giovedì 31 marzo 2011

I limiti dell'accoglienza


 
Mentre le singole soluzioni politiche possono essere opinabili, il magistero della Chiesa indica chiaramente i criteri con cui affrontare i vari problemi legati alla questione della migrazione. E non è corretto insistere su uno dimenticando gli altri. Troviamo una sintesi importante del magistero nel Catechismo della Chiesa cattolica (Ccc) al paragrafo 2241 che fissa tre criteri fondamentali.

Il primo è il dovere delle nazioni ricche ad accogliere lo straniero «alla ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita». Di fronte al povero e al sofferente non è lecito per nessuno girare la testa altrove o lasciarlo morire in nome di principi astratti. È dunque importante, ad esempio, garantire adeguate strutture di prima accoglienza, magari favorendo – in base al principio di sussidiarietà – quelle organizzazioni della società civile impegnate su questo fronte che dimostrano competenza ed efficienza in materia. Non c’è dubbio che questo sia l’ambito proprio per l’azione delle organizzazioni ecclesiali e di volontariato. E allo Stato è lecito chiedere di non ostacolare questa azione di carità.

È giustizia anche la rapidità nelle procedure di «screening» per stabilire chi abbia il diritto, e chi non, di rimanere sul suolo del Paesi di accoglienza. E per chi diventa regolare non si possono creare artificiosamente altre difficoltà alla permanenza, o intralci burocratici che lo trattano sempre e comunque da intruso. D’altra parte, chi non ha il diritto di rimanere deve essere rimpatriato, sempre in condizioni di sicurezza ma senza ambiguità e tentennamenti. La politica del chiudere un occhio, o il foglio di via senza controllo, favoriscono oggettivamente clandestinità e criminalità danneggiando anche gli immigrati regolari. Anche la certezza del diritto è un modo per rispettare i diritti umani.

In ogni caso, restando all’articolo del catechismo, il fondamentale diritto di accoglienza incontra due limiti.

Il primo è definito dall’inciso che segue il dovere di accoglienza, ovvero «nella misura del possibile». Vale a dire che l’ingresso di immigrati non può essere a briglie sciolte, anzi è dovere dello Stato regolare il flusso migratorio secondo le possibilità del Paese di accoglienza. Si stabilisce qui un’importante distinzione tra la persona del migrante – nei confronti del quale va sempre rispettato il «diritto naturale» e va protetto – e la politica migratoria che, nel regolare i flussi, deve stabilire un limite alla permanenza di stranieri in un determinato Paese. Di più: le politiche migratorie devono tenere conto della situazione e dei bisogni dei Paesi di accoglienza quanto di quelle dei Paesi di origine dei migranti.

Nel caso dei barconi che arrivano sulle coste siciliane, ad esempio, un conto è il dovere di soccorrere delle persone in mare, altra cosa è il garantirne la permanenza in Italia, che va invece regolata in base ai flussi decisi dal governo e da altre norme di diritto internazionale, quali quella sull’asilo politico.
Su questo punto ci si deve giustamente chiedere quali siano però i criteri con cui stabilire la «misura del possibile». Ci soccorre in questo il Compendio della Dottrina Sociale (Cds) che, al n. 298, parla di flussi migratori da regolare «secondo criteri di equità ed equilibrio» in modo che «gli inserimenti
avvengano con le garanzie richieste dalla dignità della persona umana». L’obiettivo è quello di facilitare l’integrazione dell’immigrato «nella vita sociale» del Paese che lo accoglie, nell’orizzonte del bene comune. Il Cds fa riferimento esplicito al Messaggio di Giovanni Paolo Il per la Giornata Mondiale della Pace 2001, secondo cui si tratta di «coniugare l’accoglienza che si deve a tutti gli esseri umani, specie se indigenti, con la valutazione delle condizioni indispensabili per una vita dignitosa e pacifica per gli abitanti originari e per quelli sopraggiunti» (n. 13).

Le politiche migratorie, dice ancora il Catechismo, vanno definite «in vista del bene comune». Quest’ultimo concetto, «il bene comune», non va ristretto alle questioni implicate nell’accoglienza o meno di un immigrato, ma deve avere un orizzonte ampio, che consideri tutti i fattori legati alle persone e alle società coinvolte. Dobbiamo aver chiaro, infatti, che il problema dell’immigrazione si pone in quanto un precedente diritto fondamentale è stato violato. Quello di poter vivere nella propria terra. Non stiamo ovviamente parlando di chi «sceglie» di andare all’estero per cogliere migliori opportunità professionali, ma di chi è «costretto» ad abbandonare il proprio Paese spinto dalla fame. A questo aspetto si deve dedicare maggiore attenzione, tenendo anche conto che la migrazione priva i paesi di origine di una importante forza lavoro, in genere delle migliori energie e professionalità. Un fenomeno che tende a rendere questi paesi ancora più poveri e fragili, come ha chiaramente detto il demografo e rettore dell’Università della Sorbona di Parigi, Gérard- François Dumont, in risposta a chi vede l’immigrazione come una risposta al calo demografico dei paesi europei: «Se l’Europa attira forza lavoro dai Paesi in via di sviluppo, questo significa anche che da quei Paesi attira le forze migliori, impedendo di fatto lo sviluppo di quei Paesi. Pensare perciò di risolvere i nostri problemi con l’immigrazione è un metodo molto egoista: se si vuole davvero aiutare lo sviluppo del Terzo Mondo, si deve anche trovare il modo di non danneggiarlo»

Non a caso il già citato articolo del Compendio invita esplicitamente a «favorire tutte quelle condizioni che consentono accresciute possibilità di lavoro nelle proprie zone di origine». Se è vero che la migrazione è un fenomeno naturale – tanto più in questa epoca di globalizzazione – ciò non toglie che parte integrante di una politica migratoria debba essere quella di eliminare o ridurre le cause che stanno all’origine della migrazione: siano esse cause di sottosviluppo o di atteggiamenti criminali di singoli governi o tutte e due le cose insieme (ricordiamo quando Turchia e Albania incoraggiavano l’afflusso di clandestini sulle coste italiane).

Parte di una seria politica migratoria è dunque anche la revisione dei meccanismi della cooperazione internazionale – italiana ed europea – e dell’economia mondiale in modo da promuovere un vero sviluppo dei Paesi poveri.

Un secondo limite posto dal Catechismo attiene ai doveri dell’immigrato che «è tenuto a rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, a obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri». L’accoglienza non è dunque una strada a senso unico e lo Stato ha il dovere di vigilare sull’osservanza di questa indicazione. La difficoltà o addirittura l’aperto rifiuto a integrarsi nella nostra cultura, proprio di alcuni gruppi, costituisce dunque un problema oggettivo alla permanenza in Italia e, più in generale, in Europa. Integrarsi non vuoi dire ovviamente omologarsi, assumere in tutto e per tutto la nostra cultura, ma conoscerla e rispettarla. Imparare la lingua italiana, ad esempio, è il primo passo in questo senso. L’integrazione nella scuola italiana, per i bambini, è altrettanto essenziale e a questo non contribuiscono certo classi della scuola pubblica dove i bambini italiani sono in minoranza.

Ma questo impone che il Paese di accoglienza sia chiaro nella propria identità o la riscopra, facendo rispettare con decisione i valori – culturali, spirituali, sociali e giuridici – che lo fondano. Come ha spiegato nel 2000 l’allora arcivescovo di Bologna, cardinale Giacomo Biffi, in una nota pastorale:

"I criteri per ammettere gli immigrati non possono essere solamente economici e previdenziali (che pure hanno il loro peso). Occorre che ci si preoccupi seriamente di salvare l’identità propria della nazione. L’Italia non è una landa deserta o semidisabitata, senza storia, senza tradizioni vive e vitali, senza un’inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente, come se non ci fosse un patrimonio tipico di umanesimo e di civiltà che non deve andare perduto. In vista di una pacifica e fruttuosa convivenza, se non di una possibile e auspicabile integrazione, le condizioni di partenza dei nuovi arrivati non sono ugualmente propizie. E le autorità civili non dovrebbero trascurare questo dato della questione. In ogni caso, occorre che chi intende risiedere stabilmente da noi sia facilitato e concretamente sollecitato a conoscere al meglio le tradizioni e l’identità della peculiare umanità della quale egli chiede di far parte".

Lo Stato ha il dovere quindi di far rispettare le sue leggi, che nascono da una ben precisa cultura: non ci può essere spazio per la poligamia, per l’applicazione della sharìa (la legge coranica) anche se limitata ad alcuni casi, per il burkha laddove la legge vieta di circolare con il volto coperto, men che meno per la rimozione dei crocifissi dai luoghi pubblici o per il reclutamento di terroristi.

Luigi Negri e Riccardo Cascioli, "Perché la Chiesa ha ragione", Lindau 2010 (pp.151-156). 
tratto da La bussola quotidiana

sabato 26 marzo 2011

14 nisan





Nel suo secondo libro su Gesù di Nazaret Benedetto XVI ha riaffermato con convinzione la potenza storica dell’annuncio cristiano, radicato nell’evidenza di quanto accaduto di fronte a testimoni, privilegiati dalle circostanze di luogo e tempo, ma non certamente scelti dal caso. Essi si sono poi resi ripetitori del racconto dei fatti e del loro significato, alla luce delle Scritture, rilette attraverso le parole ed i gesti di Gesù.

Gesù è stato seguito da un manipolo di popolani della Galilea, percorrendo a piedi chilometri sulle strade di Giudea, Samaria, Galilea, Decapoli, Sirofenicia…  Una folla lo ha visto compiere miracoli ed udito raccontare parabole con tanto di spiegazione. Lo hanno ascoltato predicare ed è stato visto pregare, insegnando con un’autorità impressionante. Infine tutto è precipitato, conducendo Gesù alla condanna ed alla morte di croce, in un rapido concatenarsi di avvenimenti tutti dipanatisi in meno di 24 ore, un solo giorno, quello di parasceve, precedente un sabato quell’anno particolarmente solenne, dal momento che il 15 nisan corrispondeva alla Pasqua.

In due precedenti articoli su “La bussola quotidiana” si sono evidenziate l’estrema coerenza tra i vangeli in merito al giorno dell’ultima cena e della crocifissione di Gesù ed il suo essere accaduto il 14 nisan. Questa data è correlata alla prima luna piena dopo l’equinozio di primavera.

Lo scorso sabato 19 marzo,  San Giuseppe,
la luna è sembrata più grande del solito (per l'esattezza del 14%), per il cosiddetto “perigeo lunare”: la luna piena alla distanza minima dalla terra (356.577 chilometri). Prendiamo spunto da questo evento astronomico per approfondire: la luna ruota su se stessa per un tempo corrispondente a quello del suo movimento intorno alla terra: 27 giorni, 7 ore, 43 minuti. E’ il tempo tra due congiunzioni del sole con la luna, viste dalla terra. Tuttavia nel frattempo anche la terra ruota attorno al sole, per cui il mese lunare “percepito” diventa di 29 giorni, 12 ore e 44 minuti. L’anno lunare di 12 lune dura 354 giorni, 8 ore, 48 minuti.
Questo dato è prezioso per capire come nel calendario ebraico, cui facevano riferimento tutte le festività, le date fossero “mobili” (come la Pasqua per noi oggi, tra marzo ed aprile) e non “fisse” (ad esempio il Natale al 25 dicembre). D’altro canto la precisione dei movimenti celesti permette oggi di ricostruire con estrema precisione i calendari, proprio grazie alla possibilità di calcolare le fasi della luna come erano visibili anche secoli fa. Inoltre, pur nella varietà di calendari e nelle vicissitudini da essi avute nella storia, la successione dei sette giorni della settimana non è mai cambiata.
Il calendario di Papa Gregorio XIII, oggi in vigore, comportò nel 1582 il “salto” dal 4 ottobre “giuliano” (un giovedì) al 15 ottobre “gregoriano” (un venerdì), in modo da correggere la discrepanza accumulatasi in circa 16 secoli tra il calendario giuliano e gli equinozi del sole. 
E’ abbastanza semplice sapere, in ogni giorno dell’anno, il numero di giorni trascorsi dall’ultimo novilunio. Così succedeva anche ai tempi di Gesù. Ed il 14 nisan cadeva la quattordicesima notte dopo il novilunio con cui era stato calcolato l’inizio del nuovo mese lunare.
L’estrema regolarità dei movimenti degli astri in cielo, unitamente all’estrema precisione dei software di calcolo oggi, insieme al fatto che sempre, senza soluzioni di continuità, dopo un giovedì c’è stato un venerdì, dopo un venerdì un sabato e così via, di sette giorni in sette giorni, permette di stabilire le equivalenze tra calendari anche ritornando indietro di secoli, proprio potendo continuamente far combaciare i calendari con le fasi lunari.
Tutto questo ci porta alla cronaca del 14 nisan, data autorevolmente accertata anche da Benedetto XVI, visto essere necessariamente un venerdì. Calendari alla mano ci sono solo tre anni, tra il 26 (anno in cui Pilato arrivò in Giudea) ed il 36 (anno in cui Pilato fu rimosso), in cui il 14 nisan cade di venerdì. Infatti (controllare per credere):
14 nisan 3786 ebraico = nel XII anno di Tiberio =  26 d.C = 20 marzo (gregoriano)  = venerdì
14 nisan 3787= nel XIII anno = 27 d.C = 7 aprile (gregoriano) = mercoledì
14 nisan 3788= XIV = 28 d.C = 27marzo (gregoriano) = lunedì
14 nisan 3789= XV = 29 d.C = 14 aprile (gregoriano) = sabato
14 nisan 3790= XVI = 30 d.C = 3 aprile (gregoriano) = mercoledì
14 nisan 3791= XVII = 31 d.C = 24 marzo (gregoriano) = lunedì
14 nisan 3792= XVIII = 32 d.C = 12 aprile (gregoriano)  = lunedì
14 nisan 3793= XIX = 33 d.C = 1 aprile (gregoriano) = venerdì
14 nisan 3794= XX = 34 d.C = 20 marzo (gregoriano) = lunedì
14 nisan 3795= XXI = 35 d.C = 9 aprile (gregoriano) = lunedì
14 nisan 3796= XXII = 36 d.C = 28 marzo (gregoriano) = venerdì

Cade così la candidatura dell’anno 30 d.C., che molti esegeti ritengono quello in cui Gesù fu crocifisso: non era venerdì. Anche il 26 d.C. sarebbe un anno “impossibile”, poiché il quindicesimo anno di Tiberio, regnante da metà settembre del 14 d.C., comincia nel settembre del 28 d.C: è questo l’anno in cui entra in scena Giovanni. Gesù subentrerà poi, e vivrà almeno tre pasque; quindi, al più presto, la Pasqua che ci interessa potrebbe essere stata quella del 31 d.C. (ad ulteriore discredito dell’ipotesi del 30 d.C.), ma tale anno non vide il 14 nisan di venerdì. Infine il 36 d.C. è reso impossibile dalla cronologia di San Paolo, la cui conversione avvenne al più tardi nel 35 d.C.

Chi ha accreditato l’ipotesi del 30 d.C., anche trascurando il fatto che il 14 nisan non è di venerdì, ha ritenuto Luca impreciso nell’attribuire 30 anni a Gesù ai suoi esordi di vita pubblica, pensando che Erode fosse morto nel 4 a.C.: ma anche questa ipotesi è disattesa dai dati storici, desunti proprio da quegli scritti di Giuseppe Flavio che si vorrebbe utilizzare per screditare la precisione e l’attendibilità storica del vangelo. Tanto più che Giuseppe Flavio scrive che il tetrarca Filippo morì nel ventesimo anno di Tiberio, il che significa 5 anni dopo che Giovanni iniziò la sua predicazione. Nel vangelo il tetrarca Filippo è citato ancora vivo. In effetti il XX di Tiberio corrisponde al periodo (autunno-autunno) dal 33 al 34 d.C., a riprova che la Pasqua nel 33 d.C. ci sta benissimo e che il regno di Filippo, iniziato 37 anni prima, prese avvio quando  Erode era ancora in vita. Con una certa libertà dalla storia per far tornare i conti si è persino asserito che Tiberio regnasse dal 12 d.C…

Abbiamo quindi un fatto di cronaca
, collocato con precisione nella storia. E’ accaduto a Gerusalemme, un venerdì, il 14 nisan ovvero il 1 aprile del 33 d.C.. Gesù è stato crocifisso ed è spirato alle tre del pomeriggio. Sotto la croce c’erano la madre Maria, il giovane discepolo Giovanni ed altre tre donne (Maria di Cleofa, Salome -madre di Giovanni- e Maria di Magdala).

E’ innegabile che rispetto alla stratosferica
importanza della redenzione ottenutaci da Nostro Signore Gesù Cristo, attraverso il sacrificio della croce e per i Suoi infiniti meriti, poco importerebbe stabilire se questo sia successo tre anni prima o tre anni dopo. C’è un piccolo corollario a questa affermazione: noi sappiamo di Gesù dai vangeli. E c’è chi dice che i vangeli non sono storicamente attendibili, che Luca si è confuso... Allora, forse, la posta in gioco è più alta di una data. E quella precisa, che nel calendario oggi utilizzato corrisponde al venerdì 1 aprile del 33 d.C., 14 nisan, non è tanto una pignoleria storica, ma un certificato di autenticità di tutta la vicenda.

Abbiamo un fatto, circostanze precise,
una data inoppugnabile. Non si finirà mai di indagare: il Santo Padre invita ad una quaresima fatta anche di studio, tentiamo di farlo anche così.   

Ruggero Sangalli, tratto da "La bussola quotidiana"

mercoledì 16 marzo 2011

Benedetto XVI: l'apporto dei cattolici nel processo di unificazione



di Massimo Introvigne



Il 16 marzo Benedetto XVI ha inviato un Messaggio al Presidente della Repubblica Italiana, On. Giorgio Napolitano, in occasione dei 150 anni dell’Unità politica d’Italia. Questo denso messaggio ripercorre tutta la storia d'Italia e - nel clima di conciliazione che dovrebbe caratterizzare la ricorrenza - cerca di valorizzare tutti gli apporti cattolici alla formazione dell'identità nazionale, compresi quelli dei cattolici liberali che a loro tempo si trovarono in difficoltà con la Chiesa, di alcuni dei quali non si può però mettere in dubbio la sincerità della fede.

Il Papa ha anzitutto ricordato che le radici dell'unità d'Italia, sul piano culturale e religioso, risalgono a ben prima del 1861. L'unità politica "costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale".

Né è pensabile, ha detto il Papa parlare di unità culturale dell'Italia prescindendo dal cristianesimo. In effetti, "il Cristianesimo ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali, rapporti sociali; ma anche mediante una ricchissima attività artistica: la letteratura, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica. Dante, Giotto, Petrarca, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, Caravaggio, Scarlatti, Bernini e Borromini sono solo alcuni nomi di una filiera di grandi artisti che, nei secoli, hanno dato un apporto fondamentale alla formazione dell’identità italiana".

Non è neppure corretto affermare, continua il Papa, che l'unità religiosa dell'Italia fosse un puro elemento culturale senza valenza politica. Al contrario, "le esperienze di santità, che numerose hanno costellato la storia dell’Italia, contribuirono fortemente a costruire tale identità, non solo sotto lo specifico profilo di una peculiare realizzazione del messaggio evangelico, che ha marcato nel tempo l’esperienza religiosa e la spiritualità degli italiani (si pensi alle grandi e molteplici espressioni della pietà popolare), ma pure sotto il profilo culturale e persino politico. San Francesco di Assisi, ad esempio, si segnala anche per il contributo a forgiare la lingua nazionale; santa Caterina da Siena offre, seppure semplice popolana, uno stimolo formidabile alla elaborazione di un pensiero politico e giuridico italiano".

Continuando nella sua analisi storica, il Papa ha criticato quanti pensano che dopo il Medioevo in un'Italia asservita allo straniero il processo mediante il quale la religione ha dato unità agli italiani si sia interrotto. Non è così. "L'apporto della Chiesa e dei credenti al processo di formazione e di consolidamento dell’identità nazionale continua nell’età moderna e contemporanea. Anche quando parti della penisola furono assoggettate alla sovranità di potenze straniere, fu proprio grazie a tale identità ormai netta e forte che, nonostante il perdurare nel tempo della frammentazione geopolitica, la nazione italiana poté continuare a sussistere e ad essere consapevole di sé".

Alla fine, se l'unità politica ha potuto realizzarsi è proprio perché esisteva già una "identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo. La comunità politica unitaria nascente a conclusione del ciclo risorgimentale ha avuto, in definitiva, come collante che teneva unite le pur sussistenti diversità locali, proprio la preesistente identità nazionale, al cui modellamento il Cristianesimo e la Chiesa hanno dato un contributo fondamentale".

E tuttavia occorre dire anche che su questa storia molto antica "il Risorgimento è passato come un moto contrario alla Chiesa, al Cattolicesimo, talora anche alla religione in generale.". Ma in questo "passaggio" neppure "si può sottacere l’apporto di pensiero - e talora di azione - dei cattolici alla formazione dello Stato unitario". Il Papa ha citato cattolici liberali come Vincenzo Gioberti e Massimo d'Azeglio ma ha sottolineato soprattutto che dal punto di vista "filosofico, politico ed anche giuridico risalta la grande figura di Antonio Rosmini, la cui influenza si è dispiegata nel tempo, fino ad informare punti significativi della vigente Costituzione italiana". Ne mancano letterati cattolici come Alessandro Manzoni, definito "fedele interprete della fede e della morale cattolica", o "Silvio Pellico, che con la sua opera autobiografica sulle dolorose vicissitudini di un patriota seppe testimoniare la conciliabilità dell’amor di Patria con una fede adamantina. E di nuovo figure di santi, come san Giovanni Bosco, spinto dalla preoccupazione pedagogica a comporre manuali di storia Patria, che modellò l’appartenenza all’istituto da lui fondato su un paradigma coerente con una sana concezione liberale: 'cittadini di fronte allo Stato e religiosi di fronte alla Chiesa'".

E tuttavia il processo unitario "in quanto dovette inevitabilmente misurarsi col problema della sovranità temporale dei Papi (ma anche perché portava ad estendere ai territori via via acquisiti una legislazione in materia ecclesiastica di orientamento fortemente laicista), ebbe effetti dilaceranti nella coscienza individuale e collettiva dei cattolici italiani, divisi tra gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dall’appartenenza ecclesiale dall’altro. Ma si deve riconoscere che, se fu il processo di unificazione politico-istituzionale a produrre quel conflitto tra Stato e Chiesa che è passato alla storia col nome di 'Questione Romana' suscitando di conseguenza l’aspettativa di una formale 'Conciliazione', nessun conflitto si verificò nel corpo sociale, segnato da una profonda amicizia tra comunità civile e comunità ecclesiale. L’identità nazionale degli italiani, così fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche, costituì in verità la base più solida della conquistata unità politica. In definitiva, la Conciliazione doveva avvenire fra le Istituzioni, non nel corpo sociale, dove fede e cittadinanza non erano in conflitto". Si tratta di un punto fondamentale del Messaggio. Se ci fu conflitto fra la Chiesa e le istituzioni italiane, mai ci fu un conflitto fra la Chiesa e il popolo italiano.

La Chiesa, poi, non smise mai di operare per il bene comune attraverso la sua attività sociale. "Anche negli anni della dilacerazione i cattolici hanno lavorato all’unità del Paese. L’astensione dalla vita politica, seguente il 'non expedit' rivolse le realtà del mondo cattolico verso una grande assunzione di responsabilità nel sociale: educazione, istruzione, assistenza, sanità, cooperazione, economia sociale, furono ambiti di impegno che fecero crescere una società solidale e fortemente coesa".

Ma che dire della questione romana? Il Papa non offre giudizi sommari. "La vertenza apertasi tra Stato e Chiesa con la proclamazione di Roma capitale d’Italia e con la fine dello Stato Pontificio, era particolarmente complessa. Si trattava indubbiamente di un caso tutto italiano, nella misura in cui solo l’Italia ha la singolarità di ospitare la sede del Papato. D’altra parte, la questione aveva una indubbia rilevanza anche internazionale. Si deve notare che, finito il potere temporale, la Santa Sede, pur reclamando la più piena libertà e la sovranità che le spetta nell’ordine suo, ha sempre rifiutato la possibilità di una soluzione della 'Questione Romana' attraverso imposizioni dall’esterno, confidando nei sentimenti del popolo italiano e nel senso di responsabilità e giustizia dello Stato italiano. La firma dei Patti lateranensi, l’11 febbraio 1929, segnò la definitiva soluzione del problema. A proposito della fine degli Stati pontifici, nel ricordo del beato Papa Pio IX e dei Successori, riprendo le parole del Cardinale Giovanni Battista Montini, nel suo discorso tenuto in Campidoglio il 10 ottobre 1962: 'Il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione sul mondo, come prima non mai'".

Risolta istituzionalmente la questione romana, il successivo "apporto fondamentale dei cattolici italiani alla elaborazione della Costituzione repubblicana del 1947 è ben noto. Se il testo costituzionale fu il positivo frutto di un incontro e di una collaborazione tra diverse tradizioni di pensiero, non c’è alcun dubbio che solo i costituenti cattolici si presentarono allo storico appuntamento con un preciso progetto sulla legge fondamentale del nuovo Stato italiano; un progetto maturato all’interno dell’Azione Cattolica, in particolare della FUCI e del Movimento Laureati, e dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ed oggetto di riflessione e di elaborazione nel Codice di Camaldoli del 1945 e nella XIX Settimana Sociale dei Cattolici Italiani dello stesso anno, dedicata al tema 'Costituzione e Costituente'. Da lì prese l'avvio un impegno molto significativo dei cattolici italiani nella politica, nell’attività sindacale, nelle istituzioni pubbliche, nelle realtà economiche, nelle espressioni della società civile, offrendo così un contributo assai rilevante alla crescita del Paese, con dimostrazione di assoluta fedeltà allo Stato e di dedizione al bene comune e collocando l’Italia in proiezione europea".

Un cenno il Papa ha riservato anche agli "anni di piombo". "Negli anni dolorosi ed oscuri del terrorismo, poi, i cattolici hanno dato la loro testimonianza di sangue: come non ricordare, tra le varie figure, quelle dell’On. Aldo Moro e del Prof. Vittorio Bachelet?".

Ma anche negli anni più difficili, la Chiesa ha proseguito la sua missione."Dal canto suo la Chiesa, grazie anche alla larga libertà assicuratale dal Concordato lateranense del 1929, ha continuato, con le proprie istituzioni ed attività, a fornire un fattivo contributo al bene comune, intervenendo in particolare a sostegno delle persone più emarginate e sofferenti, e soprattutto proseguendo ad alimentare il corpo sociale di quei valori morali che sono essenziali per la vita di una società democratica, giusta, ordinata. Il bene del Paese, integralmente inteso, è stato sempre perseguito e particolarmente espresso in momenti di alto significato, come nella 'grande preghiera per l’Italia' indetta dal Venerabile Giovanni Paolo II il 10 gennaio 1994".Benedetto XVI ha anche ribadito il suo giudizio positivo sulla revisione del Concordato del 1984' che "ha segnato il passaggio ad una nuova fase dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia", "chiaramente avvertito" dal venerabile Giovanni Paolo II.

Lontana da ogni clericalismo, oggi "la Chiesa è consapevole non solo del contributo che essa offre alla società civile per il bene comune, ma anche di ciò che riceve dalla società civile, come afferma il Concilio Vaticano II".  "Passate le turbolenze causate dalla "questione romana", giunti all’auspicata Conciliazione, anche lo Stato Italiano ha offerto e continua ad offrire una collaborazione preziosa, di cui la Santa Sede fruisce e di cui è consapevolmente grata".

tratto da "La bussola quotidiana" - 16 marzo 2011  

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE

Illustrissimo Signore
On. GIORGIO NAPOLITANO
Presidente della Repubblica Italiana


Il 150° anniversario dell’unificazione politica dell’Italia mi offre la felice occasione per riflettere sulla storia di questo amato Paese, la cui Capitale è Roma, città in cui la divina Provvidenza ha posto la Sede del Successore dell’Apostolo Pietro.

Pertanto, nel formulare a Lei e all’intera Nazione i miei più fervidi voti augurali, sono lieto di parteciparLe, in segno dei profondi vincoli di amicizia e di collaborazione che legano l’Italia e la Santa Sede, queste mie considerazioni.

Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento, costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale.

Il Cristianesimo ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali, rapporti sociali; ma anche mediante una ricchissima attività artistica: la letteratura, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica.

Dante, Giotto, Petrarca, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, Caravaggio, Scarlatti, Bernini e Borromini sono solo alcuni nomi di una filiera di grandi artisti che, nei secoli, hanno dato un apporto fondamentale alla formazione dell’identità italiana. Anche le esperienze di santità, che numerose hanno costellato la storia dell’Italia, contribuirono fortemente a costruire tale identità, non solo sotto lo specifico profilo di una peculiare realizzazione del messaggio evangelico, che ha marcato nel tempo l’esperienza religiosa e la spiritualità degli italiani (si pensi alle grandi e molteplici espressioni della pietà popolare), ma pure sotto il profilo culturale e persino politico.

San Francesco di Assisi, ad esempio, si segnala anche per il contributo a forgiare la lingua nazionale; santa Caterina da Siena offre, seppure semplice popolana, uno stimolo formidabile alla elaborazione di un pensiero politico e giuridico italiano.

L’apporto della Chiesa e dei credenti al processo di formazione e di consolidamento dell’identità nazionale continua nell’età moderna e contemporanea. Anche quando parti della penisola furono assoggettate alla sovranità di potenze straniere, fu proprio grazie a tale identità ormai netta e forte che, nonostante il perdurare nel tempo della frammentazione geopolitica, la nazione italiana poté continuare a sussistere e ad essere consapevole di sé. Perciò, l’unità d’Italia, realizzatasi nella seconda metà dell’Ottocento, ha potuto aver luogo non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo.

La comunità politica unitaria nascente a conclusione del ciclo risorgimentale ha avuto, in definitiva, come collante che teneva unite le pur sussistenti diversità locali, proprio la preesistente identità nazionale, al cui modellamento il Cristianesimo e la Chiesa hanno dato un contributo fondamentale.

Per ragioni storiche, culturali e politiche complesse, il Risorgimento è passato come un moto contrario alla Chiesa, al Cattolicesimo, talora anche alla religione in generale. Senza negare il ruolo di tradizioni di pensiero diverse, alcune marcate da venature giurisdizionaliste o laiciste, non si può sottacere l’apporto di pensiero - e talora di azione - dei cattolici alla formazione dello Stato unitario. Dal punto di vista del pensiero politico basterebbe ricordare tutta la vicenda del neoguelfismo che conobbe in Vincenzo Gioberti un illustre rappresentante; ovvero pensare agli orientamenti cattolico-liberali di Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio, Raffaele Lambruschini. Per il pensiero filosofico, politico ed anche giuridico risalta la grande figura di Antonio Rosmini, la cui influenza si è dispiegata nel tempo, fino ad informare punti significativi della vigente Costituzione italiana. E per quella letteratura che tanto ha contribuito a "fare gli italiani", cioè a dare loro il senso dell’appartenenza alla nuova comunità politica che il processo risorgimentale veniva plasmando, come non ricordare Alessandro Manzoni, fedele interprete della fede e della morale cattolica; o Silvio Pellico, che con la sua opera autobiografica sulle dolorose vicissitudini di un patriota seppe testimoniare la conciliabilità dell’amor di Patria con una fede adamantina. E di nuovo figure di santi, come san Giovanni Bosco, spinto dalla preoccupazione pedagogica a comporre manuali di storia Patria, che modellò l’appartenenza all’istituto da lui fondato su un paradigma coerente con una sana concezione liberale: "cittadini di fronte allo Stato e religiosi di fronte alla Chiesa".

La costruzione politico-istituzionale dello Stato unitario coinvolse diverse personalità del mondo politico, diplomatico e militare, tra cui anche esponenti del mondo cattolico. Questo processo, in quanto dovette inevitabilmente misurarsi col problema della sovranità temporale dei Papi (ma anche perché portava ad estendere ai territori via via acquisiti una legislazione in materia ecclesiastica di orientamento fortemente laicista), ebbe effetti dilaceranti nella coscienza individuale e collettiva dei cattolici italiani, divisi tra gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dall’appartenenza ecclesiale dall’altro. Ma si deve riconoscere che, se fu il processo di unificazione politico-istituzionale a produrre quel conflitto tra Stato e Chiesa che è passato alla storia col nome di "Questione Romana", suscitando di conseguenza l’aspettativa di una formale "Conciliazione", nessun conflitto si verificò nel corpo sociale, segnato da una profonda amicizia tra comunità civile e comunità ecclesiale. L’identità nazionale degli italiani, così fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche, costituì in verità la base più solida della conquistata unità politica. In definitiva, la Conciliazione doveva avvenire fra le Istituzioni, non nel corpo sociale, dove fede e cittadinanza non erano in conflitto. Anche negli anni della dilacerazione i cattolici hanno lavorato all’unità del Paese. L’astensione dalla vita politica, seguente il "non expedit", rivolse le realtà del mondo cattolico verso una grande assunzione di responsabilità nel sociale: educazione, istruzione, assistenza, sanità, cooperazione, economia sociale, furono ambiti di impegno che fecero crescere una società solidale e fortemente coesa. La vertenza apertasi tra Stato e Chiesa con la proclamazione di Roma capitale d’Italia e con la fine dello Stato Pontificio, era particolarmente complessa. Si trattava indubbiamente di un caso tutto italiano, nella misura in cui solo l’Italia ha la singolarità di ospitare la sede del Papato. D’altra parte, la questione aveva una indubbia rilevanza anche internazionale. Si deve notare che, finito il potere temporale, la Santa Sede, pur reclamando la più piena libertà e la sovranità che le spetta nell’ordine suo, ha sempre rifiutato la possibilità di una soluzione della "Questione Romana" attraverso imposizioni dall’esterno, confidando nei sentimenti del popolo italiano e nel senso di responsabilità e giustizia dello Stato italiano. La firma dei Patti lateranensi, l’11 febbraio 1929, segnò la definitiva soluzione del problema. A proposito della fine degli Stati pontifici, nel ricordo del beato Papa Pio IX e dei Successori, riprendo le parole del Cardinale Giovanni Battista Montini, nel suo discorso tenuto in Campidoglio il 10 ottobre 1962: "Il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione sul mondo, come prima non mai".

L’apporto fondamentale dei cattolici italiani alla elaborazione della Costituzione repubblicana del 1947 è ben noto.

Se il testo costituzionale fu il positivo frutto di un incontro e di una collaborazione tra diverse tradizioni di pensiero, non c’è alcun dubbio che solo i costituenti cattolici si presentarono allo storico appuntamento con un preciso progetto sulla legge fondamentale del nuovo Stato italiano; un progetto maturato all’interno dell’Azione Cattolica, in particolare della FUCI e del Movimento Laureati, e dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ed oggetto di riflessione e di elaborazione nel Codice di Camaldoli del 1945 e nella XIX Settimana Sociale dei Cattolici Italiani dello stesso anno, dedicata al tema "Costituzione e Costituente". Da lì prese l'avvio un impegno molto significativo dei cattolici italiani nella politica, nell’attività sindacale, nelle istituzioni pubbliche, nelle realtà economiche, nelle espressioni della società civile, offrendo così un contributo assai rilevante alla crescita del Paese, con dimostrazione di assoluta fedeltà allo Stato e di dedizione al bene comune e collocando l’Italia in proiezione europea. Negli anni dolorosi ed oscuri del terrorismo, poi, i cattolici hanno dato la loro testimonianza di sangue: come non ricordare, tra le varie figure, quelle dell’On. Aldo Moro e del Prof. Vittorio Bachelet? Dal canto suo la Chiesa, grazie anche alla larga libertà assicuratale dal Concordato lateranense del 1929, ha continuato, con le proprie istituzioni ed attività, a fornire un fattivo contributo al bene comune, intervenendo in particolare a sostegno delle persone più emarginate e sofferenti, e soprattutto proseguendo ad alimentare il corpo sociale di quei valori morali che sono essenziali per la vita di una società democratica, giusta, ordinata. Il bene del Paese, integralmente inteso, è stato sempre perseguito e particolarmente espresso in momenti di alto significato, come nella "grande preghiera per l’Italia" indetta dal Venerabile Giovanni Paolo II il 10 gennaio 1994.

La conclusione dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense, firmato il 18 febbraio 1984, ha segnato il passaggio ad una nuova fase dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia. Tale passaggio fu chiaramente avvertito dal mio Predecessore, il quale, nel discorso pronunciato il 3 giugno 1985, all’atto dello scambio degli strumenti di ratifica dell’Accordo, notava che, come "strumento di concordia e collaborazione, il Concordato si situa ora in una società caratterizzata dalla libera competizione delle idee e dalla pluralistica articolazione delle diverse componenti sociali: esso può e deve costituire un fattore di promozione e di crescita, favorendo la profonda unità di ideali e di sentimenti, per la quale tutti gli italiani si sentono fratelli in una stessa Patria".

Ed aggiungeva che nell’esercizio della sua diaconia per l’uomo "la Chiesa intende operare nel pieno rispetto dell’autonomia dell’ordine politico e della sovranità dello Stato. Parimenti, essa è attenta alla salvaguardia della libertà di tutti, condizione indispensabile alla costruzione di un mondo degno dell’uomo, che solo nella libertà può ricercare con pienezza la verità e aderirvi sinceramente, trovandovi motivo ed ispirazione per l’impegno solidale ed unitario al bene comune".

L’Accordo, che ha contribuito largamente alla delineazione di quella sana laicità che denota lo Stato italiano ed il suo ordinamento giuridico, ha evidenziato i due principi supremi che sono chiamati a presiedere alle relazioni fra Chiesa e comunità politica: quello della distinzione di ambiti e quello della collaborazione. Una collaborazione motivata dal fatto che, come ha insegnato il Concilio Vaticano Il, entrambe, cioè la Chiesa e la comunità politica, "anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane" (Cost. Gaudium et spes, 76). L’esperienza maturata negli anni di vigenza delle nuove disposizioni pattizie ha visto, ancora una volta, la Chiesa ed i cattolici impegnati in vario modo a favore di quella "promozione dell’uomo e del bene del Paese" che, nel rispetto della reciproca indipendenza e sovranità, costituisce principio ispiratore ed orientante del Concordato in vigore (art. 1). La Chiesa è consapevole non solo del contributo che essa offre alla società civile per il bene comune, ma anche di ciò che riceve dalla società civile, come affrerma il Concilio Vaticano II: "chiunque promuove la comunità umana nel campo della famiglia, della cultura, della vita economica e sociale, come pure della politica, sia nazionale che internazionale, porta anche un non piccolo aiuto, secondo la volontà di Dio, alla comunità ecclesiale, nelle cose in cui essa dipende da fattori esterni" (Cost. Gaudium et spes, 44).

Nel guardare al lungo divenire della storia, bisogna riconoscere che la nazione italiana ha sempre avvertito l’onere ma al tempo stesso il singolare privilegio dato dalla situazione peculiare per la quale è in Italia, a Roma, la sede del successore di Pietro e quindi il centro della cattolicità. E la comunità nazionale ha sempre risposto a questa consapevolezza esprimendo vicinanza affettiva, solidarietà, aiuto alla Sede Apostolica per la sua libertà e per assecondare la realizzazione delle condizioni favorevoli all’esercizio del ministero spirituale nel mondo da parte del successore di Pietro, che è Vescovo di Roma e Primate d’Italia.

Passate le turbolenze causate dalla "questione romana", giunti all’auspicata Conciliazione, anche lo Stato Italiano ha offerto e continua ad offrire una collaborazione preziosa, di cui la Santa Sede fruisce e di cui è consapevolmente grata.

Nel presentare a Lei, Signor Presidente, queste riflessioni, invoco di cuore sul popolo italiano l’abbondanza dei doni celesti, affinché sia sempre guidato dalla luce della fede, sorgente di speranza e di perseverante impegno per la libertà, la giustizia e la pace.

Dal Vaticano, 17 marzo 2011

BENEDICTUS PP. XVI

17 marzo 2011: Buon compleanno Italia!


venerdì 11 marzo 2011

Il vero digiuno

Dal libro del profeta Isaìa

Così dice il Signore:
«Grida a squarciagola, non avere riguardo;
alza la voce come il corno,
dichiara al mio popolo i suoi delitti,
alla casa di Giacobbe i suoi peccati.
Mi cercano ogni giorno,
bramano di conoscere le mie vie,
come un popolo che pratichi la giustizia
e non abbia abbandonato il diritto del suo Dio;
mi chiedono giudizi giusti,
bramano la vicinanza di Dio:
“Perché digiunare, se tu non lo vedi,
mortificarci, se tu non lo sai?”.
Ecco, nel giorno del vostro digiuno curate i vostri affari,
angariate tutti i vostri operai.
Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi
e colpendo con pugni iniqui.
Non digiunate più come fate oggi,
così da fare udire in alto il vostro chiasso.
È forse come questo il digiuno che bramo,
il giorno in cui l’uomo si mortifica?
Piegare come un giunco il proprio capo,
usare sacco e cenere per letto,
forse questo vorresti chiamare digiuno
e giorno gradito al Signore?
Non è piuttosto questo il digiuno che voglio:
sciogliere le catene inique,
togliere i legami del giogo,
rimandare liberi gli oppressi
e spezzare ogni giogo?
Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato,
nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto,
nel vestire uno che vedi nudo,
senza trascurare i tuoi parenti?
Allora la tua luce sorgerà come l’aurora,
la tua ferita si rimarginerà presto.
Davanti a te camminerà la tua giustizia,
la gloria del Signore ti seguirà.
Allora invocherai e il Signore ti risponderà,
implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”».

venerdì 4 marzo 2011

A difesa della nostra Costituzione

Il word cloud a forma di Italia è stato realizzato utilizzando il testo della Costituzione Italiana. La dimensione delle parole presenti rispetta la frequenza all’interno del testo.

La peggior forma di governo

  " La democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre fino ad ora sperimentate " Winston Churchill a...