sabato 13 agosto 2011

Il nostro cuore gronda sangue

"Il nostro cuore gronda sangue quando pensiamo che uno dei vanti di questo Governo era quello di non aver mai messo le mani nelle tasche degli italiani. Ma la situazione mondiale è cambiata e abbiamo di fronte la più grande sfida planetaria"

Silvio Berlusconi, conferenza stampa di presentazione della supermanovra, La Stampa, 13 agosto 2011


"Nulla è più eterogenesi dei fini dell'avventura politica di un uomo che comincia annunciando la riduzione delle tasse e finisce aumentandole; che comincia mostrando come modello il successo delle sue aziende e finisce con l'Italia sull'orlo del fallimento" .

Michele Brambilla, La sconfitta del Cavaliere, La Stampa, 13 agosto 2011

mercoledì 10 agosto 2011

La crisi del modello culturalista inglese

La rivolta di giovani immigrati, e inglesi figli di immigrati, disoccupati - in gran parte africani e caraibici -, scoppiata nel quartiere londinese di Tottenham dopo l'uccisione in un conflitto a fuoco del tassista e, secondo la polizia, spacciatore di droga Mark Duggan (1981-2011), rischia ora di estendersi a tutta la Gran Bretagna.

Benché alcuni degli attivisti che cercano di guidarla siano affiliati a movimenti islamici, la rivolta non ha carattere religioso. Né nasce, come molti quotidiani dicono, dai Blackberry che - spiazzati dalla concorrenza degli iPhone - sono diventati a Londra i telefoni dei poveri e degli immigrati e sono serviti a convocare a colpi di SMS i rivoltosi, aggirando la polizia che sorvegliava invece Twitter e Facebook. I Blackberry sono evidentemente lo strumento, non la causa di un fenomeno che nasce - e in questo senso è simile alle rivolte che hanno dato origine in Tunisia e in Egitto alle cosiddette "primavere arabe" - dalla crisi economica e dal carovita. Ancora una volta, assistiamo a tumulti che ricordano quelli settecenteschi della "vie chère" in Francia, che - abilmente indirizzati e sfruttati da politicanti che però non li avevano suscitati né organizzati - prepararono la Rivoluzione francese del 1789.

Se tuttavia la crisi economica ha prodotto e sta producendo in Gran Bretagna fenomeni così gravi, una causa va cercata anche nel fallimento - ormai ammesso anche da una parte della classe politica britannica - del modello multiculturalista di cui fino a qualche anno fa Londra andava orgogliosa, proponendolo anzi anche a noi come soluzione di tutti i problemi dell'immigrazione.

La parola “multiculturalismo”, in realtà, è nata in Canada negli anni 1960 come evoluzione di “biculturalismo”, espressione ottocentesca creata per sottolineare la possibilità offerta alla comunità di lingua francese di mantenere la sua lingua e le sue tradizioni. Nonostante il separatismo sempre vivo nel Québec, l'esperimento è riuscito perché ai canadesi divisi dalla lingua è stata offerta quella che il sociologo inglese Tariq Modood ha definito "una narrativa comune", un insieme di simboli e di riferimenti alla patria canadese cementati dal comune impegno nelle guerre mondiali. Il successo del biculturalismo in Canada ha permesso nel XX secolo la sua trasformazione in “multiculturalismo”, accogliendo anzitutto tre grandi comunità - cinese, italiana e giamaicana - che hanno mantenuto, molto più che negli Stati Uniti, la loro lingua e cultura.

In Gran Bretagna il multiculturalismo è diventato una parola d'ordine della sinistra e dei cosiddetti "professionisti dell'anti-razzismo" dopo il 1968 e ha significato sussidi e ampia autonomia per i vari gruppi etnici nigeriani, caraibici, indiani, pakistani. Ma la diffidenza di quella sinistra per il patriottismo ha impedito che agli immigrati fosse trasmessa una "narrativa comune" alla canadese.
I primi problemi sono nati quando una rivendicazione di autonomia è stata avanzata dai musulmani che, a differenza degli italiani, dei cinesi e anche dei pakistani, non sono un gruppo etnico ma religioso, le cui domande vanno ben al di là della preservazione di una lingua, di una musica o di una cucina e investono la sfera fondamentale dei rapporti di famiglia e dei diritti umani.

Questo equivoco che confonde etnicità e religione ha, per così dire, imbastardito il multiculturalismo, trasformandolo da rispetto per tradizioni culturali diverse che possono coesistere - all'interno, appunto, di una "narrativa comune" - in cedimento a pericolose pretese prima di musulmani e poi anche di altri di organizzarsi separatamente quanto al diritto di famiglia, a pratiche come l'uso di certe droghe "etniche" e alla gestione dei quartieri dove sono maggioranza.

In tempi di prosperità economica, era almeno mantenuto un certo ordine pubblico, non senza rivolte occasionali. In tempi di gravissima crisi economica e di disoccupazione maggioritaria tra i giovani, i quartieri "ingestibili" dalla polizia esplodono e la presunta gestione responsabile e separata da parte delle singole comunità etniche si rivela inaffidabile.

Il multiculturalismo britannico, dunque, è fallito. L'alternativa, tuttavia, non è l'uniculturalismo alla francese, che sostituisce il modello multiculturale con un laicismo che combatte ogni identità religiosa e culturale diversa dall'ideologia ufficiale laica e illuminista dello Stato. Come ricorda Benedetto XVI, la vera alternativa  è la faticosa costruzione di un equilibrio fra un'affermazione forte dell'identità e della storia della maggioranza - che in Europa è cristiana - e una libertà religiosa e culturale offerta alle minoranze che rifiutino senza ambiguità la violenza e accettino i valori fondamentali della società di cui entrano a fare parte. È questa la vera porta d'ingresso a una "narrativa comune".
In Italia la situazione potenzialmente non è meno esplosiva che in Inghilterra.
A Torino, per esempio, il venticinque per cento dei giovani tra i quindici e i ventinove anni non ha genitori italiani, e il problema della disoccupazione non è meno grave che a Londra. Quello che finora ci ha salvato da rivolte sullo stile di Tottenham - dove muore il multiculturalismo - e delle banlieue parigine, dove è morto l'uniculturalismo, è una "terza via" italiana che ha cercato di evitare i quartieri-ghetto monoetnici e, senza forzature alla francese, si è sforzata di proporre una offerta d'integrazione alle singole famiglie immigrate piuttosto che delegare un'ambigua "gestione separata" alle singole comunità. Ma anche la nostra non è solo una storia di successi, e la tentazione di percorrere strade sbagliate - per esempio, non mancano nel nostro Parlamento tardivi cantori del multiculturalismo - è sempre dietro l'angolo.
Massimo Introvigne, la bussola quotidiana

martedì 2 agosto 2011

La primavera incompiuta

Al rientro dalla Libia di Gheddafi vado a trovare una famiglia amica. La Tunisia, in cui vive, conosce l´ebbrezza e l´affanno della democrazia incompiuta, ancora da inventare, alla ricerca di un modello costituzionale. Inoltre la fine di una dittatura non implica l´avvento di un miracoloso benessere. Anzi, può accadere il contrario. Infatti l´economia soffre. Nella famiglia amica ne sono coscienti e partecipano all´agitata, appassionante transizione con lo slancio di chi può infine esprimere le proprie idee e agire con la speranza che si realizzino. Tutti consapevoli che non sarà facile. È evidente il fastidio quando parlo, forse dottoreggiando un po´, delle esperienze storiche europee in fatto di democrazia. Sembra una lezione e lo sguardo di Moncef, a lungo impegnato in una casa editrice mitragliata dalla censura, si distrae, si perde nel limpido mare di La Marsa, il sobborgo residenziale di Tunisi dopo Cartagine e Salambò, in cui abita con i suoi. Ed Essiah, la sorella, sfodera il suo solito intelligente sarcasmo con un´eloquente silenziosa occhiata. Non mi resta che tacere e ascoltare.
Considero quella di Essiah, di Moncef e della moglie Leila la mia seconda famiglia. La prima per elezione. Da decenni ci lega una profonda amicizia, punteggiata per loro da sofferti e interminabili periodi politici. Penso ai tre decenni dopo l´indipendenza (1956), dominati da Bourghiba, un raìs di stampo particolare, che a tratti ragionava come un radicale della Terza Repubblica francese, ma che restava pur sempre un despota; e ai quasi tre decenni, assai più oscuri, di Ben Ali, trasformato dal lungo potere e dalla moglie avida di denaro in un pirata-gangster. In quel più di mezzo secolo di tirannia la grande famiglia tunisina, devota all´indipendenza nazionale e al tempo stesso imbevuta di cultura francese, non ha ceduto un pollice della propria dignità. È rimasta liberale, laica e sprezzante verso il potere corrotto, cioè fedele ai principi dei vecchi defunti: il nonno, celebre avvocato nazionalista che avrebbe potuto recitare Molière e il Codice di Napoleone, come le devote donne di casa il Corano; e il padre, direttore di banca, che in gioventù si batté contro i nazisti come ufficiale ("indigeno") dell´esercito francese, quando la Tunisia era un "protettorato" di Parigi.
Adesso il puntiglioso razionalismo che ha consentito alla famiglia la sopravvivenza intellettuale nei tempi bui è venato da un´emozione che incute rispetto, e che esenta da interferenze. Moncef è troppo amico e troppo raffinato per dirlo apertamente: ma in definitiva credo di capire quel che pensa.
La democrazia in gestazione in Tunisia è affar loro. Me ne rendo conto, mi accorgo che parlavo da un pulpito al momento non particolarmente attendibile. Settant´anni dopo la fine del fascismo e l´arrivo della democrazia, il mio paese, che Moncef ed Essiah conoscono bene, conta tre (o quattro) mafie, equivalenti a tribù criminali che non riconoscono lo Stato, e da tre lustri vi prevale a singhiozzo un berlusconismo difficilmente proponibile come modello. In quanto alla Francia, con la quale, abitandovi da tanto tempo, mi capita abusivamente di identificarmi, fino a qualche mese fa era devota a Ben Ali, il raìs cacciato dai tunisini a furor di popolo.
La primavera araba non è stata tradita. Ha poco più di sei mesi ed è più che mai viva. Continua. È una rivoluzione profonda e come tutte le rivoluzioni è contrastata, tormentata, conosce momenti di euforia ed altri di smarrimento. I frequenti scioperi, i turisti meno numerosi, gli investimenti stranieri esitanti creano problemi. Ma la Tunisia, etnicamente omogenea ed economicamente dinamica, se la cava meglio del molto più grande e complicato Egitto, l´altro teatro della primavera araba. È azzardato, anzi impossibile, immaginare quale sarà l´esito finale. Le svolte radicali, le restaurazioni sotto parvenze liberali, gli scontri tra laici e religiosi non sono da escludere. Ma la tendenza prevalente nel fervore rivoluzionario, in due realtà diverse come la piccola Tunisia e il grande Egitto, è di creare una società più aperta, pluralista, democratica. Alcune specificità arabe sono ostacoli che non è semplice aggirare: come creare un quadro istituzionale in cui siano possibili relazioni distese tra lo Stato e l´Islam; come consentire eguali diritti alle minoranze etniche e religiose; come equilibrare i redditi, finora basati spesso sugli abusi e la corruzione; come risanare una burocrazia inefficiente e asservita ai potenti; come rifondare il sistema giudiziario; e fare dell´esercito e della polizia strumenti al servizio di una costituzione democratica ancora da scrivere. E quali rapporti stabilire con i Paesi in cui i raìs o i monarchi continuano ad esercitare poteri assoluti, sia pure contestati. Con la Siria ad esempio, dove il raìs (Assad) resiste massacrando gli oppositori, o con la remota Arabia Saudita, danarosa per il petrolio e influente in quanto custode della Mecca e di Medina. Migliaia di automobili libiche, riconoscibili per la targa d´immatricolazione bianca, percorrono in questi giorni la Tunisia: sono ricchi profughi da Tripoli o da Bengasi, amici o nemici di Gheddafi, che ricordano con la loro presenza ai tunisini che il sanguinoso confronto tra i raìs e la democrazia in Libia è ancora aperto. Là l´esito della guerra civile resta incerto. Ed è un costante segnale d´allarme.
I miei amici di La Marsa, Moncef e Essiah, esprimono un´élite; ma la Tunisia è comunque uno dei paesi più scolarizzati del mondo arabo; e se recupera i numerosi esperti (intellettuali, economisti, ingegneri, medici) dispersi in Occidente e in Medio Oriente, può disporre di una classe dirigente di qualità. Jalloul Ayed, il ministro delle Finanze ed ex dirigente della Citibank (oltre che musicista), pensa che il Paese potrebbe diventare in meno di dieci anni qualcosa di simile a una Singapore del Mediterraneo. La crescita economica azzerata dai timori suscitati dalla rivoluzione non lo spaventa. Risalirà. Le insurrezioni popolari sollecitano i sogni. La rapidità con cui è stata spazzata via la dittatura ha acceso le fantasie, spinge a immaginare un futuro forse irrealistico e tuttavia impensabile fino a sei mesi fa.
Per ora la Tunisia continua a conoscere momenti di vivacità, a tratti di collera rivoluzionaria. Moncef, e suo nipote Mehedi, regista cinematografico appena arrivato da Parigi, erano impazienti di raggiungere il centro della capitale per partecipare a una manifestazione contro le intemperanze dei movimenti religiosi. Non bisogna lasciarli fare. Nell´attesa di una costituzione che stabilisca le regole democratiche, i laici si impegnano in un confronto politico teso ad arginare un´eventuale ondata islamica.
Durante le brevi soste a Sfax e a Jerba (andando o ritornando dalla Libia) ho visto quanto siano ancora agitati i rapporti tra la popolazione e la polizia, per decenni al servizio del raìs, e quindi accusata di numerosi delitti, dalla brutale repressione alla tortura. Sei mesi dopo l´insurrezione, che ha cacciato Zine El-Abidine Ben Ali e la moglie Leila Trabelsi (adesso in esilio in Arabia Saudita), la gente non ha più paura di chi indossa divise e imbraccia armi. Ha un certo rispetto per i militari perché l´esercito ha contribuito alla cacciata del rais. La polizia non ha diritto agli stessi riguardi. In una sola notte, a metà luglio, sono stati assaltati con cocktail Molotov e lanci di pietre sei o sette commissariati.
A loro volta gli agenti di polizia hanno creato un loro sindacato. Non esiste nulla del genere nel mondo arabo. Il nuovo sindacato segna la svolta democratica delle "forze per la sicurezza interna", e al tempo stesso esige, insieme al diritto di voto finora negato ai poliziotti, migliori condizioni di lavoro. I salari sono bassi, tra 600 e 800 dinari (300-400 euro) al mese per un agente semplice. Un aumento si impone. E poi ci vuole qualche condizionatore in caserma per combattere il caldo; e i servizi igienici, docce e cessi, devono essere ammodernati. Anche queste sono rivendicazioni.
Per evitare vendette personali, gli ufficiali e gli agenti sono stati trasferiti in località lontane da quelle in cui erano in servizio durante la dittatura. Ma sono ugualmente presi di mira la notte da chi vuole regolare i conti con il concreto simbolo della repressione (che nei giorni caldi della rivolta ha fatto 300 morti). Di giorno capita che gli stessi poliziotti incrocino le braccia per usufruire delle conquiste civili ottenute dall´insurrezione popolare. Scioperavano quando mi trovavo a Sfax. E poi a Jerba. Insomma le espiazioni notturne per la passata azione controrivoluzionaria si alternano alle rivendicazioni diurne avanzate nel nome della rivoluzione oggi in marcia e un tempo repressa. Quelli della Lega dei diritti dell´uomo denunciano tuttavia numerose violenze commesse da poliziotti, in divisa nera e il viso coperto, in diverse località. Compresa la capitale. Le tentazioni controrivoluzionarie, o le semplici azioni di rivalsa, sia pur sporadiche, non si sono dunque spente. Lo straniero non se ne rende conto. Il turista non deve essere disturbato. E non lo è.
Beji Caid Essebsi, primo ministro dal 27 febbraio, è un 84enne che non manca di energia. È stato ministro nei governi del raìs, ma senza mai perdere la dignità. A lui è affidata la transizione, nell´attesa del 23 ottobre, quando sarà eletta l´Assemblea costituente, alla quale spetterà di varare entro un anno la "magna charta" della prima vera democrazia tunisina. Il Paese doveva andare alle urne il 24 luglio, ma la data è stata ragionevolmente ritardata per dar tempo ai più di 90 partiti registratisi (formazioni laiche e religiose di varia intensità islamica) di prepararsi all´appuntamento. La legge elettorale, basata sul sistema proporzionale, sfoltirà i ranghi e finirà con l´ammettere soltanto una decina di partiti nell´Assemblea costituente. La futura Costituzione potrebbe essere influenzata da quella francese, un po´ presidenziale e un po´ parlamentare. Ma dopo la lunga esperienza autoritaria il presidenzialismo non dovrebbe troppo prevalere.
Quasi tutti i sondaggi sulle intenzioni di voto mettono in testa Nahda, il principale partito islamico. Il cui prestigio è basato anche sull´incorruttibilità dei suoi dirigenti, e sulle persecuzioni subite dai suoi affiliati e simpatizzanti durante la dittatura (cinquemila imprigionati nei momenti più duri, e spesso per vent´anni). Il leader di Nahda, il settantenne Rashid Gannouchi, un matematico, ritornato dopo più di vent´anni dall´esilio londinese, si prodiga nel presentare il suo partito come una formazione moderata, tollerante, rispettosa delle regole democratiche, ed anche favorevole ai diritti delle donne, in Tunisia riconosciuti, fin dai tempi di Bourghiba, molto di più che nel resto del mondo arabo. Nahda non si propone di applicare la sharia, la legge coranica, né di proibire l´uso dell´alcol, né di moralizzare il turismo. Come molti islamisti, colti di sorpresa dall´insurrezione popolare in favore delle libertà fondamentali e ansiosi di adeguarsi, Rashid Gannouchi considera con attenzione la Turchia di Erdogan, un modello politico in cui Islam e democrazia convivono. Nessuna indagine d´opinione attribuisce comunque a Nahda la maggioranza assoluta. Al massimo potrebbe ottenere il 25 per cento. Il sondaggio più recente, a mia conoscenza, cala bruscamente, non va oltre il 14 per cento. Circa tre tunisini su quattro non si dichiarano islamisti e dicono di non avere fiducia nel partito di Rashid Gannouchi. Lo accusano di adottare toni diversi secondo il pubblico. Un movimento, che si definisce Polo democratico modernista, cerca di riunire tutti i partiti laici, incluso l´ex partito comunista (Tajdid), con l´obiettivo di arginare Nahda. E comunque di formare una maggioranza capace di governare senza il grande partito islamico.
Il panorama politico e sociale si allarga e diventa opaco, nebbioso, se si sposta lo sguardo sull´Egitto, l´altro teatro della primavera araba. La piccola Tunisia ha trascinato nella rivoluzione, con il suo esempio, il più grande Paese arabo, abitato da una popolazione dieci volte più numerosa, e con un passato remoto tra i più famosi nella storia dell´uomo. Dal 1952, quando gli "ufficiali liberi" cacciarono re Faruk e abolirono la monarchia, i militari controllano la società egiziana. Ancora oggi sono loro che fissano i tempi e le regole, quindi anche i limiti, della transizione democratica. Il tunisino Habib Bourghiba, il padre della patria, diffidava dei militari e relegò le forze armate in un ruolo secondario. Il successore, Ben Ali, pur essendo un ufficiale di carriera, aveva più l´anima dello sbirro che del soldato. Ma il frustrato esercito tunisino è diventato decisivo quando è esplosa l´insurrezione popolare. Senza il suo sostegno la rivolta non sarebbe sfociata in una rivoluzione. Come senza la decisione dell´esercito egiziano, Hosni Mubarak non sarebbe stato spinto alle dimissioni, vale a dire destituito. A differenza di quelli tunisini, i militari egiziani continuano tuttavia a tenere le redini del potere e non hanno intenzione di cederle. Erano la spina dorsale del regime quando comandava il raìs, che era uno di loro, e adesso, disciplinano il passaggio alla democrazia. Questo fa dire a Wafik Ghitany, esponente del partito Wafd (liberale) che «l´ex regime controlla ancora il Paese». Oppure, con più sarcasmo, si chiede se sia opportuno affidare «alla dittatura il compito di processare se stessa».
Il generale Mahmud Hegazy, membro del Consiglio supremo delle Forze armate, precisa che spetta ai militari distinguere tra le richieste legittime e quelle illegittime della popolazione. E un noto giornalista, Hisham Kassem, aggiunge che almeno per altri dieci anni neppure un presidente eletto democraticamente potrà sfidare il potere militare. Il generale Mahmud Shahine è più possibilista. Secondo lui le cose cambieranno quando entrerà in vigore la nuova Costituzione, che l´Assemblea eletta il prossimo autunno dovrà redigere. Di questo, del ruolo dei militari, si dibatte in particolare al Cairo nell´attesa delle elezioni. Finora, ad eccezione dei suoi membri, nessuno conosce il numero esatto dei componenti del Consiglio supremo delle Forze armate (si dice siano 19), né l´identità di tutti coloro che ne fanno parte.
La destituzione dei raìs è stato soltanto un passo, sia pure decisivo, verso la democrazia. Se a Tunisi riesce difficile liberare lo Stato da tutte le incrostazioni del vecchio regime, in Egitto l´impresa appare titanica. Dall´8 luglio centinaia di migliaia di egiziani hanno riempito al Cairo piazza Tahrir, sei mesi prima teatro dell´insurrezione popolare. È vero, l´atmosfera era diversa. Gli interventi, sia pur violenti, per disperdere la folla, non avevano l´intensità di una repressione. Quella presenza popolare su piazza Tahrir era comunque il segno di una vasta insoddisfazione. La tutela militare sul processo democratico crea insofferenza e suscita sospetti. I generali cercano di apparire aperti al dialogo, e si rendono accessibili via Facebook o in riunioni in cui sono ammesse le critiche, ma il loro comportamento assomiglia più a quello dei predicatori che a quello di dirigenti rispettosi dei principi democratici. Insomma, più che dialogare comandano. È un vizio professionale. Quelli di piazza Tahrir esigono i processi dei membri del vecchio regime, corrotti o colpevoli di vari delitti (torture e repressioni), e i generali li concedono, risparmiando però i militari. Con l´eccezione di Mubarak, che è un generale, che dovrebbe essere processato domani. Sempre i militari ripristinano il ministero dell´Informazione, un tempo strumento di censura, ma i giornali non rinunciano alle libertà di informazione e d´opinione conquistate. Lo spazio delle libertà è più ampio, si sente che è passata la rivoluzione, anzi che è ancora in corso, a volte sulle piazze, sempre in molti cuori e cervelli. Ma c´è anche incertezza.
Al principale partito religioso, quello dei Fratelli Musulmani, i sondaggi pronosticano un robusto successo elettorale. Ma non superiore al 20 per cento. I loro concorrenti salafiti, militanti dell´ala islamica ultra-puritana, si sono divisi in almeno quattro gruppi. I quali non riservano le critiche più aspre ai partiti laici, ma si accaniscono più volentieri contro il movimento Sufi, rappresentante una tendenza esoterica e tradizionale dell´Islam. La gara su chi è più ortodosso impegna i partiti religiosi. I quali non trascurano i rapporti con i generali. I Fratelli Musulmani, i più organizzati e disciplinati, hanno cacciato dalle loro file i giovani radicali, suscettibili di inquinare la rispettabilità democratica del partito agli occhi dei militari, che un tempo impiccavano o tenevano nei campi o in prigione, insieme ai comunisti, i membri della confraternita, allora al bando. Oggi i Fratelli Musulmani si fanno in quattro per apparire cittadini esemplari. Ma, come a Tunisi, molti diffidano di loro.

La Repubblica, 02/08/2011, Bernardo Valli

La prospettiva del meticciato

Il «meticciato» di civiltà e culture è una prospettiva ormai «molto concreta» di fronte alle ondate migratorie provenienti dall’Africa subsahariana, destinate ad aumentare e provocate da «condizioni di vita insopportabili». Davanti a quanto sta accadendo i cristiani, senza «rinnegare nulla del Vangelo», devono stare «in mezzo agli altri uomini con simpatia», riscoprendo un umanesimo cristiano aperto «alle altre religioni».
È la prospettiva offerta dal cardinale Angelo Scola nell’intervento inaugurale dei lavori dell’annuale incontro della rivista internazionale Oasis nell’isola veneziana di San Servolo, a cui partecipano vescovi mediorientali e studiosi, per interrogarsi e discutere sulla «nuova laicità» e sull’«imprevisto» delle rivolte in Nord Africa. Una prospettiva di incontro, di dialogo, di ascolto per cercare di comprendere in profondità i fenomeni emergenti in quelle società e i riflessi inevitabili sulla vita dell’Occidente.
Un approccio abituale per Scola, il quale dal 2004 ha dato vita alla rivista e a questo gruppo di lavoro, ma che assume un significato particolare in questi giorni di attesa per l’annuncio del nome del nuovo arcivescovo di Milano, previsto la prossima settimana.
Con ogni probabilità sarà infatti proprio il patriarca di Venezia a succedere al cardinale Dionigi Tettamanzi sulla cattedra di Sant’Ambrogio, e questa eventualità è stata dipinta da qualcuno a tinte fosche, come una sorta di «normalizzazione», un cambiamento epocale rispetto agli episcopati di Carlo Maria Martini e dello stesso Tettamanzi.
Ha volato più alto domenica, dalle colonne di Repubblica, l’arcivescovo uscente, che accennando alla necessità di proseguire nel dialogo interreligioso e nell’integrazione, si è rimesso alla «sensibilità del nuovo pastore». Ieri mattina a San Servolo, Scola ha preso la parola da patriarca di Venezia, senza riferirsi in alcun modo al chiacchiericcio mediatico che lo riguarda. Ma il suo intervento è illuminante anche nella prospettiva dell’eventuale successione a Milano.
Riferendosi alle rivolte in Nord Africa, il cardinale ha osservato come siano scoppiate in contesti di povertà, «in ambito giovanile», con la richiesta ricorrente di lavoro. È sembrato condividere l’analisi di quegli studiosi che affermano che la grande «onda d’urto» dei flussi migratori debba ancora arrivare: «Dietro le popolazioni magrebine – ha detto – premono quelle dell’Africa subsahariana, con i giovani che vedono i loro coetanei emigrati in Europa guadagnare 500 euro al mese, una cifra che loro, nei rispettivi Paesi, non riescono a mettere insieme in un anno».
Ecco perché Scola, in nome del realismo, afferma che non si può continuare così, «senza intervenire radicalmente sull’attuale sistema economico». «Non è soltanto una questione etica – aggiunge – come spesso si sente ripetere in alcuni ambienti. È un’impossibilità pratica». Proprio per questo Benedetto XVI ha dedicato un’enciclica, la Caritas in veritate, all’elaborazione di una «nuova ragione economica».
Il cardinale ha quindi ricordato di essere stato ridicolizzato quando sette anni fa, sulla scia degli interrogativi aperti dopo gli attacchi dell’11 settembre, lanciò la provocazione sul «meticciato» di culture e di civiltà come prospettiva per il prossimo futuro. Ora «la demografia suggerisce che il fenomeno potrebbe assumere anche tratti molto concreti e, come la storia ci ricorda, non poco dolorosi».
Ecco dunque la necessità di «conoscere i processi per cercare di orientarli», richiamando l’Occidente alle sue responsabilità, dato che – osserva – la Tunisia, dalla quale «dobbiamo imparare», sta accogliendo «molti più profughi di quanto non faccia la nostra stanca, passiva e vecchia Europa».
Scola invita a guardare alle rivolte nordafricane al di là dei vecchi cliché, anche quelli sulla laicità, che non va interpretata come «categoria assoluta dello spirito di cui si attende il manifestarsi (finalmente) anche nelle civiltà non europee». E dunque senza considerare il rapporto con l’islam nello stesso modo in cui gli Stati europei gestiscono i rapporti con la Chiesa. Serve una «nuova laicità» come ricerca «di un criterio per regolare lo spazio della convivenza possibile».
Il cardinale non considera le rivolte del Nord Africa alla stregua della caduta del comunismo nel 1989. Piuttosto, aggiunge, «si possono forse paragonare al Sessantotto» e come in quel caso esiste il rischio che vengano egemonizzate e strumentalizzate.
Ma è la parte finale della relazione di Scola a contenere un’indicazione di metodo, attuale seppure antichissima. Il cardinale la trae dall’antica Lettera a Diogneto, fatta riecheggiare un mese fa da Benedetto XVI durante la sua visita a Venezia: «Non rinnegate nulla del Vangelo in cui credete, ma state in mezzo agli uomini con simpatia, comunicando nel vostro stesso stile di vita quell’umanesimo che affonda le sue radici nel cristianesimo, tesi a costruire insieme a tutti gli uomini di buona volontà una città più umana, più giusta e solidale».
Una sottolineatura molto significativa, che prevede «come sua dimensione intrinseca l’apertura alle altre religioni e agli uomini di buona volontà». Avendo sempre come orizzonte «la testimonianza», quella che hanno offerto pagando con il loro sangue due figure straordinarie che Scola ricorda concludendo il suo intervento: il vescovo Luigi Padovese, assassinato in Turchia un anno fa, e il ministro pakistano Shahbaz Bhatti, «martire di Cristo e grande paladino della lotta contro l’iniqua legge della blasfemia».

La Stampa, A. Tornielli, 21 giugno 2011

Burqa

ROMA - Via libera della commissione Affari Costituzionali alla legge sul divieto di burqa e niqab.
Il provvedimento sarà esaminato a settembre dall'aula di Montecitorio.
Il testo e' stato approvato con i voti favorevoli dei gruppi di maggioranza e l'astensione di Fli, Ucd e Idv. Contrario il Pd. Il provvedimento vieta il travisamento del volto in luoghi pubblici con burqa e niqab, ma anche con caschi, o altri indumenti di ''origine etnica'', e prevede sanzioni pecuniarie per chi contravviene il divieto. Molto piu' severe le sanzioni per coloro che obbligano terzi ad indossare questi indumenti: pene pecuniarie fino 30.000 euro e reclusione fino a 12 mesi. La relatrice Suad Sbai (Pdl) osserva, tra l'altro, che il voto di oggi da' una ''sferzata decisiva ad un provvedimento di liberta' e civilta''. ''Non ci fermiamo - promette la parlamentare Pdl - sulla via della liberazione delle donne segregate e senza diritti''.

Ansa, 2 agosto 2011

l'immigrazione a punti

Nell'ambito dell'assemblea nazionale del PD sono state presentate proposte relative a una
riforma della politica di immigrazione.
Una di queste mi preoccupa, almeno per come e' stata presentata dalla stampa. Il Corriere
della Sera di sabato l'ha attribuita a Veltroni. Prendo per buona questa attribuzione, anche se
non escludo che sia un po' imprecisa.
Riporto qui due brevi stralci della proposta:
"
gli immigrati di cui la nostra economia ha bisogno, ma non di piu'. Con il ritorno della crescita
vogliamo vedere crescenti livelli di occupazione e salari crescenti, ma non crescente
immigrazione.
"
dell'ordinamento del paese, si combinano in un punteggio, o valutazione, dell'ammissibilita' dei
candidati all'immigrazione.
Veltroni - sia detto per inciso - in passato si e' distinto per interventi improvvidi in materia di
immigrazione. Penso a quando, da sindaco di Roma, all'indomani dell'omicidio Reggiani,
pretese dal Governo l'adozione immediata di un decreto-legge che facilitasse l'espulsione dei
rumeni. Il decreto-legge (181/2007) decadde senza essere convertito in legge; fu sdoppiato in
due provvedimenti: un nuovo decreto-legge (249/2007), anch'esso lasciato decadere, e un
decreto legislativo, varato poi con opportune modifiche. Veltroni stesso, presentatosi, a
conclusione di quel periodo, come candidato premier e segretario del PD, decadde. Ora ci
propone nuovi frutti del suo pensiero.
Spiego perche' non sono d'accordo con la proposta.
1)
L'Italia ha un problema grave di riequilibrio demografico. Per risolverlo, se le famiglie italiane
non la smettono di perdere tempo davanti alla TV, ha bisogno di un flusso di immigrazione non
certo inferiore a quello (di 100-200 mila ingressi per anno) attuale. Pensare che un flusso di
queste dimensioni possa essere costituito, in misura preponderante, da persone altamente
qualificate e' pura utopia. Ma, se si tratta invece di persone di qualificazione per lo piu' mediobassa,
esigere una conoscenza preventiva dilingua e cultura italiana non e' realistico: dove,
queste persone, dovrebbero acquisire queste competenze? Quanto al fatto che altri paesi
europei adottino criteri del genere, si veda come lo studio commissionato da Parlamento
europeo e OIM a una commissione di esperti
2010/febbraio/parl-ue-comp-leg-imm.pdf
2)
stranieri in Italia e' di 32 anni, (
2010/settembre/eurostat-stranieri-in-ue.pdf
naturale. Perche' il legislatore o il governo dovrebbero imporre qualcosa che gia' si verifica?
Per sentire che finalmente qualcosa nel mondo obbedisce alla loro volonta'? Ma perche' allora
non introdurre anche, con la Legge Veltroni, un criterio per la partecipazione a Miss Italia che
privilegi le diciottenni rispetto alle settantenni?
3)
insomma: solo i governatori del PD e i premier del PDL hanno diritto ad amministrare la loro
vita privata secondo i propri gusti?
4)
italiano a Casablanca, dopo aver verificato la congruita' dei percorsi scolastico-formativi? E in
quanto tempo? In Italia, per valutare una richiesta di naturalizzazione lo Stato impiega due
anni; e si tratta di una valutazione non molto diversa da quella, dei "meriti", che Veltroni
propone ai fini dell'ingresso. I lavoratori finirebbero per entrare alle soglie del
pensionamento... E se poi, a selezione avvenuta, ho bisogno di un badante, e mi ritrovo solo
informatici indiani e ingegneri nucleari cinesi, chi mi accompagna al bagno se ne ho bisogno?
Forse Veltroni, con la sua laurea
5)
Vogliamo assicurare attraverso l'introduzione di un sistema d'ammissione a punti che avremo"Eta', sesso, stato civile, istruzione, specializzazione, conoscenza della lingua, della cultura,"La selezione per competenza linguistica e per conoscenza della cultura italiana.www.stranieriinitalia.it/briguglio/immigrazione-easilo/censuri la cosa.La selezione per eta'. L'eta' media degli italiani e' di circa 44 anni; quella degli immigratiwww.stranieriinitalia.it/briguglio/immigrazione-easilo/. La selezione per eta' avviene gia' in modoLa selezione per stato civile. Come li vuole Veltroni? Sposati e con molti figli? Celibi? MaLa selezione per specializzazione. Chi la certifica? Il solerte funzionario del consolatohonoris causa in public services?In Italia, da ventiquattro anni a questa parte, i criteri per entrare sono molto rigidi
(un posto di lavoro pronto). In teoria, significa che l'ingresso ha luogo solo a seguito di una
selezione effettuata dal soggetto piu' interessato (il datore di lavoro). In pratica, significa che il
flusso scorre per conto suo, e la sua condizione di legalita' viene sancita
dato di capire perche', se lo Stato si interponesse tra datore di lavoro e lavoratore,
pretendendo di selezionare il lavoratore a nome del datore, si dovrebbe ottenere
un'immigrazione piu' rispondente alle necessita' della nostra societa'. Sul piano teorico, le cose
potrebbero solo peggiorare. Su quello pratico, resterebbero invariate.
6)
restrizione, ma in un'ottica premiale
costruire un canale di immigrazione altamentre qualificata (
principale a qualificazione medio-bassa. Ma non si tratterebbe di far giudicare lo scienziato
straniero da qualche ottuso burocrate nostrano; quanto, piuttosto, di convincere quello
scienziato a venire da noi
significativamente, potrebbe essere usata per stimolare percorsi di integrazione: chi, gia'
soggiornante in Italia, matura un punteggio alto ottiene un permesso a tempo indeterminato
(o la cittadinanza) in anticipo e in deroga agli altri requisiti.
Avanzo timidamente una mia proposta
Sergio Briguglio (2010)
ex post. Non mi e'Diversa e' la questione se si usa l'approccio "a punti" non in un'ottica di. Ai fini dell'ingresso, potrebbe essere adoperata perblue card), complementare a quellononostante il burocrate nostrano. Ai fini del soggiorno, e piu': se aiutassimo Veltroni a casa sua?

La peggior forma di governo

  " La democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre fino ad ora sperimentate " Winston Churchill a...