venerdì 30 settembre 2011

Rafforzare la reputazione

Francoforte/Roma, 5 Agosto 2011

Caro Primo Ministro,
Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea il 4 Agosto ha discusso la situazione nei mercati dei titoli di Stato italiani. Il Consiglio direttivo ritiene che sia necessaria un'azione pressante da parte delle autorità italiane per ristabilire la fiducia degli investitori.
Il vertice dei capi di Stato e di governo dell'area-euro del 21 luglio 2011 ha concluso che «tutti i Paesi dell'euro riaffermano solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali». Il Consiglio direttivo ritiene che l'Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali.
Il Governo italiano ha deciso di mirare al pareggio di bilancio nel 2014 e, a questo scopo, ha di recente introdotto un pacchetto di misure. Sono passi importanti, ma non sufficienti.

Nell'attuale situazione, riteniamo essenziali le seguenti misure:
1.Vediamo l'esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita. Alcune decisioni recenti prese dal Governo si muovono in questa direzione; altre misure sono in discussione con le parti sociali. Tuttavia, occorre fare di più ed è cruciale muovere in questa direzione con decisione. Le sfide principali sono l'aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualità dei servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano più adatti a sostenere la competitività delle imprese e l'efficienza del mercato del lavoro.
a) È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala.
b) C'è anche l'esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L'accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione.
c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi.

2.Il Governo ha l'esigenza di assumere misure immediate e decise per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche.
a) Ulteriori misure di correzione del bilancio sono necessarie. Riteniamo essenziale per le autorità italiane di anticipare di almeno un anno il calendario di entrata in vigore delle misure adottate nel pacchetto del luglio 2011. L'obiettivo dovrebbe essere un deficit migliore di quanto previsto fin qui nel 2011, un fabbisogno netto dell'1% nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa. È possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l'età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover (il ricambio, ndr) e, se necessario, riducendo gli stipendi.
b) Andrebbe introdotta una clausola di riduzione automatica del deficit che specifichi che qualunque scostamento dagli obiettivi di deficit sarà compensato automaticamente con tagli orizzontali sulle spese discrezionali.
c) Andrebbero messi sotto stretto controllo l'assunzione di indebitamento, anche commerciale, e le spese delle autorità regionali e locali, in linea con i principi della riforma in corso delle relazioni fiscali fra i vari livelli di governo. 

Vista la gravità dell'attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate nelle suddette sezioni 1 e 2 siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di Settembre 2011. Sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio.
3. Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per garantire una revisione dell'amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l'efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze delle imprese. Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l'uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione). C'è l'esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province). Andrebbero rafforzate le azioni mirate a sfruttare le economie di scala nei servizi pubblici locali.

Confidiamo che il Governo assumerà le azioni appropriate.
Con la migliore considerazione,
Mario Draghi, Jean-Claude Trichet

mercoledì 28 settembre 2011

Ciò che il Signore richiede da te

Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono
e ciò che richiede il Signore da te:
praticare la giustizia,
amare la bontà,
camminare umilmente con il tuo Dio.

(Michea, 6,8) 

 
L'epoca in cui vive Michea è evocata in 2 Re 17, 20, ed è drammatica.
Michea era nativo della piccola città di Moreshet, un villaggio della Giudea, vicino a Gerusalemme. Egli svolse il suo ministero tra il 750 ed il 689 A.C. al tempo di Iotam, di Acaz e di Ezechia. Fu contemporaneo del profeta Isaia, a cui assomiglia per lo stile.
Fu testimone di grandi avvenimenti: l'invasione dell'esercito assiro, la caduta di Damasco, la guerra tra Israele e Giuda, la conquista della Galilea, la distruzione di Samaria e del regno di Israele, la sconfitta dell'Egitto per mano di Sargon II, re di Assiria (722).

Era un periodo violento e tumultuoso. Il regno d'Israele scomparve con l'invasione degli Assiri, che portarono in esilio le popolazioni delle 10 tribù, che formavano il regno; mentre il regno di Giuda doveva subire l'invasione degli eserciti di Babilonia, che dopo la terza invasione, nel 586 A.C, distrussero Gerusalemme e deportarono la popolazione.
Il libro di Michea, antico e attuale nel messaggio, è una raccolta di ammonimenti e di profezie, disposte per argomento anziché in ordine cronologico. Lo stile è vario, a seconda del periodo e delle circostanze. A volte Michea è aspro e vigoroso, altre volte tenero e compassionevole. Il linguaggio che usa è sempre diretto e forte.
L'attività di Michea è dedicata in particolare alla difesa degli oppressi. Viveva in una società in cui i ricchi proprietari terrieri sfruttavano i poveri, opprimendoli senza pietà. I contadini, gli agricoltori e i piccoli proprietari erano sfruttati da coloro che avevano conoscenze nelle alte sfere.
Tale abuso di potere fu attaccato con forza da Michea, che reagisce all'eccesso di pratiche legalistiche e cultuali al quale Israele si abbandona nella sua angoscia. Sottolinea che Dio richiede da noi un comportamento retto, giusto, non formale soltanto (come purtroppo anche oggi avviene nella vita pubblica).
Anche se proveniva da una zona rurale, egli era perfettamente al corrente della corruzione della vita di città e denunciò Gerusalemme in particolare. Vedeva nella città il simbolo della corruzione nazionale: corruzione nell'amministrazione della giustizia, nei funzionari di governo, nei capi religiosi.

Isaia e Michea sono particolarmente vicini nella polemica contro l'economia latifondiaria del ceto superiore di Gerusalemme, che spogliava i contadini delle loro proprietà ereditarie, concentrandoli nelle proprie mani (Is. 5, 18; Mich. 2, 1-5). Michea però si distingue da Isaia in quanto prevede la cancellazione totale di Gerusalemme dalla storia (Mich. 1, 5; 3, 12).
Michea biasima ferocemente sacerdoti e profeti; critica la loro disonestà; condanna la falsa mistica.
Il profeta esorta il popolo al pentimento, e minaccia l'ira di Dio sui conduttori religiosi che pensavano a spremere denaro dal popolo. Egli diceva (3, 3): "Costoro divorano la carne del mio popolo, gli strappano di dosso la pelle, gli fiaccano le ossa; lo fanno a pezzi come ciò che si mette in pentola, come carne da metter nella caldaia".
Falsi sacerdoti, falsi profeti, autorità civile corrotta: pertanto, era vicina la minaccia delle invasioni di cui i profeti di mestiere non sapevano nulla, e non avevano visioni; vi era tanto buio intorno a loro; però non mancavano di parlare di pace, che era il tema ricorrente nei loro sermoni!
Ed ecco Michea che in nome del Signore nel (3, 5-6) afferma: "Così parla l'Eterno, riguardo ai profeti che traviano il mio popolo, che gridano "Pace", quando i loro denti hanno di che mordere, e bandiscono la guerra contro chi non mette loro nulla in bocca. Perciò vi sarà notte, e non avrete più visioni, vi si farà buio, e non avrete più divinazioni; il sole tramonterà su questi profeti, e il giorno s'oscurerà su loro".
Circa 90 anni dopo, il profeta Geremia rimproverava nello stesso modo i conduttori religiosi del suo tempo, perché chiudevano gli occhi d'avanti ad una realtà incombente. Nel versetto 14 del 6 capitolo, dice: "Essi curano alla leggera la piaga del mio popolo; dicono: 'Pace, pace, mentre pace non v'è" (Ger. 6, 14).
Michea presenta un messaggio di giudizio: se la nazione non cambia il suo comportamento, Dio la giudicherà e la distruggerà (3, 12). Il Profeta accusa l'oppressione dei suoi giorni e dice: "Guai a coloro che meditano l'iniquità...sono avidi di campi e li usurpano, di case, e se le prendono...essi che costruiscono Sion con il sangue, Gerusalemme col crimine"(2, 1-3; 3, 9-11). Annuncia un duro giudizio per le capitali Samaria e Gerusalemme, giudizio motivato dall'idolatria e soprattutto dall'ingiustizia sociale (1, 2-7; 2, 1-11).

Per mezzo del profeta Michea, Dio ha voluto rimproverare quei falsi profeti, sacerdoti e guide della casa d'Israele che, mentre dovevano "conoscere ciò che è giusto" (3, 1), pervertivano "tutto ciò che è retto" (3, 9), "insegnavano e profetizzavano per ottenere regali, profitto e gloria", e poi dicevano: "II Signore non è forse in mezzo a noi?"(3, 11).
Michea riprende questi falsi profeti, adulatori di folle (tanti anche oggi) che, per amore del loro profitto e della loro gloria, falsificano la verità, pervertono la giustizia e causano grande rovina.
Michea, come Elia, mosso da un grande zelo, decise di essere ripieno e governato dallo Spirito del Signore per praticare la giustizia, la verità, l'onestà e la rettitudine.
Molto tempo dopo l'apostolo Paolo in (I Tim. 6, 5 e Fil. 3, 19) scrive, con dolore, di "persone corrotte di mente ... le quali considerano la pietà come una fonte di guadagno ... il cui dio è il ventre". Tali persone, che usano la fede a loro vantaggio, sono presenti in ogni generazione: sono i convertiti senza la "nuova nascita" senza il minimo cambiamento di stile di vita. In altre parole, sono pieni di religione ma non dello Spirito del Signore. Eppure diranno come in quel tempo: "II Signore non è forse in mezzo a noi?" (3, 11). Senza lo Spirito di Dio l'Uomo sarebbe come Sansone che svegliandosi pensava di sfidare i suoi nemici come prima, ma ebbe la triste sorpresa di vedersi incapace: "Non sapeva che il Signore si era ritirato da lui" (Giudici 16, 20). E nel (Salmo 51, 11) Davide pregò Dio dicendo: "Non togliermi il tuo santo Spirito".
I profeti dell'VIII secolo appaiono come individui solitari, se non isolati, ed in loro sta un convincimento tutto nuovo, quasi rivoluzionario rispetto a tutte le credenze tradizionali. Essi porgono ascolto e obbedienza ad una sola parola e a un incarico che Iahvé rivolge a loro e soltanto a loro; questi uomini diventano individui ben distinti. Essi potevano dire "io", in un modo che sino allora era inaudito in Israele. Nel "(3, 8), il profeta sostiene: "quanto a me, io sono pieno di forza, dello spirito del Signore, di giustizia e di coraggio, per annunziare a Giacobbe le sue colpe, a Israele il suo peccato".
Il profeta del Signore fa qui una grande e potente di­chiarazione! Una chiara affermazione di una soprannaturale esperienza! A differenza dei funzionari della casa d'Israele che "detestavano ciò che è giusto", Michea poteva dire: "Io invece sono pieno di forza" e sono persuaso che questa forza e che questa potenza mi vengano dallo Spirito del Signore.
In uno dei versetti più conosciuti dell'Antico Testamento Michea sintetizza ciò che il Signore richiede dall'uomo: "Praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio" (Mich. 6, 8).
Questa è dunque la quintessenza dei comandamenti secondo l'interpretazione dei profeti. Di fronte  alle pratiche violente e distruttive, qui ci si richiama a qualcosa di affatto semplice: si indica una strada che può essere percorsa davanti a Dio. Lo stesso vale per Osea, ossia che per Jahvé non conta l'esecuzione del sacrificio, bensì "la conoscenza di Dio e l'amore" (Os. 6, 6).
La voce della Giustizia non cessa di parlare, di farsi comprendere e non si esaurisce mai.
Fin dal momento della creazione, Dio "cammina" nel giardino dell'Eden e Adamo ed Eva sentono il suo passo (Gen. 3, 8): quella di Dio è una "voce in cammino", e questa voce si fa trovare, raggiunge ogni angolo del giardino, così che Adamo e sua moglie, per quanto cerchino di sfuggirla, illusi dal serpente, non possono assolutamente evitarla.
Il serpente rappresenta l'illusione, il sogno strisciante di uno che sta fermo, che vuole tutto subito, che non assume il rischio di un percorso, che non accetta la fatica di mettersi in cammino. Il serpente, l'animale "più astuto", ma "senza gambe", è il solo che l'uomo non si senta di considerare suo compagno, perché non può camminare insieme a lui. Invece la voce di Dio che si rivela gradualmente, poco per volta, insegna all'uomo a camminare sulle sue gambe, a non strisciare più nell'illusione. Si tratta dunque, per l'uomo, di "camminare umilmente con Dio".
In effetti non esiste alcun impedimento, considerata la libera disponibilità di Dio, ma soltanto una precisa condizione da parte dell'uomo, evidenziata proprio dalle parole del profeta Michea nel (6, 8): "sono necessarie la giustizia, l'umiltà e l'amore".

Dunque, il fondamento del messaggio di Michea era la giustizia di Dio e l'amore, analogamente al messaggio del profeta Amos, che stava predicando le stesse cose nel regno di Israele.

In Michea rimane forte la fede nella realizzazione delle promesse fatte a Davide: la certezza che in quella stirpe gloriosa nascerà un re che saprà unificare il regno e governarlo alla maniera stessa di Dio (Mich. 5, 1-4). L'annuncio messianico di Michea quando si rivolge agli Efratiti (Mich. 5, 1), non può essere che questo: Jahvé ricomincerà ex novo la sua opera messianica e la ricomincerà proprio là dove essa aveva avuto inizio la prima volta, ossia a Betlemme. Sicuramente si riferisce a un personaggio a venire e non di quel momento. Mentre Isaia attende un rinnovamento di Gerusalemme, per Michea, invece, questo nuovo inizio si accompagna alla cancellazione dalla storia dell'antica città regale, Gerusalemme (Mich. 3, 12). Un secolo più tardi Geremia ricorda quelle parole e le applica alla propria profezia (Ger. 26, 18-19).
Michea offre una delle più dettagliate descrizioni dell'avvento del Messia che si trovino nell'Antico Testamento (Mich. 5, 1-14). Il redentore verrà da Betlemme e sarà un essere umano (non un angelo).
Dovrà avere le sue origini dall'antichità, "dai giorni più remoti". Radunerà attorno a sé un gruppo di giusti, inaugurerà sulla terra un regno di giustizia e si prenderà cura dei bisognosi.
Nel senso biblico, giustizia è una parola ed un concetto essenzialmente religioso; è equivalente a "volontà di Dio", "compimento dei suoi disegni" ed "obbedienza ai suoi principi" ed ai suoi comandamenti. Per tanto nella Bibbia è impossibile comprendere ed interpretare il termine "giustizia" su di un piano esclusivamente giuridico (la "giustizia distributiva"), sebbene nelle sue comprensioni rientrassero tutte le relazioni tra gli esseri umani e quindi si recuperava anche tutto l'aspetto sociale. Non ci sono dubbi, il concetto di giustizia biblica va diretto alla radice: comprende tutta la vita della persona credente, guidata dalla volontà divina: è sicuramente una di quelle dimensioni costitutive della vita profondamente umana, che non si possono negoziare.   
L'espressione biblica "avere fame e sete" significa avere un desiderio ardente ed incontenibile di qualcosa. Con questa chiave di lettura vanno proclamati, pregati ed interpretati i salmi 42/43 e 63, così come del resto anche il profeta Amos (8, 11-12).
Le profezie di Michea possiamo vederle pienamente adempiute nel discorso evangelico di Matteo (Mt. 5, 1-10), che nel versetto 5 proclama: "Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati", dove la beatitudine tratta del desiderio profondo e veemente di giustizia, segnato da Gesù.
La giustizia cui si riferisce la beatitudine è la "nuova giustizia" del Regno di Dio, come affermerà lo stesso Matteo poco dopo: "Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia" (Mt. 6, 33), decisamente superiore a quella meramente legalista degli scribi e farisei (Mt. 5, 20).
Michea proclama un regno universale di pace che abbraccerà tutti i popoli. Le spade saranno trasformate in aratri e le lance in falci; sarà un periodo di pace, di prosperità e di benessere (4, 1-5).

La beatitudine conclude con una certezza, dicendo che saranno "saziati" gli assetati ed affamati di giustizia. Si potranno beneficiare dell'autentico ristoro, nel percorrere il sentiero tracciato da Gesù di Nazareth, nel rispondere con la propria esistenza alla proposta così affascinante di "cercare prima il Regno e la sua giustizia", nel poter incontrare il Dio-Abbá attraverso la costruzione di un mondo molto più umano, un mondo in cui, come afferma solennemente il salmo 85: "Misericordia e verità s'incontreranno, giustizia e pace si baceranno" .
                                                        
 

Perchè la vostra gioia sia piena

"Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perchè la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena".
(Giovanni 15)

Non ti faccio torto



Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 20,1-16a.
Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna.
Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna.
Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati
e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò. Ed essi andarono.
Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto.
Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi?
Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna.
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e dà loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi.
Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro.
Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero un denaro per ciascuno.
Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo:
Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo.
Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro?

Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te.
Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?
Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi».

Stabat mater

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 19,25-27
Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala.
Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio!».
Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa.

I pubblicani e le prostitute

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 21,28-32.
Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, và oggi a lavorare nella vigna.
Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò.
Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò.
Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Dicono: «L'ultimo». E Gesù disse loro: «In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.
E' venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli.

giovedì 8 settembre 2011

La politica come esigente scelta di vita


La vicenda politica di Mino Martinazzoli iniziò sotto il magistero di Aldo Moro, e non poteva essere differentemente perché le due figure erano simili sotto il profilo umano ed intellettuale: due nature schive, animate da una fede profonda e da un’altrettanto profonda  curiosità intellettuale, un’attenzione alla politica come professione nel senso più alto della parola, una malinconia di fondo che gli derivava dalla laica presa d’atto della circostanza che la politica non è tutto, anche se è importante.
Questa lezione fu sempre presente a Martinazzoli, il quale aggiungeva alle doti mutuate dal suo maestro un vivissimo senso dell’umorismo che attingeva ad una cultura eccezionale e ad una visione disincantata della politica che però non era estranea alla suggestione delle idealità e dei “pensieri lunghi”. La sua carriera politica, iniziata nella peculiare realtà di Brescia, dove si è realizzata una delle poche esperienze di una borghesia cattolica di sentimenti liberali e democratici e pensosa del bene comune (quella dei Montini, dei Bazoli, dei Trebeschi …), per poi svilupparsi a livello nazionale con importanti incarichi senza che mai una macchia, o una voce di scandalo, infangasse il suo nome.
Proprio questo faceva aumentare fuori e dentro la Democrazia Cristiana la considerazione per questo personaggio tanto strano e diverso rispetto ad un ceto politico che andava sempre più ingaglioffendosi, e molti nel 1989, all’atto dell’uscita di scena di Ciriaco De Mita – con il quale non sempre andava d’accordo - dalla guida della DC deprecarono che egli avesse scelto di non candidarsi contro Arnaldo Forlani, esponente delle componenti più moderate. Tuttavia fu lui in quel Congresso, l’ultimo del partito scudocrociato, a svolgere l’intervento che riscosse il maggiore interesse dentro e fuori la platea, ricordando le ragioni fondative del partito e ricordando che la sua capacità di futuro stava nella sfida di reinventarsi su basi etiche più solide facendo fronte ad un cambiamento annunciato dallo sgretolarsi dei regimi comunisti dell’Europa orientale.
La dirigenza uscita dal congresso, basata sull’asse di ferro Forlani-Andreotti, preferì continuare come se nulla fosse crogiolandosi in un’illusione di eternità nel rapporto privilegiato con il PSI craxiano, e venne travolta dal rimettersi in movimento di un sistema politico bloccato attraverso la crescita impetuosa di nuovi soggetti politici come la Lega Nord e l’esplodere delle vicende di Tangentopoli. Fu così che nell’autunno del 1992 Martinazzoli venne chiamato alla guida del partito come extrema ratio: qualche tempo dopo Pierferdinando Casini – che pure era stato fra quelli che lo avevano invocato come salvatore della patria – lo definì in tono sprezzante il “curatore fallimentare” della DC, e Martinazzoli ricordò sommessamente che il curatore arriva quando i precedenti titolari hanno fatto fallimento.
Di fronte ad una crisi di sistema pensare di conservare intatto il ruolo della DC, che del sistema era l’architrave, era a dir poco aleatoria, e Martinazzoli se ne rese conto subito: da qui la scelta di tornare alle radici dell’impegno politico dei cattolici democratici attraverso la riscoperta del popolarismo, separandosi dall’idea del “partito – stato” per tornare a quella del “partito – programma” così cara a Sturzo. La rifondazione del PPI avvenne nel gennaio del 1994 parallelamente alla nascita di Forza Italia, e la progressiva scelta delle componenti clerico moderate della DC di raggiungere il campo berlusconiano segnava in qualche modo un confine che era nelle cose e che, dopo il ritiro di Martinazzoli, venne definito da coloro che lo seguirono. D’altro canto, lo stesso Martinazzoli, accettando la candidatura a Sindaco di Brescia offertagli da PPI e PDS sul finire di quello stesso 1994 segnò il cammino degli anni a venire.
Dopo la sfortunata campagna per le elezioni regionali lombarde del 2000 Martinazzoli si ritirò progressivamente dalla politica attiva per dedicarsi allo studio, riprendendo la parola quando lo riteneva necessario, come quando nel 2006 fece attiva propaganda per la bocciatura della riforma costituzionale voluta dal tandem Berlusconi – Bossi.
La sua memoria rimarrà viva fra coloro che ancora credono nella politica come esigente scelta di vita.

Giovanni Bianchi, Il sogno popolare di Mino Martinazzoli, Circoli Dossetti

il cattolicesime suicidato

La Chiesa dovrebbe essere una casa che accoglie, non deve domandare se una persona è credente o no. I cattolici dovrebbero ricordarsi di essere cristiani. Non bisogna inginocchiarsi davanti al crocifisso, che è solo un simulacro di cartone, ma verso chi soffre come gli extracomunitari”. A parlare è Ermanno Olmi, soi disant regista cattolico, che in questi giorni è al Festival del Cinema di Venezia per presentare il suo film Il Villaggio di cartone.

Le farneticazioni di Olmi potrebbero anche lasciarci indifferenti, considerato che il mondo moderno ci ha fatto sviluppare una considerevole quantità di pelo sullo stomaco, e siamo abituati a sentirne davvero di tutti i colori, quando c’è da sparlare della Chiesa cattolica. Ovviamente, guai se l’oggetto delle offese fosse una religione diversa: si scatenerebbe un putiferio. Ma tirare un po’ di fango su Roma e sul Papa è uno sport sempre apprezzato. Così è successo anche a Olmi, che è stato accolto da uno stuolo di critici pronti a sviolinarlo per il suo “film-capolavoro””, che in verità Francesco Borgonovo su Libero ha paragonato alla mitica Corazzata Potemkin di fantozziana memoria. Dicevamo che si potrebbe lasciar perdere, e buona notte, se non fosse che il nostro uomo è un accreditatissimo uomo-di-cultura-cattolico.

Dici Olmi, e nelle parrocchie e nei cinema parrocchiali, negli oratori e nei centri culturali cattolici è tutto un compiaciuto annuire di capoccioni pensierosi e plaudenti: “Eh, Olmi, che regista! E che cattolico! E che film di denuncia!” E così via celebrando. Questo è, purtroppo, il problema: che nel mondo cattolico si considerino batteriologicamente pure delle sorgenti inquinatissime, per nulla potabili, dalle quali sarebbe molto meglio stare alla larga. Olmi è padrone di continuare a fare i suoi film, che tanto non vede praticamente nessuno. Ed è anche padrone di dire le sciocchezze che ha inanellato nei giorni scorsi. L’importante è che non pretenda di parlare “da cattolico”.

Perché uno che invita a non inginocchiarsi davanti al crocifisso, definendolo “simulacro di cartone” (sic) cattolico non lo è affatto. In quelle parole non c’è solo dabbenaggine, ma anche livorosa malevolenza e inquietante compiacimento per la provocazione blasfema. Ma c’è dell’altro.

Il film di Olmi
è a suo modo un perfetto manifesto di quel “cattolicesimo suicidato” che si dissolve nel solidarismo e nell’ossessione del primato degli ultimi. Vi si racconta infatti di una chiesa che viene sconsacrata, e del vecchio parroco che – superato il primo sconcerto – la trasforma in un luogo di accoglienza per immigrati. Invece che adorare Dio che si fa uomo in Gesù Cristo crocifisso, la “chiesa” di Olmi si mette ad adorare l’uomo che si fa dio, togliendo di mezzo Cristo e il mistero dell’incarnazione.

E’ l’umanesimo
ateo che soppianta il cattolicesimo, è l’attivismo per i più poveri che rimpiazza la preghiera, è il relativismo della volontà che rimpiazza il realismo della verità. E infatti il regista-predicatore, determinato a cantarle soavi ai cattolici papisti, rincara la dose, dicendo che “non possiamo avere solo certezze; ognuna di esse è una ferita che portiamo alla fede. Il peso dei dubbi deve essere superiore alla stessa fede”.

Forse nemmeno Odifreddi, Severino, Galimberti e Cacciari, schierati insieme a coorte, avrebbero saputo dir meglio qualche cosa di così totalmente non cattolico e, insieme, di così desolatamente banale. Sarebbe poi una buona cosa che d’ora in avanti di immigrazione parlassero solo le persone comuni: quelle che vivono gomito a gomito con gli extracomunitari, fanno la spesa nel quartiere, vanno al lavoro in autobus; insomma, solo quelle persone che non fanno i registi, o i critici cinematografici, vivendo magari ai Parioli o in qualche quartiere superlusso dove l’unico immigrato è la colf. O, vista l’età di certi cineasti, la badante moldava. 

Mario Palmaro, 8 settembre 2011, La Bussola quotidiana

Sul cattolicesimo democratico

La morte di Mino Martinazzoli (1931-2011) è un’occasione per riflettere su che cosa ha rappresentato quel “cattolicesimo democratico” di cui viene considerato, impropriamente, l’ultimo esponente. L’uomo, il suo disinteresse personale, la sua complessità e altre sue virtù sono e saranno celebrate da molti, in questi giorni, ma il cattolicesimo democratico rischia di essere una sigla usata anche a sproposito, e ciò non aiuta a capire un passaggio importante della storia italiana ed europea, e della storia del movimento cattolico. Come al solito, se si vuole capire qualcosa bisogna tornare indietro, all’inizio, alla radice del problema. Più si scava, meglio si comprende.

Di un cattolicesimo democratico si comincia a parlare a fronte del 1789, di quella rivoluzione che cambia l’assetto politico della Francia, e tramite Napoleone, anche dell’Europa. La fine dell’unità fra Chiesa e Stato che aveva contrassegnato l’Antico Regime costringe i cattolici a diventare una componente in competizione con altre: nascono i movimenti cattolici in conflitto con quelli liberali, nazionalisti e socialisti. Ma i cattolici si dividono e i cattolici democratici sono quelli che “leggono” con entusiasmo la novità della Rivoluzione e cercano di far nascere un progetto culturale e politico che “metta insieme” il cristianesimo con diversi aspetti dell’ideologia rivoluzionaria. Semplifico, ma non troppo.

Diversa è la posizione dei cattolici liberali (o considerati tali) e dei controrivoluzionari, che sono quelli meno conosciuti e più confusi con la nostalgia per l’Antico Regime. Joseph de Maistre verrà correttamente definito “un pensatore dell’origine”, per indicare il fatto che voleva tornare al progetto originario di Dio sull’uomo, non a una situazione storica. In realtà pochissimi vogliono tornare a quel legame troppo stretto fra trono e altare che era soprattutto una conseguenza delle guerre di religione successive alla Riforma protestante e alla nascita di quegli Stati assoluti che prevedevano (soprattutto i Paesi protestanti) la religione di Stato.

In Italia, le cose assumono caratteristiche particolari per via del Risorgimento e del potere temporale della Chiesa, che finisce nel 1870. Il movimento cattolico sarà caratterizzato fino alla fine del secolo da una posizione “intransigente”, di condanna e rifiuto dei “fatti compiuti” appunto con la conquista militare di Roma da parte del nuovo Stato italiano, nel 1870. Sarà verso la fine del secolo che i cattolici democratici o democratici cristiani arriveranno alla guida del movimento cattolico, che allora si chiamava Opera dei Congressi, provocando reazione e condanna da parte della Santa Sede, che scioglierà l’Opera nel 1904, dopo trent’anni di attività. Il nome più famoso, allora, è quello di don Romolo Murri, che però finisce fuori dalla Chiesa, scomunicato sia per i suoi legami con l’eresia modernista, sia per le scelte personali e politiche (sarà eletto nelle fila del partito radicale, abbandonerà il sacerdozio, aderirà al fascismo, per finire riconciliato con la Chiesa nel 1944 dopo un percorso tortuoso). Altri democratici cristiani che lo avevano seguito e ritenuto un maestro, come don Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi, non lo seguiranno sulla strada della rottura con la Chiesa.

Il cattolicesimo liberale, che spesso viene sovrapposto a quello democratico, ha un’altra storia. Proviene dal filone transigente, costituito da quei cattolici che volevano la costituzione di un partito conservatore che permettesse ai cattolici di partecipare alle elezioni dopo la costituzione del Regno d’Italia nel 1861, a conclusione del Risorgimento. Alcuni di essi erano assolutamente ortodossi, altri avevano idee più problematiche, a proposito della Chiesa. Giudicheranno con favore gli accordi fra cattolici e liberali moderati in funzione antisocialista e per la difesa dei “principi non negoziabili” di allora (il cosiddetto eptalogo composto da sette punti irrinunciabili per la dottrina sociale della Chiesa) che culmineranno nel Patto Gentiloni del 1913, inviso invece ai democratici cristiani.

Poi si arriverà al partito, dopo la tragedia della Prima guerra mondiale, con il Partito popolare di Sturzo, e dopo la Seconda guerra mondiale, con la Dc, il partito del quale appunto Martinazzoli sarà l’ultimo segretario. In questo partito entrano anime diverse, come gli ex popolari, fra cui De Gasperi, i cosiddetti “professorini” dell’Università Cattolica, Giuseppe Dossetti, Giuseppe Lazzati, Amintore Fanfani, esponenti come Giorgio La Pira, i sindacalisti di Giovanni Gronchi e i neoguelfi di Piero Malvestiti e gli uomini dell’Azione Cattolica, che avevano come punto di riferimento il fondatore dei Comitati Civici Luigi Gedda.

Il partito avrà una lunga storia
e si dividerà in molte correnti, soprattutto dopo la sconfitta politica e la morte di De Gasperi, nel 1954. L’importante vittoria alle elezioni del 18 aprile 1948 rimarrà senza eredi e, così come accadrà anche per i governi centristi successivi, sarà celebrata più dai vinti che dai vincitori, come ha scritto lo storico Pietro Scoppola. Questa anomalia peserà sulla storia italiana e accompagnerà tutta la Prima Repubblica, fino alla sua fine in occasione delle elezioni del 1994, che vedranno la vittoria della coalizione di centro-destra sulla “gioiosa macchina da guerra” dell’ex segretario comunista Achille Occhetto.

Martinazzoli, nel frattempo, aveva sciolto la Dc e fondato, meglio rifatto nascere un Partito popolare che si collocò al centro in una elezione con sistema maggioritario, risultando sconfitto e ininfluente. Come dirà lui stesso in un’intervista al Corriere della Sera, i democratici cristiani non avevano capito la portata storica della caduta del Muro di Berlino, nel 1989, che “liberava” l’elettorato dall’obbligo di votare la Dc.

Marco Invernizzi, La bussola quotidiana

Un passo indietro

ROMA - Un governo di larghe intese, "un patto di fine legislatura" tra "tutti gli uomini di buona volontà". Con l'appoggio del Pdl e del Pd. E con un premier dotato di "credito internazionale". Beppe Pisanu, uno dei fondatori di Forza Italia e presidente della Commissione Antimafia, esce allo scoperto. E chiede esplicitamente un passo indietro al Cavaliere. "La politica - avverte - non può subire la crisi in questo modo, deve invece dominarla con intelligenza e condurla verso il bene comune. Perché tutti devono capire che la casa brucia. Anzi, è già bruciata e va quanto meno restaurata".

L'Unione europea e la Bce ci hanno avvertito da tempo che le fiamme stavano avvolgendo l'Italia ma si è fatto ben poco per spegnerle."L'Italia e l'Europa sembrano ancora oggi poco attente alla poderosa domanda di cambiamento che viene dalla drammatica evoluzione della crisi generale, dai giovani, dalle donne e dalle altre forze vitali. Questa domanda si è fatta sentire a Londra, a Madrid, nei comuni italiani e ai referendum. Soffia un vento innovatore e se non riuscirà a far avanzare cose nuove, si abbatterà furiosamente sulle vecchie".

Anche Bruxelles quindi è arrivata in ritardo?"L'Unione si sta spegnendo tra l'impotenza delle sue istituzioni e i rattoppi della banca Centrale. Si rialzano le barriere dei nazionalismi. Possono cadere nel vuoto gli angosciati richiami di Napolitano o quello lanciati proprio su Repubblica da Delors?".

A cosa si riferisce?
"Ci vuole poco a capire che la caduta dell'Euro trascinerebbe anche il dollaro, spezzando le gambe in un solo colpo tanto alle economie quanto alle democrazie dell'Occidente. E in quel caso che se ne farebbe la Signora Merkel di un nuovo marco enormemente sopravvalutato sul dollaro e perciò incapace di sorreggere le esportazioni tedesche?".

Il problema però è l'Italia non la Germania. Proprio la Merkel ha iniziato a paragonarci alla Grecia.
"E infatti dobbiamo renderci conto che siamo nell'occhio del ciclone e che in giro cominciano a guardarci male, come non era mai avvenuto. Siamo diventati, direbbe Montale, "l'anello che più non tiene", quello che, cedendo, può spezzare la catena dell'Euro e dell'Ue. Su questo avverto silenzi e sottovalutazioni preoccupanti".

Visto il balletto delle modifiche alla manovra la sottovalutazione è del governo.
"Lo stesso videogioco citato da Tremonti ci dice che i mostri sono tutti in agguato. Non basta però riconoscere la verità, bisogna dichiararla apertamente ai cittadini prima di chiedere loro sacrifici e collaborazione. Ma la diffusa convinzione che le elezioni anticipate sono alle porte ha fatto cedere il passo al calcolo elettorale. A parte i tentativi di Casini e pochi altri, c'è stata la sostanziale riluttanza dei gruppi maggiori a cercare intese impegnative sui grandi problemi".

E lei convinto che non ci saranno le elezioni anticipate?
"Sarebbe una sciagura. Ci esporrebbe alla speculazione internazionale. Con questa elegge elettorale, poi, e la questione morale tristemente estesa da un polo all'altro, ci ritroveremmo con un Parlamento più screditato, più diviso e più ingovernabile".

In che modo allora si può rimettere in piedi la casa bruciata?
"Non con le urne. Prima viene la crisi, poi la competizione elettorale. La durezza dei mercati ci impone oggi di rafforzare chiaramente la manovra finanziaria e di approvarla velocemente. Ma subito dopo bisognerà fare appello a tutte le energie disponibili e a tutte le persone di buona volontà per dare maggiore autorevolezza e credibilità politica al nostro Paese. Bisogna ritrovare l'etica della responsabilità. Non c'è tempo da perdere. È questione di settimane, forse di giorni".

Vuol dire che questo governo non può affrontare l'emergenza?
"Da sola questa maggioranza non è più in grado di evitare il tracollo e riaprire la via dello sviluppo: i fatti sono molto più grandi dei suoi numeri in Parlamento. Però è tutta la politica che deve cambiare passo, respiro, visione, insieme ai gruppi dirigenti delle organizzazioni economiche e sociali. Bisogna cambiare".

Quindi Berlusconi dovrebbe dimettersi per consentire la nascita di un nuovo esecutivo? Una coalizione di larghe intese?
"Se Berlusconi è una parte del gigantesco problema che il Paese ha davanti, sarà anche parte della soluzione che dobbiamo trovare. E una soluzione va trovata. Un patto di fine legislatura tra tutti i parlamentari di buona volontà per salvare il Paese e rimetterlo in cammino".

Napolitano ha avvertito che fino a quando questo governo ha la maggioranza, lui non può intervenire. E difficilmente Berlusconi rassegnerà volontariamente le dimissioni. Lei che percorso immagina?
"Conosco bene le difficoltà. Penso a un'iniziativa vasta che non prenda di mira nessuno e non escluda nessuno. Che nasca all'insegna dell'emergenza. Le Camere e il Paese trovino il modo di avanzare una proposta unitaria. A fine legislatura poi ciascuno si presenterà agli elettori con i propri impegni e meriti o demeriti".

E in questo progetto potrebbero entrare tutti? Sia il Pdl sia il Pd?
"Certo, tutti".

Molti indicano in Mario Monti la persona più adatta per guidare un governo di questo tipo. Lei d'accordo?
"Io penso che serva una figura dotata di credito internazionale e in grado di interloquire positivamente con il Parlamento".

Si tratterebbe dunque di un gabinetto tecnico?
"In una democrazia parlamentare tutti i governi sono politici. Chiunque lo presieda deve comunque contare sull'autorevole presenza di tutti gli schieramenti. Ma dobbiamo essere veloci".

Perché è così preoccupato dai tempi?
"Non vorrei che in questo autunno pieno di insidie l'idea del patto unitario si imponesse brutalmente sotto la sferza dei mercati, delle istituzioni internazionali o, peggio, delle piazze in rivolta". (La Repubblica, 07 settembre 2011)

mercoledì 7 settembre 2011

Un grande destino

"Probabilmente, malgrado tutto, l’evoluzione storica, di cui noi saremo stati determinatori, non soddisferà le nostri ideali esigenze; la splendida promessa, che sembra contenuta nell’intrinseca forza e bellezza di quegli ideali, non sarà mantenuta. 
Ciò vuol dire che gli uomini dovranno pur sempre restare di fronte al diritto e allo stato in una posizione di più o meno acuto pessimismo. E il loro dolore non sarà mai pienamente confortato. Ma questa insoddisfazione, ma questo dolore sono la stessa insoddisfazione dell’uomo di fronte alla sua vita, troppo spesso più angusta e meschina di quanto la sua ideale bellezza sembrerebbe fare legittimamente sperare.
Il dolore dell’uomo che trova di continuo ogni cosa più piccola di quanto vorrebbe, la cui vita è tanto diversa dall’ideale vagheggiato nel sogno. Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino".
Aldo Moro

Fame di giustizia

Sapevo che stava male e lo avevo sentito circa una settimana prima.
Affettuosamente burbero, come sempre, si negava oramai agli incontri, chiuso nella tormentosa attesa della fine, di cui era consapevole.
Per quanti, come me, sono nati alla politica con lui, nel glorioso tentativo di dar vita, a fine 1993, al nuovo “Partito Popolare Italiano”, è un fatto che va oltre il significato della scomparsa dell’uomo politico.
Martinazzoli, infatti, esprimeva il fascino di una personalità che conquistava per il rimando ad un’idea di politica che trascende la contingenza, per risalire alle ragioni ultime di un impegno che trova nella centralità della persona e nell’ispirazione cristiana i suoi primi ed ultimi significati.
Ascoltarlo era sempre un’esperienza straordinaria, che all’apparente timbro del pessimismo faceva seguire, quasi magicamente, la forza della tenacia,  sull’onda della suggestione morotea secondo cui il destino dell’uomo rimane quello di “avere sempre fame di sete e di giustizia”. Ineguagliabile, in proposito, era proprio quella citazione di Moro, che era solito offrirci e che costituiva per lui, e divenne per noi che ci affacciavamo alla politica, una sorta di manifesto esistenziale:"Probabilmente, malgrado tutto, l’evoluzione storica, di cui noi saremo stati determinatori, non soddisferà le nostri ideali esigenze; la splendida promessa, che sembra contenuta nell’intrinseca forza e bellezza di quegli ideali, non sarà mantenuta. Ciò vuol dire che gli uomini dovranno pur sempre restare di fronte al diritto e allo stato in una posizione di più o meno acuto pessimismo. E il loro dolore non sarà mai pienamente confortato. Ma questa insoddisfazione, ma questo dolore sono la stessa insoddisfazione dell’uomo di fronte alla sua vita, troppo spesso più angusta e meschina di quanto la sua ideale bellezza sembrerebbe fare legittimamente sperare.
Il dolore dell’uomo che trova di continuo ogni cosa più piccola di quanto vorrebbe, la cui vita è tanto diversa dall’ideale vagheggiato nel sogno. Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino".
Da lui molti di noi hanno appreso tutto. Hanno appreso del valore della libertà, sul registro della quale Martinazzoli inscriveva lo stigma peculiare del primo popolarismo, quello sturziano, al quale rinviava lo statuto del nuovo PPI: “Il popolarismo – ci diceva – è innanzitutto un metodo per l’esercizio della libertà”, un esercizio che va coniugato con quello della responsabilità e della solidarietà, sapendo che la libertà viene prima della solidarietà o meglio, per così dire, “la solidarietà è il fiore che fiorisce sullo stelo della libertà”. Per poi aggiungere subito che la politica deve innanzitutto onorare quell’idea e lo deve fare con mitezza, anche se la “la mitezza non va confusa con la rassegnazione”.
Era un uomo politico “diverso”, Mino Martinazzoli. Non a caso non valorizzato come meritava, in un Paese come il nostro, che lui amava profondamente, ma che con i suoi figli migliori ha preso il vezzo di mostrare il suo volto patrigno.
Adesso ha finito i suoi giorni e, chissà?, forse verrà riscoperto.
Ha vissuto gli ultimi anni in compagnia della malattia e, alla fine, in attesa della fine, che si aspettava e quasi a volte sembrava volesse affrettare.
Il cammino verso la fine, in un uomo che già di per sé dava l’idea di vivere un esistenzialismo tormentato e nello stesso tempo illuminato dalla fede, mi ha fatto venire alla mente quanto ha scritto il nostro amato cardinal Martini, a commento del Pensiero sulla morte di Papa Paolo VI:
Io (…) mi sono più volte lamentato col Signore perché morendo non ha tolto a noi la necessità di morire. Sarebbe stato così bello poter dire: Gesù ha affrontato la morte anche al nostro posto e morti potremmo andare in Paradiso per un sentiero fiorito. Invece Dio ha voluto che passassimo per questo duro calle che è la morte ed entrassimo nell’oscurità, che fa sempre un po’ paura. Mi sono rappacificato col pensiero di dover morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto pieno di fiducia in Dio. (…) La morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio. Ciò che ci attende dopo la morte è un mistero, che richiede da parte nostra un affidamento totale. Desideriamo essere con Gesù e questo nostro desiderio lo esprimiamo a occhi chiusi, alla cieca, mettendoci in tutto nelle sue mani” (…) Come papa Montini “… capace di perdersi in Dio con l’animo di un fanciullo”, termina il cardinale “…desideriamo anche noi godere di quella pace interiore che vince ogni ansietà e si affida a Dio con tutto il cuore”.
Di questo straordinario commento avevamo discusso proprio con Martinazzoli in tempi non sospetti. Ora, con l’affetto che non può non provare chi con animo sereno lo ha conosciuto, io confido che Mino abbia vissuto la fine “con l’animo di un fanciullo”, destinato a trovare la gioia che viene riservata agli uomini giusti.
A quanti di noi si considerano “martinazzoliani non pentiti” il compito di onorare la sua memoria. Seguendo il suo esempio e magari non rinunciando, con Sturzo, a “ricominciare daccapo ad indovinare la via”. La via di una politica che continua ad aspirare alla sua potenziale grandezza, come Mino Martinazzoli ci ha insegnato con l’esempio della sua vita.

                                                                                                                              Lino Duilio, Europa 6 settembre 2011

martedì 6 settembre 2011

Un uomo appassionato del proprio Paese

"La scomparsa di Mino Martinazzoli mi rattrista profondamente. Con lui se ne va un protagonista della vita politica italiana". Con queste parole il Presidente Romano Prodi ricorda l'ultimo segretario della Democrazia Cristiana Mino Martinazzoli scomparso oggi. Il Presidente Prodi malgrado non potra' essere presente ai funerali perche' all'estero per i suoi impegni accademici, ha espresso alla famiglia di Martinazzoli tutta la sua vicinanza in questo momento di dolore.
"Un uomo integerrimo, esempio di virtu' etiche e civiche, appassionato del proprio Paese cui ha dedicato gran parte della propria vita e per il cui cambiamento ha lottato con coerenza fino a quando le forze glielo hanno reso possibile", aggiunge.
"Senza il suo impegno nel difficile passaggio dalla Dc al Ppi, che ha messo in salvo la cultura e i valori del cattolicesimo democratico, non sarebbe nato l'Ulivo e il Pd. In questo momento di tristezza e dolore mi stringo alla sua famiglia nel ricordo di un uomo di grande valore", conclude Prodi.

Adnkronos 4 settembre 2011

Un richiamo che resta

«Per noi non c’è che il tentare/ Il resto non ci riguarda». Più volte questo verso di Eliot tornava nei discorsi di Mino Martinazzoli, morto domenica mattina a Caionvico, vicino a Brescia, a poche settimane dal suo ottantesimo compleanno. Non era questo verso l’unico riferimento di questo politico atipico e sostanzialmente “solitario” nel panorama italiano – nonostante i prestigiosi incarichi ricoperti nella Democrazia Cristiana e nel governo in quegli anni ’80 del secolo scorso che videro l’occupazione sempre più degradante della società, la fine del comunismo, l’esplodere di Tangentopoli.

C’erano in Martinazzoli a più riprese il richiamo al lombardo Alessandro Manzoni ma anche a Gadda, a Luzi, e, sul piano più politico, a Rosmini, a Tocqueville, a Sturzo. «Martinazzoli coltiva il vezzo decadente dell’esteta – ha notato il giornalista Massimo Franco – Litoti, ossimori, altri artifici retorici. E poi citazioni dotte, tipiche di chi ama sfoggiare buone letture». Nessuna superbia intellettuale in lui, ma questi richiami lo aiutavano a cogliere – e i suoi ascoltatori lo avvertivano – la voglia di cambiamento della società italiana al quale avrebbe contribuito anche la breve esperienza del Partito Popolare. Certo, le elezioni dei 27 marzo 1994 con la vittoria del centrodestra di Berlusconi e la sconfitta della “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto avevano svuotato il suo progetto. Era mancato infatti al Pp «la capacità di decisioni lucide, continuità di scelte, un lavoro accorto ed intenso», come avrebbe scritto Martinazzoli del partito nel fax inviato da Brescia il 30 marzo ai responsabili del Pp annunciando le sue dimissioni ( e consegnandoci il testo manoscritto, ndr). Una decisione che gli è valsa l’accusa di aver liquidato frettolosamente il Partito Popolare, ponendo fine ad una presenza organizzata dei cattolici democratici e favorendo in tal modo una diaspora di partiti e partitini a ispirazione cristiana ininfluenti nello scenario dominato da Berlusconi.

In realtà la storia è più complessa. Inserito nel filone di quel cattolicesimo bresciano che tanta parte ha avuto nella storia del nostro Paese, Martinazzoli aveva iniziato l’impegno politico come consigliere comunale ed assessore nel suo paese natale Orzinuovi, approdando poi alla presidenza della provincia di Brescia. In un partito come la Dc, dove avevano sempre più peso le correnti organizzate attorno a questo o quel leader, Martinazzoli, pur riconoscendosi nelle posizioni della “Base”, restava un “solitario” ma con autorevolezza crescente che avrebbe portato questo strano democristiano, prima a Montecitorio, poi a Palazzo Madama, arrivando a presedere il gruppo parlamentare, a ricoprire l’incarico di presidente della commissione inquirente e poi a divenire ministro della Giustizia(e con l’ironia che lo ha sempre contraddistinto avrebbe rivendicato a suo merito la riforma delle buste per la trasmissione degli atti giudiziari), della Difesa e poi delle Riforme istituzionali. Un crescere d’incarichi al quale egli guardava con distacco ma che si sarebbe scontrato con la crisi, irreversibile, della Democrazia Cristiana travolta da Tangentopoli. “Mino il solitario” veniva percepito in un partito sempre più allo sbando come il politico in grado, per la sua rettitudine e per il suo percorso politico senza macchie, di guidarlo fuori dalla tempesta. Nell’ottobre 1992 il Consiglio nazionale lo acclamava segretario del partito. Ma Martinazzoli avvertiva l’esigenza di una discontinuità – anche nel nome – dell’impegno politico dei cattolici democratici. Nasceva il Partito popolare, che avrebbe dovuto aprire una nuova fase nella vita democratica del Paese. Intanto sullo scenario italiano si era affacciato, alla guida del centrodestra, Silvio Berlusconi con il suo carisma di modernizzatore contro la sinistra. Alcuni democristiani come Casini e Mastella scelsero di accompagnare il suo progetto. Il Partito Popolare alleato con Segni e con Tremonti, dovette affrontare le elezioni politiche in una posizione scomoda. Dopo un fallito tentativo di accordo con il Cavaliere: «Berlusconi non voleva un’intesa, ma assorbirci», avrebbe commentato asciuttamente Martinazzoli. Il voto avrebbe penalizzato il polo imperniato sul Ppi, sebbene il centrodestra – con Forza Italia più la Lega al Nord e il Movimento sociale al Sud – avesse mancato la maggioranza assoluta al Senato. Ma al varo del governo Berlusconi una piccola pattuglia di senatori popolari scelsero il sì o l’assenza dall’aula. Martinazzoli, a quel punto, era già dimissionario. Non avrebbe abbandonato comunque il suo impegno. Pochi mesi dopo sarebbe stato eletto sindaco di Brescia, poi sarebbe stato candidato, sconfitto, per il centrosinistra alla presidenza della Lombardia contro Formigoni.

Fino all’ultimo, ancora pochi giorni fa, Martinazzoli non ha smesso di richiamare i cattolici a un impegno nuovo, originale contro l’imbarbarimento della politica. Un richiamo che resta
.

Antonio Airò, Avvenire, 6 settembre 2011

Uno tra i migliori

Il Presidente della Repubbica, Giorgio Napolitano, appresa con profonda commozione la dolorosa notizia della scomparsa di Mino Martinazzoli, ha espresso in un messaggio ai famigliari il suo intenso cordoglio: "Nel corso di lunghi anni potei seguirlo e apprezzarlo nei molteplici impegni parlamentari e di governo, assolti tutti con altissimo senso delle istituzioni e dell'interesse nazionale, secondo una concezione limpida e nobile della politica. Da segretario della Dc, in momenti drammaticamente difficili per il suo stesso partito come quelli del biennio 1992-'93, diede prova della sua capacità di considerare sempre prioritari i valori della legalità e i doveri morali rispetto a qualsiasi calcolo e interesse di parte. Egualmente forte è il ricordo che serbo della sua cultura e della sua sensibilità quali si manifestavano in ogni dibattito pubblico e privata conversazione. La Repubblica perde con Mino Martinazzoli un uomo fra i migliori che abbia avuto al servizio degli ideali democratici e della cosa pubblica".

Giorgio Napolitano, 4 settembre 2011

Il cattolico "manzoniano"

«Ciao Mino, come va?». Quante volte Helmut Kohl telefonava per informarsi delle vicende della Dc italiana. Non poteva accettare il Cancelliere che un partito che «aveva fatto l’Italia» si dissolvesse per colpa di alcuni suoi esponenti furfanti.
Era preoccupato per l’Italia e per l’Europa. Un giorno lo disse chiaramente Martinazzoli: «Da solo, senza l’appoggio di una Dc italiana forte, non ce la faccio a garantire la linea europeista del Ppe e, se ci molla il Ppe, l’Europa sarà un’altra cosa da come l’avevano pensata i padri fondatori».
A Martinazzoli infatti la Dc aveva affidato la missione impossibile della sua salvezza negli anni dell’uragano tangentopoli. Ma era troppo tardi. Il popolo democristiano in effetti avrebbe voluto già alcuni anni prima che Martinazzoli fosse segretario, almeno dalla fine degli anni ’80 quando De Mita andò a Palazzo Chigi. Martinazzoli era infatti “la carta” della discontinuità, del possibile ricominciamento come si diceva allora. Ma non tutto il gruppo dirigente del partito ne era convinto. Anzi, la caduta del muro nel 1989 secondo alcuni avrebbe aperto praterie infinite alla Dc, tanto valeva approfittarne! Arrivò così la prima discesa sotto il 30% nelle elezioni del 1992, le prime contestazioni periferiche dei dirigenti nazionali e poi l’esplosione di tangentopoli.
Martinazzoli, acclamato a quel punto a gran voce, non poté fare alcun miracolo. Anche se la base si infiammò subito come ai tempi di Zaccagnini e le piazze e i teatri tornarono a riempirsi, ma non altrettanto le urne. Privo della solidarietà vera di gran parte del precedente gruppo dirigente che per lo più assisteva in modo passivo alla demolizione di ciò che pur si doveva, e anche di quanti dall’esterno dichiaravano di parteggiare per il rinnovamento del partito ma non erano disposti ad esporsi più di tanto, Martinazzoli, con la sola forza della propria coscienza e del proprio disinteresse personale, tentò di tracciare il solco di un altro percorso dando vita a un partito nuovo, il Ppi, che conservasse nel nome la fedeltà alle antiche radici e insieme a un nuovo progetto.
Progetto. Su questo Martinazzoli, evocando l’insegnamento di Sturzo, si soffermava spesso riuscendo a mobilitare intelligenze e competenze anche esterne, ma i tempi erano poco propensi a valutare la qualità delle proposte. Alle elezioni del 1994 la lista “Alleanza per l’Italia” presentata insieme a Mario Segni, Giorgio La Malfa e Giuliano Amato raccolse poco meno del 18%, non poco ma troppo poco per quanti dall’interno, spesso dimentichi delle proprie colpe, gridarono subito alla sconfitta. Fu a quel punto che Martinazzoli ritenne di lasciare ad altri il cammino appena iniziato. Si ritirò a Brescia ma non si ritirò dalla politica.
Non si ritirò dall’interesse, dalla passione e dall’intelligenza per le vicende politiche. Sempre disponibile anche ultimamente, negli spazi che gli consentiva la grave malattia, a conversare e dispensare suggerimenti, con il rigore e la severità intellettuale di sempre. Le caratteristiche che avevano fatto di lui un personaggio atipico, scomodo, mai appagato, un po’ solitario, riflessivo, sempre alla ricerca di un punto di approdo.
Un intellettuale solido, i suoi aforismi non erano mai vezzi o civetterie raccolte dal “libro delle citazioni” ma frutto della ruminazione spirituale e culturale di letture classiche oltreché dalla consuetudine di colloqui gratificanti con amici veri come furono per lui Firpo, Galante Garrone, Luzi, Montanelli e, nell’area del partito, Andreatta, Elia, De Rosa e Scoppola.
«Le idee non valgono per quel che rendono ma per quel che costano», amava ripetere ricordando il suo conterraneo padre Bevilacqua. E questa per lui era una regola che applicava a sé e anche al suo partito, quando si esponeva su frontiere del pensiero rischiose perché ritenute da chi gli era vicino troppo innovative.
Si definiva un cattolico liberale, e lo era, anzi “manzoniano” e “rosminiano” per non confondersi con i troppo facili liberisti.
Laico, consapevole della specifica responsabilità posta in capo ai credenti, sulla scia della tradizione cattolico democratica bresciana le cui radici precedono lo stesso Ppi di Luigi Sturzo, si sentiva fortemente coinvolto dal dibattito ecclesiale.
Con lui ho avuto modo, ancora poco tempo fa, di discutere del “testamento biologico”, tema che lo intrigava anche per la sua condizione personale di cui ha sempre posseduto lucida consapevolezza, riscontrando una convergenza di preoccupazioni per la difficoltà a trovare soluzioni a questioni del tutto inedite che confermassero l’idea di uno stato amico dell’uomo: «Del resto non è vero che abbiamo sempre voluto un cambiamento che desse sempre più spazio alla società, equità ai cittadini, che ridefinisse le regole, la moralità, l’autorevolezza di uno stato concepito come stato del valore umano?». Si sentivano in queste riflessioni ascendenze del pensiero di Aldo Moro di cui fu amico e discepolo.
Martinazzoli soffriva moltissimo l’accusa di aver liquidato la Dc: «La Dc l’hanno liquidata altri, io non sono riuscito a farla rinascere perché i danni erano gravi e, per la verità, perché un ciclo storico si era concluso», e perché non vennero raccolte le sue esortazioni, «potevamo essere più democristiani di prima, meno il nostro potere e di più il nostro progetto». Ed era infastidito dagli insistenti richiami al moderatismo, come se fosse possibile costringere la potenza dell’ispirazione cristiana entro i confini angusti di una formula e di una ambizione contratta: «La moderazione è tutto tranne che moderatismo, neutralità, spirito conservatore. La parola moderazione raffigura vocazione trasformatrice e capacità di tolleranza, di armonia, di equità. Significa soprattutto esaltazione della libertà come espressione di verità e di ordine, di autonomia e di responsabilità, di rispetto della persona e di solidarietà fra le persone». In conclusione mi pare si possa dire che ci ha lasciato un uomo politico non consueto, il cui nome sarà per sempre associato al tentativo di evitare con le sole armi dell’intelligenza e della generosità il tracollo della cosiddetta prima repubblica. Ma contro la forza della storia, che chiude e apre le fasi quando cambiano le condizioni, quelle armi non bastarono.

Pierluigi Castagnetti, Europa 6 settembre 2011

La peggior forma di governo

  " La democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre fino ad ora sperimentate " Winston Churchill a...