla provvidenza”. In tale prospettiva il Papa sollecita a “riscoprire la bellezza dell’evangelizzazione tipicamente francescana, che nasce da una fraternità per promuovere la fraternità”. “L’amore donato nel servizio è la più grande modalità di annuncio”, afferma il Pontefice incoraggiando a ritrovare forza “in tale peculiare vocazione, propria dei ‘minori’ e dei ‘poveri’”, che “è data da Francesco nella sua Regola” e che è in sintonia con l’invito rivolto nella Evangelii gaudium alla comunità cristiana ad essere “Chiesa in uscita”.


 

Fonte: vatican news

mercoledì 8 novembre 2023

Patriota perché cristiano

In questo autunno inoltrato l’Italia s’è desta e si è ricordata in extremis che quest’anno era il centocinquantenario della morte di Alessandro Manzoni
L’anniversario, in realtà era sei mesi fa, lo scorso 22 maggio, ma era passato in sordina; invece in questi ultimi mesi dell’anno fioriscono eventi su Manzoni, mostre, recite, convegni accademici e civili, persino un teatro dei burattini, e vari approfondimenti sulla sua orma lasciata nella scuola, nella storia, nel processo unitario. Corsi accelerati di recupero per rimediare alla dimenticanza del più grande scrittore italiano (considerando Dante e Leopardi soprattutto come poeti). Ravvedimento operoso, meglio tardi che mai.
Ma qual è l’impronta fondamentale sul piano umano e civile che Manzoni ci ha lasciato, oltre la letteratura? A volerla condensare in un motto direi Fede e patria; anzi a voler completare la sua visione col suo forte senso della famiglia, potemmo dire che Manzoni interpretò nel suo secolo quel Dio, patria e famiglia come bussola morale, civile e religiosa, pur temperate dall’amore per la libertà e per l’umanità.
Ce lo suggerisce uno scrittore scettico verso la fede e l’italianità, Giuseppe Prezzolini. 
Il laico, disilluso e non credente Prezzolini riconosceva in Manzoni la centralità della fede e della morale cattolica e reputava inseparabile la sua fede religiosa dal suo amore per l’Italia
Manzoni era patriota perché cristiano; il diritto delle nazioni per lui è sacrosanto perché proviene da Dio. Ne L’Italia finisce ecco quel che resta, Prezzolini notava che in Manzoni oltre “la bestialità del popolaccio ignorante” erano evidenziati “l’egoismo dei potenti”, “gli inganni della cricca al governo”, “la complicità colpevole degli ordini religiosi”, “la criminale responsabilità dei ricchi”. 
Dunque, tutto meno che una difesa di classe o dei ceti alti rispetto ai ceti popolari. 
La preghiera salva l’umile Lucia e redime su un piano più alto l’Innominato. 
Ovvero la grazia non fa scelte di classe, anzi premia gli umili e i potenti che si umiliano, scendono dalla torre del loro orgoglio e della loro malefica potestà per convertirsi e inginocchiarsi a Dio. O per ritenere che la buona autorità sia pur sempre al servizio dei suoi sottoposti. Prezzolini ricorda una testimonianza significativa di Manzoni: “l’evidenza della religione cattolica – scrive don Lisander– riempie e domina il mio intelletto, io la vedo a capo e in fine di tutte le questioni morali; per tutto dove è invocata, per tutto donde è esclusa. Le verità stesse, che pur si trovano senza la sua scorta, non mi sembrano intere, fondate, inconcusse, se non quando sono ricondotte ad essa, ed appaiono quel che sono, conseguenza della sua dottrina. Un tale convincimento deve trasparire naturalmente da tutti i miei scritti”. Prezzolini notava che Manzoni fu “più cattolico di Dante”, “patriota perché cristiano”; vide il Risorgimento come la purificazione evangelica (e la correzione liberal-nazionale) della Rivoluzione francese
A tale proposito è splendido il ritratto manzoniano di Robespierre, che Manzoni farà nel dialogo Dell’Invenzione; è una critica ante litteram al rivoluzionario sognatore di mondi nuovi e nemico della realtà, oltre che della religione e della tradizione. 
Era ben viva in Manzoni la differenza abissale tra il Rivoluzionario e il Risorgimentale, tra il patriota cattolico e liberale e il giacobino ateo e radicale. E poi secondo Manzoni agiva nella storia la mano della Provvidenza, che a volte si serve anche della disgrazia, nella forma di “provvida sventura”, ispirata da Giambattista Vico.
Con i Promessi sposi Manzoni abbandona l’epica, la letteratura eroica e col suo romanzo pone al centro della sua storia due popolani vissuti in un’altra epoca rispetto alla sua; racconta il travaglio delle gente comune con una umanità che ha pochi precedenti e paralleli nella letteratura del suo tempo. 
A differenza di Prezzolini, Antonio Gramsci trovava il cattolicesimo manzoniano gesuitico e ipocrita, venato da un aristocratismo fintamente popolare. 
Quel che appare come l’epopea popolare de I promessi sposi, per Gramsci era invece solo «un libro di devozione», infarcito di una versione clericale e bigotta, aristocratica e paternalistica.
Al contrario di Gramsci, Giovanni Gentile ritenne invece Manzoni “il grande liberatore del popolo italiano dal secolare servaggio della letteratura, dell’arte pura, dell’indifferentismo e del dilettantismo, della rettorica e del classicismo vuoto e formale” (Lo sostiene nel suo saggio del 1928 dedicato a Manzoni e Leopardi). 
Manzoni vede la letteratura, secondo il filosofo siciliano, come riscatto popolare e nazionale e non come tradimento del popolo e sottomissione al potere clericale e civile, come sosteneva Gramsci. 
Manzoni è per Gentile maestro di vita religiosa e morale, nazionale e patriottica. Dalla fede nasce il coraggio; la fede era considerata un necessario carburante per accendere l’amor patrio; quasi una nuova versione idealistica della religio instrumentum regni.
La religione non è più il marxiano oppio dei popoli ma accende l’ardore che si riversa poi sul piano civile e nazionale.
Secondo Gentile gli stessi apostoli del Risorgimento, Vincenzo Gioberti e Giuseppe Mazzini, oltre che Antonio Rosmini, fin dal principio guardarono a Manzoni come alla “più alta e degna guida spirituale degli italiani”
Insomma quella gentiliana è una lettura risorgimentale di Manzoni come padre della patria, secondo un canone consolidato già quando Manzoni era ancora vivo. 
Del resto, la passione unitaria per l’Italia accompagna davvero Manzoni per più di mezzo secolo, percorre quasi tutta la sua opera. Almeno a partire da quel 1821 in cui cantò l’Italia “Una d’arme, di lingua, d’altare/ Di memorie, di sangue e di cor”. 
L’identità italiana affidata oltre che all’impresa militare (una d’arme), anche alla lingua e alla religione (di lingua, d’altare). 
Un amor patrio limpido e coerente, senza cedimenti e compromissioni, che passa dalla storia e dalla lingua italiana, dall’identità nazionale al sostegno convinto allo Stato unitario, con Roma capitale.
Questa fu una ragione in più per porre Manzoni e il suo romanzo al centro della scuola e della cultura nazionale; mutati i tempi, e capovolti gli indirizzi, la sua fama di apostolo del Risorgimento e dell’amor patrio, fu una ragione in più per cancellare ed emarginare Manzoni, dimenticandolo insieme alla storia patria. Ma eccolo riapparire…

Marcello Veneziani, La Verità – 7 novembre 2023


domenica 24 settembre 2023

Metà Milano, a non esagerare, volle seguire il feretro al Cimitero

È il 6 gennaio 1873: al termine della Messa, Alessandro Manzoni esce dalla chiesa di San Fedele a Milano, scivola e cade a terra. Ha 88 anni e le sue condizioni, dopo la brutta caduta, peggiorano rapidamente. 

Il 22 maggio muore e al suo funerale partecipano le più alte cariche dello Stato, tra cui il futuro re Umberto I e le rappresentanze della Camera e del Senato.

“Per le strade un gridio di venditori di fotografie del gran poeta, di ritratti d’ogni formato, d’ogni prezzo. Le pareti delle case erano tappezzate di avvisi portanti il nome del Manzoni […] gli uomini erano tutti nelle vie, e metà Milano, a non esagerare, volle seguire il feretro al Cimitero», così descrive Felice Venosta il giorno dei funerali.”

Linguaggio cinematografico ante litteram

"Sono convinto che si possa leggere la prima pagina de I promessi sposi come il movimento di camera che dall’alto si avvicina al suo oggetto. Non rida. Manzoni usa il linguaggio cinematografico prima che sia stato inventato.”

Umberto Eco in merito a I promessi sposi durante un’intervista con Antonio Gnoli

venerdì 28 luglio 2023

"Ora la Notte emette il fischio / venga Torelli senza rischio"

Cronista, così amava definirsi Giorgio Torelli, 95 primavere e una vita dedicata a raccontare le storie degli uomini, dai grandi protagonisti alle persone più semplici. Giorgio Torelli è morto la sera del Giovedì Santo. Il 6 aprile era nella sua casa di Milano circondato dalla famiglia: la moglie Carlina, medico, conosciuta sui banchi del liceo classico e unica donna della sua vita, i figli Stefano e Michele Arcangelo (la figlia Alessandra è morta nel 2020).

Giorgio nasce a Parma il 26 febbraio 1928. Studente di medicina lascia l’università nel 1954 per abbracciare il giornalismo, lo muove la grande passione per la cronaca e insieme il desiderio di metter su famiglia con l’amata Carlina. Tre mesi in redazione alla “Gazzetta di Parma” e poi un telegramma in rima lo invita nella grande città: «Ora la Notte emette il fischio / venga Torelli senza rischio / firmerà contratto a Milano: / molto lavoro e poco grano». Le parole di Nino Nutrizio, direttore del quotidiano della sera, vengono accolte e Milano diventa la sua seconda patria. Tanti i quotidiani e i settimanali per cui lavora, dal “Candido” di Guareschi a “Epoca”. Fonda nel 1974 con Indro Montanelli “il Giornale nuovo”, di cui è inviato di punta. Collabora a lungo con “Avvenire” e “Luoghi dell’Infinito”. Firma una trentina di libri e un romanzo, La Parma voladora.

La sua ricerca ha per orizzonte le storie belle, le persone buone, gli eventi che danno speranza. Insomma tutto quello che tiene unito il mondo e impedisce la dissoluzione e la vittoria del caos. Era uomo di grande fede e di una cultura straordinaria. Cultura di storia e di storie, in gran parte vissute, e di quel mondo che aveva conosciuto nel suo viaggiare da inviato. Era un campione della cultura popolare: la sua pagina “Eravamo una piccola città”, appuntamento domenicale con la “Gazzetta di Parma”, dal 2012 fino a settimana scorsa, raccontava il mondo parmense e la sua gente. E in dialetto ha voluto tradurre il Vangelo di Marco: Al Vangel äd Marco in pramzan dal sas, il parmigiano del “sasso”, la città storica.

Con Giorgio avevamo lunghe telefonate. Mi chiamava ed era subito festa: il suo parlare parmigiano era sempre gioioso, brillante e soprattutto vivo. A volte mi vedevo costretto a interrompere il suo profluvio per chiedergli una traduzione. Ma non c’era bisogno di traduzione per comprendere come la vita buona e felice scorresse nel suo raccontare infinito. Giorgio era un uomo dalle forti radici e dagli orizzonti che non conoscono confini. Dalle forti radici perché, anche se viveva a Milano fin dalla giovinezza, era sempre legato a Parma e alla sua terra, un legame di amore, una linfa che alimentava tutta la sua esistenza. Per lui la città natale è soprattutto la sua gente. Gente che ama la vita tanto da aver fatto del gusto un’arte, la difficile arte di saper coniugare il buono, il vero e il bello.

Scriveva nel numero monografico di “Luoghi dell’Infinito” (260, aprile 2021) dedicato a Parma: «Noi siamo noi. Lo furono mio padre artigiano e mio nonno contadino, genitore a baffi risoluti [come i suoi che portava con fierezza fin da giovane] di una barca d’undici figli e figlie. Entrambi indossarono la parmigianità di fatto e di elezione. Al mio signor nonno, già granatiere di leva a Roma nel 1873 e poi seminatore della nostra materna terra dai solchi avidi di complicità, dicevano “Arnést, Ernesto, dovete giocare al Lotto per tirar su una famiglia che non finisce mai!”. Non commentò. Scrisse a vernice la frase dell’orgoglio combattivo sulla cappa del camino di casa, con sotto la padella per la tavolata. La frase si è fatta massima e così risuona: “Ambo lavorare, terno seguitare”».

Quella frase è stata anche il motto della vita di Giorgio Torelli, e questo gli ha permesso di essere un uomo dagli orizzonti senza confini. Come inviato ha attraversato i cinque continenti, mosso da sete di conoscenza, dalla passione per gli uomini, da un’empatia che lo faceva entrare in rapporto anche con le persone più lontane per cultura, lingua, sensibilità. In questo abbracciare il mondo è stato accanto a missionari a cui lo legava una profonda amicizia, da Piero Gheddo a Baba Camillo a Marcello Candia. Scrivere era come respirare. Non si coglieva grande differenza tra il suo parlare e i suoi articoli: la parola, sia nella lingua madre sia in italiano, era sempre ricca, precisa, capace di esprimere l’essenziale e le sue sfumature. Ed era sempre una parola gioiosa. Anche quando raccontava le zone d’ombra e gli abissi dell’umano si scorgeva la luce della speranza e la fiducia nella Provvidenza.

Ora Giorgio Torelli è nella luce della Parola in tutta la sua bellezza, bontà e verità. Quella Parola che l’indomito cronista ha amato, cercato, declinato in tutta la sua vita. Da autentico e umile maestro.


 venerdì 7 aprile 2023


lunedì 17 luglio 2023

Don Abbondio: il vero protagonista

Manzoni ebbe una straordinaria importanza nella formazione di scrittore di Sciascia. Tra le sue prime letture Sciascia ha sempre ricordato I Promessi Sposi e la Storia della colonna infame: Manzoni, insieme agli illuministi francesi, rappresentò, per quel precoce e avidissimo lettore, la ragione e un modo di ragionare da opporre all’irrazionale pirandellismo in natura che aveva scoperto nella sua vita di ogni giorno. Tra gli scrittori più amati, lo scrittore milanese occupa un posto di primissimo piano, e Sciascia non mancò di dichiararlo: «Se mi si chiedesse a quale corrente di scrittori appartengo, e dovessi limitarmi a un solo nome, farei senza dubbio quello di Manzoni».

L’interesse critico di Sciascia per l’opera manzoniana ha dovuto misurarsi con il diffuso disamore, l’insofferenza quasi, che spesso si accompagna all’autore dei Promessi sposi, e per colpa soprattutto della scuola italiana, che ha imposto la lettura del romanzo agli studenti con interpretazioni stereotipate e fuorvianti. Sciascia ebbe la fortuna di leggerlo, come egli stesso confessa, prima che glielo facessero leggere a scuola, avendo così modo di apprezzarne l’autentico valore. I suoi saggi su Manzoni sono talvolta coincisi con iniziative editoriali che miravano a una più avvertita divulgazione dell’opera manzoniana, e in cui il suo contributo doveva risultare fondamentale.


La raccolta di saggi intitolata Cruciverba accoglie i due scritti più importanti tra quelli che Sciascia ha dedicato a Manzoni: «Goethe e Manzoni» e «Storia della colonna infame».


Nel primo saggio Sciascia prende spunto da alcune annotazioni dei Colloqui con Goethe di Eckermann, e precisamente da quelle in cui il grande autore tedesco parla dei Promessi sposi, di cui leggeva l’edizione del 1827, riassumendone l’eccellenza in quattro punti: la storia; la religione cattolica; le lotte rivoluzionarie; l’amore e la conoscenza dei luoghi. Per Sciascia, questi quattro pregi del romanzo sono suscettibili di aprire, ciascuno, un discorso, e ne trova conferma in Pirandello, che questo passo dei Colloqui trascrisse, traducendolo, in un suo taccuino di appunti, ma senza nessuna indicazione, con la conseguenza che la critica l’ha ritenuto un giudizio di Pirandello su Manzoni. Sul primo dei quattro pregi, Goethe, terminata la lettura del romanzo, doveva ricredersi; ma questo discorso ne apre un altro, e il più importante per Sciascia, sulla Storia della colonna infame, che si preferisce affrontare più avanti, prima occorre far cenno alla lettura di Sciascia del romanzo manzoniano.


Tra le considerazioni di Goethe sui Promessi sposi, Sciascia ne trova una che vale a chiarirgli il valore del romanzo e insieme il valore della scrittura, intesa con felicità, come felicità, anche nell’angoscia. La felicità della scrittura, come altrove si è detto la felicità della letteratura, trattando della sua idea di letteratura come forma del dilettantismo, del dilettarsi. Nella scrittura manzoniana Sciascia ha riconosciuto l’espressione più alta della scrittura come forma della felicità, della felicità della scrittura, proponendo così un Manzoni certamente originale, da contrapporre alla fama corrente di scrittore noioso: «C’è poi, straordinario, l’accostamento di due parole, di due stati d’animo; l’angoscia, la felicità. Ci sono tante definizioni del classico, di quel che è classico, di quel che è un classico (e di solito in contrapposizione a barocco o romantico), ma qui, sulle pagine del Manzoni, mi pare che Goethe adombri la più giusta: classico è la capacità di rappresentare tutto, anche l’angoscia, soprattutto l’angoscia, “con mirabile felicità”. La felicità dello scrivere, la felicità della scrittura, la felicità della “dicitura”: per quanto greve, angosciante, affannosa sia la realtà che vi si rappresenta. I promessi sposi è un libro angoscioso e, in un certo senso, disperato; ma è anche un libro felice».


C’è un episodio della vita di Manzoni che Sciascia apprese da una vecchia antologia scolastica e che egli assume ad esemplificazione di uno dei punti in cui Goethe sintetizza l’eccellenza del romanzo, quello delle «lotte rivoluzionarie»: in quell’occasione l’autore dei Promessi Sposi diede prova di grande coraggio e insieme di suprema discrezione. Quell’episodio diviene per Sciascia «una specie di chiave di lettura dell’opera, ponendosi come spiegazione del rapporto tra il personaggio protagonista del romanzo e il suo autore»: un caso evidente di quell’interesse che sempre Sciascia ripone nella biografia di un autore per meglio comprenderne l’opera.


Prima che a scuola gli venisse indicato il protagonista del libro nella Provvidenza, Sciascia aveva già maturato la convinzione che il vero protagonista del romanzo fosse don Abbondio, e non ci fu commentatore o professore che riuscisse a fargli cambiare idea. Ad un certo punto, anzi, doveva scoprire un libro che quella convinzione avrebbe confermato e motivato: Il sistema di don Abbondio di Angelandrea Zottoli, poco o punto presente nelle scuole italiane. L’originale interpretazione del romanzo manzoniano viene illustrata da Sciascia muovendo proprio dal saggio di Zottoli: «“Figura circospetta e meditativa”, dice Zottoli, che si mostra appena Adelchi cade e che da Adelchi apprende che “una feroce forza il mondo possiede” e che “loco a gentile, ad innocente opra non v’è: non resta che far torto o patirlo”. Ma questa visione della vita, questo pessimismo, è per don Abbondio un riparo e un alibi: don Abbondio è forte, è il più forte di tutti, è colui che effettualmente vince, è colui per il quale veramente il “lieto fine” del romanzo è un “lieto fine”. Il suo sistema è un sistema di servitù volontaria: non semplicemente accettato, ma scelto e perseguito da una posizione di forza, da una posizione di indipendenza, qual era quella di un prete nella Lombardia spagnola del secolo XVII. Un sistema perfetto, tetragono, inattaccabile. Tutto vi si spezza contro. L’uomo del Guicciardini, l’uomo del “particulare” contro cui tuonò il De Sanctis, perviene con don Abbondio alla sua miserevole ma duratura apoteosi. Ed è dietro questa sua apoteosi, in funzione della sua apoteosi, che Manzoni delinea – accorato, ansioso, ammonitore – un disperato ritratto delle cose d’Italia: l’Italia delle grida, l’Italia dei padri provinciali e dei conte-zio, l’Italia dei Ferrer italiani dal doppio linguaggio, l’Italia della mafia, degli azzeccagarbugli, degli sbirri che portan rispetto ai prepotenti, delle coscienze che facilmente si acquietano…».


Nella conclusione del saggio l’argomentazione di Sciascia si fa stringente: «Anni addietro Cesare Angelini, dopo più di mezzo secolo di amorosa, attenta e sottile lettura dell’opera manzoniana, fu come folgorato da una domanda: perché se ne vanno? perché Renzo e Lucia, ormai che tutto si è risolto felicemente per loro, ormai che nel castello di don Rodrigo c’è un buon signore e nulla più hanno da temere, lasciano il paese che tanto amano? Non seppe trovare risposta. E pure la risposta è semplice: se ne vanno perché hanno già pagato abbastanza, in sofferenza, in paura, a don Abbondio e al suo sistema; a don Abbondio che sta lì, nelle ultime pagine del romanzo, vivo, vegeto, su tutto e tutti vittorioso e trionfante: su Renzo e Lucia, su Perpetua e i suoi pareri, su don Rodrigo, sul cardinale arcivescovo. Il suo sistema è uscito dalla vicenda collaudato, temprato come acciaio, efficientissimo. Ne saggiamo la resistenza anche noi, oggi: a tre secoli e mezzo dagli anni in cui il romanzo si svolge, a un secolo e mezzo dagli anni in cui Alessandro Manzoni lo scrisse».


Nell’interpretazione sciasciana I promessi sposi perdono il carattere provvidenzialistico che ha voluto leggervi una certa critica, propensa ai luoghi comuni, che ha spopolato tra i banchi di scuola. Al contrario, il romanzo si presenta, per Sciascia, come una disamina lucidissima e spietata della società italiana: del tempo in cui il romanzo si svolge, del tempo in cui Manzoni lo scrisse, del tempo in cui noi lo leggiamo. In un’altra occasione, sempre a proposito del romanzo manzoniano, Sciascia ha affermato: «La sua opera è generalmente vista come il prodotto di un cattolico italiano piuttosto tranquillo e conformista, quando invece si tratta di un’opera inquieta, che racchiude un’impietosa analisi della società italiana di ieri e di oggi e delle sue componenti più significative. Un libro, un’opera che contiene tutta l’Italia, persino l’Italia che più tardi sarà descritta da De Roberto ne I viceré, da Pirandello ne I vecchi e i giovani, da Vitaliano Brancati ne Il vecchio con gli stivali, addirittura l’Italia delle Brigate Rosse». E quanto al cattolicesimo di Manzoni, Sciascia ha dichiarato: «è stato detto che ha convertito, convertendosi, l’illuminismo al cattolicesimo; ma io penso che in lui è forse accaduto il contrario: il cattolicesimo si è convertito all’illuminismo».


Vi è un altro saggio in Cruciverba nel quale si fa cenno ai Promessi sposi: «Un cruciverba su Carlo Eduardo», dove il Waverley di Walter Scott viene indicato tra le fonti del romanzo manzoniano, come aveva notato Corrado Alvaro, e attraverso la segnalazione di alcuni dei punti nei quali l’esteriore struttura dei due romanzi coincide.


Come Sciascia ricorda in «Goethe e Manzoni», l’autore del Faust, finito di leggere il romanzo, si era ricreduto su uno dei quattro pregi che vi aveva ravvisato, la storia, e si era convinto che lo storico avesse giocato un brutto tiro al poeta. E’ pur vero, e Sciascia ne tiene conto, che Goethe leggeva I promessi sposi nell’edizione del 1827, dove la fusione di storia e invenzione non è compiutamente raggiunta; se egli avesse letto l’edizione del 1840, si domanda Sciascia, avrebbe continuato a sostenere che Manzoni commetteva da storico peccato contro la poesia? Tra le parti di storia inserite nel romanzo del 1827 vi era la cronaca del processo ai presunti untori celebrato durante la peste milanese del 1630, cronaca che sarebbe stata pubblicata in appendice all’edizione del 1840 del romanzo, con il titolo Storia della colonna infame. Quest’opera, tra le opere manzoniane, ha sempre suscitato un interesse assolutamente prioritario in Sciascia, che ha affermato: «Potremmo magari lasciar da parte I promessi sposi: la Storia della colonna infame dovrebbe esser ben presente, oggi».


Al volumetto manzoniano Sciascia ha dedicato uno scritto particolarmente denso, raccolto in Cruciverba. Prima di Manzoni, l’illuminista Pietro Verri aveva dedicato la sua attenzione ed il suo sdegno ai tragici fatti milanesi; e con Verri Manzoni entra in parziale polemica per ciò che pertiene le responsabilità di quei gravi casi d’ingiustizia. Sciascia sceglie di stare con Manzoni: «Più vicini che all’illuminista ci sentiamo oggi al cattolico. Pietro Verri guarda all’oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni; Manzoni alle responsabilità individuali. La giustezza della visione manzoniana possiamo verificarla stabilendo una analogia tra i campi di sterminio nazisti e i processi contro gli untori, i supplizi, la morte». E all’obiezione che quei giudici fossero uomini di cui tutta Milano riconosceva l'integrità, obiezione avanzata da Fausto Nicolini nel suo Peste e untori del 1937, autentico bersaglio polemico di questo scritto, Sciascia risponde stabilendo appunto un’analogia con i campi di sterminio nazisti: «viene da pensare a quel libro di Charles Rohmer, L’altro, che è quanto di più terribile ci sia rimasto nella memoria e nella coscienza di tutta la letteratura sugli orrori nazisti pubblicata dal 1945 in poi: “una dimostrazione per assurdo, in cui è proprio la parte di umanità rimasta nei burocrati del Male, la loro capacità di sentire ed agire come tutti noi, a dare l’esatta misura della loro negatività” […] Non si accorge, il Nicolini, che quel di cui c’è da tremare è appunto questo: che quei giudici erano onesti e intelligenti quanto gli aguzzini di Rohmer erano buoni padri di famiglia, sentimentali, amanti della musica, rispettosi degli animali. Quei giudici furono “burocrati del Male”: e sapendo di farlo».


Nell’opera manzoniana Sciascia legge l’analisi, lucida e tormentata, delle responsabilità individuali imputabili a uomini che hanno il potere di giudicare altri uomini, e tanto più acuta e dolorosa è quest’analisi in quanto riferita a uomini non eccezionalmente malvagi né a tempi di eccezionale oscurità, ma a uomini con la loro parte di umanità, e in qualsiasi tempo: occorre vigilare perché più non accada che alcuni uomini possano disporre della libertà e della vita di altri uomini, e proprio perché ciò può accadere sempre: «Poiché il passato, il suo errore, il suo male, non è mai passato: e dobbiamo continuamente viverlo e giudicarlo nel presente, se vogliamo essere davvero storicisti. Il passato che non c’è più – l’istituto della tortura abolito, il fascismo come passeggera febbre di vaccinazione – s’appartiene a uno storicismo di profonda malafede se non di profonda stupidità. La tortura c’è ancora. E il fascismo c’è sempre».


Il Manzoni che più interessa a Sciascia è quello che compiutamente si esprime nella Storia della colonna infame, dove con maggiore evidenza che nel romanzo il moralismo è molto più prepotente delle credenze religiose. Per Sciascia la Storia costituisce una deviazione imprevista dal percorso tracciato dalla fede, percorso nel romanzo coerentemente seguito; una chiave di lettura, la più congeniale, con cui aprire il medesimo romanzo all’interpretazione che egli ne diede. Un’opera che dapprima Manzoni chiamò appendice storica sulla Colonna Infame, e appunto da appendice è trattata, con disattenzione e superficialità, dice Sciascia. E sulla scelta dell’autore di fare della Storia un’opera separata dal romanzo, Sciascia coglie le vere ragioni di questo piccolo grande libro: «La ragione per cui Manzoni espunge dal romanzo la Storia non è soltanto tecnica – cioè quella ragione di cui lungamente, sull’edizione dei Promessi Sposi del 1827, Goethe discorre con Eckermann. La ragione è che sui documenti del processo, sull’analisi e le postille di Verri, Manzoni entrò, per dirla banalmente, in crisi. La forma, che non era soltanto forma, e cioè il romanzo storico, il componimento misto di storia e d’invenzione, gli sarà apparsa inadeguata e precaria; e la materia dissonante al corso del romanzo, non regolabile ad esso, sfuggente, incerta, disperata. E c’è da credere procedessero di pari passo, in margine alla sublime decantazione o decantata sublimazione (da nevrosi, si capisce) in cui andava rifacendo il romanzo, l’abbozzo della Colonna Infame e la tesura del discorso sul romanzo storico. Due grandi incongruenze, a considerare che venivano dallo stesso uomo che stava tenacemente attaccato a rifare e affilare un componimento misto mentre ne intravedeva e decretava la provvisorietà e ne preparava uno, per così dire, integrale da cui l’invenzione veniva decisamente esclusa».


Infine, a proposito della scarsa fortuna che quest’opera avrebbe incontrato presso i lettori, e della previsione che ne aveva fatto Manzoni, Sciascia dichiara di avere egli ripreso quel genere così poco praticato in Italia, e qui dovrebbe aprirsi un lungo discorso sull’opera sciasciana, ma poiché esula dal tema qui preso in esame basterà avervi fatto cenno. Dichiara Sciascia: «Non c’era mai stato niente di simile, in Italia; e quando qualcuno, più di un secolo dopo, si attenterà a riprendere il “genere” (poiché Manzoni, come esattamente dice il Negri, prefigura il “genere” dell’odierno racconto-inchiesta di ambiente giudiziario), “le silence s’est fait”: come allora».


fonte: Marcello D'Alessandra, amicisciascia.it

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