sabato 31 marzo 2012

Il mistero di S. Apollinare

Il permesso per seppellire il capo della banda della Magliana nella chiesa di Sant’Apollinare arrivò direttamente dalla Cei. E’ stato infatti il cardinal Ugo Poletti il 10 marzo 1990 a rilasciare il “nulla osta della Santa Sede alla tumulazione della salma”. Così scrive il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri in una lettera a Walter Veltroni che aveva presentato un’interrogazione sulla questione.

La basilica di S. Apollinare, rileva il ministro, “non è territorio dello Stato del Vaticano” ma gode di un “particolare regime giuridico, definito dalla Corte Costituzionale ‘privilegio di extraterritorialità” che si traduce “nel riconoscimento alla Santa Sede della facoltà di dare all’immobile “l’assetto che creda, senza bisogno di autorizzazioni o consensi da parte di autorità governative, provinciali, comunali italiane”.

Nella lettera del ministro Cancellieri si ammette che ieri pomeriggio sono stati acquisiti documenti che hanno consentito di appurare una serie di circostanze. “In data 10 marzo 1990 il cardinal Ugo Poletti – scrive Cancellieri – rilasciava il nulla osta della Santa Sede alla tumulazione della salma di De Pedis nella Basilica di S. Apollinare”. Il 20 marzo 1990 “monsignor Pietro Vergari, attesta, nella qualità di Rettore della Basilica di S. Apollinare, che la stessa è soggetta allo speciale regime giuridico di cui all’articolo 16 della legge n. 810/29 sopra richiamato. E poi la famiglia De Pedis ottiene, in data 23 marzo 1990, dall’autorità comunale l’autorizzazione all’estumulazione della salma del congiunto dal Cimitero monumentale del Verano per il successivo trasferimento alla Basilica di S. Apollinare in Roma”.

“La famiglia De Pedis chiede nella stessa data, 23 marzo 1990, l’assistenza sanitaria per la traslazione della salma ‘nella Basilica di S. Apollinare Stato Città del Vaticano’. La famiglia De Pedis ottiene in data 24 aprile 1990 dalla autorità comunale l’autorizzazione al trasporto della salma del congiunto ‘da Roma a Città del Vaticano’”. Dei nuovi documenti, chiude la lettera, “è stata informata l’autorità giudiziaria”.

“La lettera del Ministro Cancellieri è molto importante – ha replicato lo stesso Veltroni – fissa dei dati che mutano l’analisi della situazione”. Secondo l’ex segretario del Pd lo status della “basilica di sant’Apollinare consente di mutare, senza autorizzazioni italiane, ‘l’assetto’, così evidentemente intendendosi opere sulla struttura dell’edificio che possono essere effettuate in deroga a permessi amministrativi. Come è ovvio non sono trasferibili a beni non extraterritoriali i benefici previsti per quelli che lo sono. Evidentemente dunque non poteva essere trasferita lì, senza l’ottemperanza alle leggi italiane, una salma traslata da un cimitero sul territorio del nostro paese”, aggiunge. “Il ministro conferma che nessuna autorizzazione di quelle previste dalla legge è stata rilasciata, mai. Anche in ragione del fatto che, secondo le leggi italiane per eseguire queste speciali sepolture è necessario che il defunto abbia acquisito in vita ‘speciali benemerenze’. E non è certo il caso del Signor De Pedis, capo della banda della Magliana”, sottolinea Veltroni. “Dunque questo è il primo profilo di evidente irregolarità della anomala procedura che ha portato alla incredibile decisione di seppellire il capo di una banda criminale in una delle Basiliche di maggiore importanza di Roma”, dice ancora Veltroni. “Ribadisco che per me De Pedis, come ogni cittadino, ha diritto ad una sepoltura dignitosa. Come gli altri. Non di meno, non certo di più – sottolinea – il ministro indica però dei nuovi documenti, ‘pervenuti ieri’ al Ministero. Secondo queste carte, del Comune di Roma, viene realizzata una clamorosa procedura”.

“E’ evidente ora – continua Veltroni – che per questa incredibile decisione si sono aggirate leggi nazionali e alterate le procedure di autorizzazione locale. Perché? Chi lo ha fatto?”, si chiede il parlamentare. Il Ministro, prosegue, “nella conclusione della sua lettera, fa una affermazione importante”: la decisione di informare l’autorita’ giudiziaria. “Chi, come me, ha fiducia nella magistratura sa che non sarà inutile. Se qualche passo in avanti si fa è merito in primo luogo della famiglia Orlandi, di quelle trasmissioni televisive e di quei giornali che non hanno mai smesso di cercare la verità”.

A sorpresa nel dibattito interviene la famiglia di De Pedis, attraverso l’avvocato. I parenti di “Renatino”, spiega il legale, non si opporrebbero a “un eventuale spostamento della tomba del loro congiunto, deciso dall’autorità giudiziaria o amministrativa”. E questo “per mettere fine una volta per tutte a polemiche inutili” e a quella sorta di “linciaggio mediatico che lo vuole per forza coinvolto nel sequestro di Emanuela Orlandi“. Lorenzo Radogna, legale della famiglia dell’ex boss della banda della Magliana, ribadisce che “al punto in cui siamo è davvero improprio parlare di giallo. L’articolo 16 del Concordato Stato-Vaticano stabilisce che ad alcuni immobili, tra cui la basilica di Sant’Apollinare, che insistono sul territorio italiano, la Chiesa può dare l’assetto che creda, senza bisogno di autorizzazioni o consensi da parte di autorità governative, provinciali o comunali italiane. L’autorizzazione del Campidoglio, dunque, non serviva, la sola necessaria era quella del Vicariato, e a darla fu il cardinal Poletti, ma anche questo è risaputo, i documenti sono noti, se ne è parlato tante volte anche in tv”.

Per l’avvocato “sarebbe anche forse il caso di ricordare che la tomba di De Pedis non si trova nella cripta ma nei sotterranei, in una stanzetta, direi un bugigattolo, chiuso da una porta. E se dovesse arrivare un provvedimento che preveda lo spostamento della salma, i familiari non farebbero storie. Anzi, ci stanno pensando seriamente. Gli stessi familiari, del resto, non si erano detti contrari all’apertura del sepolcro, quando sembrava che da quella apertura – ormai sfumata – dipendesse la soluzione di tutti i misteri”.

fonte: il fatto quotidiano, 31 marzo 2012

mercoledì 28 marzo 2012

Il restauro dell' eremo di Val di Sasso

Mercoledì 22 dicembre, alle ore 12.00, presso la sede della Giunta Regionale delle Marche, è stato presentato il progetto di ricostruzione parziale e restauro dell'Eremo.
Infatti, dopo anni di attesa, è stato approvato dalla Regione Marche, proprietaria dell'eremo, un progetto di ristrutturazione e ricostruzione dell'eremo di S. Maria di Valdisasso, con parti riservate alla comunità ed altre ad uso pubblico e con la prossima primavera inizieranno i lavori.
L'impresa che si è aggiudicata il progetto è la ditta Lancia di Pergola, con lo studio Paci di Pesaro e altri architetti di Firenze. Si spera che entro 18 mesi, come è stato convenuto, siano ultimati i lavori.
L'ermo potrà ospitare così pellegrini e persone desiderose di momenti forti di preghiera, ritiro e spiritualità, oltre che offrire l'opportunità di convegni e corsi di formazione e studio per un vasto pubblico di utenti.
È davvero una grande opportunità che viene offerta alla nostra Diocesi, alla nostra terra e alla nostra Regione.
Dobbiamo essere grati al Presidente della nostra Regione, Dott. Gianmario Spacca, e alla Giunta regionale per aver fortemente voluto questa opera, al Sindaco e alla Giunta di Fabriano che l'hanno sostenuta e incoraggiata.
Ci sembra che quest'opera rappresenti una bella testimonianza di una feconda intesa e collaborazione tra varie istituzioni della nostra Regione, sia civili che ecclesiastiche.  

Fonte: Diocesi Fabriano-Matelica

sabato 24 marzo 2012

Potestà genitoriale sui figli naturali

Articolo 317 codice civile

Al genitore che ha riconosciuto il figlio naturale spetta la potestà su di lui.
Se il riconoscimento è fatto da entrambi i genitori, I’esercizio della potestà spetta congiuntamente ad entrambi qualora siano conviventi. Si applicano le disposizioni dell’Articolo 316.
Se i genitori non convivono l’esercizio della potestà spetta al genitore col quale il figlio convive ovvero, se non convive con alcuno di essi, al primo che ha fatto il riconoscimento. Il giudice, nell’esclusivo interesse del figlio, può disporre diversamente; può anche escludere dall’esercizio della potestà entrambi i genitori, provvedendo alla nomina di un tutore.
Il genitore che non esercita la potestà ha il potere di vigilare sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figlio minore.

La Suprema Corte Cassazione (Sez. 1, 10 maggio 2011, n. 10265) si è pronunciata sugli effetti delle disposizioni in materia di affidamento condiviso relativamente alla disciplina dell’esercizio della potestà genitoriale sui figli naturali. In particolare, la Cassazione si è espressa ritenendo che l’art. 317 bis, comma 2, c.c. sia stato tacitamente abrogato dalla L. 54/2006.

Rileva che “i cardini del nuovo assetto normativo (L. 54/2006) vanno individuati nella maggiore centralità che assume l'interesse della prole rispetto alle conseguenze della disgregazione del rapporto di coppia.” La valorizzazione della posizione dei minori si esprime non solo nella richiamata affermazione della bigenitorialità, ma anche nell'attribuzione del godimento della casa familiare, nella previsione del preventivo ascolto del minore, e, per quanto qui maggiormente interessa, nella disciplina della potestà dei genitori.

Si è sottolineata l'esigenza di una disciplina sostanzialmente omogenea fra figli legittimi e naturali, che induce ad attribuire un ampio significato, in virtù di un'interpretazione costituzionalmente orientata, all'art. 4, comma 2, della l. n. 54 del 2006.

Con l'espressione "procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati", il legislatore ha inteso disciplinare tutti i rapporti fra genitori e figli naturali, senza alcuna limitazione - in relazione a una materia nella quale, giova ancora una volta ribadirlo, l'intervento del giudice non presenta i caratteri di imprescindibilità rinvenibili nella regolamentazione della crisi delle coppie coniugate (Cass., 20 aprile 1991, n. 4273) -, alle ipotesi caratterizzate da controversie in atto. Di certo non può e non deve escludersi un intervento giudiziale, sia in caso di disaccordo, sia per dettare, nell'interesse esclusivo del minore, una disciplina difforme rispetto alle previsioni di cui all'art. 155, c. 3, c.p.c..”.

Art. 18: old e new style

Art. 18.
Reintegrazione nel posto di lavoro.
Ferme restando l'esperibilità delle procedure previste dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro.
Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di cui primo comma si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale.
Il computo dei limiti occupazionali di cui al secondo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.
Il giudice con la sentenza di cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l'inefficacia o l'invalidità stabilendo un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto.
Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al quarto comma, al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto. Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito del datore di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia richiesto entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento dell'indennità di cui al presente comma, il rapporto di lavoro si intende risolto allo spirare dei termini predetti.
La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma è provvisoriamente esecutiva.
Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
L'ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l'ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell'articolo 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile.
L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.
Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all'ordinanza di cui al quarto comma, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore.

marzo  2012

Il Governo prosegue per la sua strada e presenta la bozza del nuovo articolo 18 della legge n. 300 del 1970, meglio nota come Statuto dei Lavoratori, intitolato: Tutele del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo.
Questi, in sintesi, i punti focali.
Il licenziamento illegittimo potrà rivestire tre diverse sembianze:
1) Licenziamento discriminatorio: il licenziamento intimato per ragioni di credo politico o fede religiosa, per l'appartenenza ad un sindacato o per la partecipazione ad attività sindacali; i licenziamenti diretti a fini di discriminazione sindacale, politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età, o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali; i licenziamenti intimati a causa del matrimonio, ovvero di una gravidanza, o della richiesta dei congedi parentali o per malattia dei figli, ovvero, infine, i licenziamenti determinati da motivi illeciti ex art. 1345 c.c., saranno considerati nulli.
Per essi il giudice del lavoro ordinerà la reintegrazione, a prescindere dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, oltre al risarcimento del danno determinato attraverso il riconoscimento di una indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegra, in misura non inferiore a cinque mensilità e dedotto l'aliunde perceptum.
Il lavoratore, fermo il diritto al risarcimento del danno nella misura minima di cinque mensilità, potrà sempre optare per un'indennità sostitutiva alla reintegra, pari a dodici mensilità.
Il risarcimento del danno e l'indennità sostitutiva non spetteranno, comunque, nell'ipotesi di revoca del licenziamento, se effettuata entro il termine di trenta giorni dalla sua comunicazione.

2) Licenziamento per giustificato motivo soggettivo, o per giusta causa (licenziamento disciplinare): nel caso in cui il licenziamento disciplinare verrà intimato senza l'esistenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, il recesso, seppur illegittimo, sarà comunque idoneo a risolvere il rapporto di lavoro.
In tale evenienza il Giudice condannerà il datore di lavoro, che alle proprie dipendenze occupi più di quindici dipendenti, al pagamento di un'indennità risarcitoria compresa tra le quindici e le ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
Nell'ipotesi in cui il Giudice accerterà l'inesistenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa per la non commissione del fatto contestato, o per la sua riconducibilità ad una sanzione disciplinare inferiore, il Giudice condannerà il datore di lavoro alla reintegrazione, riconoscendo, altresì, al dipendente, un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegra, detratto l''aliunde perceptum vel percipiendum.
Le medesime conseguenze di cui sopra si applicheranno anche all'ipotesi del recesso inefficace, in quanto intimato senza il prescritto requisito di forma scritta, ed al licenziamento intimato ad un dipendente ammalato o infortunato.

3) Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: il licenziamento non giustificato da motivo oggettivo, ossia non giustificato da ragioni inerenti l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro, o il regolare funzionamento di essa, per i datori di lavoro che alle loro dipendenze occupino più di quindici dipendenti, sarà sanzionato dal Giudice mediante la condanna al pagamento in favore del lavoratore di una indennità risarcitoria compresa fra quindici e ventisette mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
Nel caso in cui il datore di lavoro intenderà licenziare un proprio dipendente per giustificato motivo oggettivo, dovrà, comunque, far precedere tale sua volontà dalla richiesta di un tentativo di conciliazione avanti la Direzione Territoriale del Lavoro, secondo le modalità indicate nella nuova formulazione dell'art. 7 della legge n. 604 del 15 luglio 1966, consultabile alla nota n. 6 del documento che si allega.

mercoledì 21 marzo 2012

Le 5 quaresime di Francesco

Nell’arco di un anno, S. Francesco viveva ben cinque Quaresime che distribuiva nei vari periodi, allo scopo di rivivere intensamente i misteri sacri dell’anno liturgico.

La Quaresima Grande, quella istituita dalla Chiesa per dar modo ai suoi figli di partecipare alla suprema azione salvifica di Cristo attraverso la sua Passione, Morte e Resurrezione, era per Francesco la Quaresima delle Quaresime, cioè il periodo in cui voleva corrispondere col massimo impegno all’amore di Gesù. In una di queste quaresime, Francesco si ritirò nell’Isola Maggiore sul Lago Trasimeno dove, ad esempio di Cristo, digiunò per quaranta giorni e quaranta notti e alla fine mangiò soltanto mezzo pane per non montare in superbia e cacciare via il veleno della vanagloria.

Oltre alla Quaresima Grande, S. Francesco celebrava quella di Avvento, che durava dalla festa di Ognissanti fino alla vigilia di Natale perché considerava importante prepararsi alla celebrazione del mistero dell’Incarnazione, tanto quanto prepararsi a quello della Pasqua.

Un’altra Quaresima vissuta da Francesco era quella dell’Epifania o Benedetta. Essa rappresentava un modo per ricongiungere il tempo di Natale a quello di Pasqua, che Francesco considerava strettamente legati, come due manifestazioni del mistero della salvezza e dell’amore di Cristo. Questa quaresima non veniva imposta ai frati, ma solo raccomandata. Tuttavia Francesco la arricchì di una speciale benedizione, per questo fu chiamata Benedetta.

Francesco celebrava, inoltre, la Quaresima dalla festa degli Apostoli Pietro e Paolo all’Assunta. L’inizio, fissato nella festa degli apostoli Pietro e Paolo, esprimeva il desiderio di comunione con il Papa e con la Chiesa. La conclusione, stabilita nel giorno della festa dell’Assunta, metteva invece in risalto la verità della devozione a Maria, figura della Chiesa.

Infine, una Quaresima particolare vissuta esclusivamente da Francesco era quella di San Michele. Essa iniziava il giorno dell’Assunta e terminava il giorno della festa di San Michele Arcangelo. Durante questo periodo, Francesco sprofondava nella meditazione del mistero di Cristo con la visione della Gerusalemme celeste, illuminata dal sole che non tramonta  nella gloria di Maria, degli angeli e dei santi. Francesco esortava ad onorare più solennemente San Michele perché egli è l’incaricato di presentare le anime a Dio. Perciò, Francesco viveva intensamente questi giorni, con la massima devozione. Fu proprio durante una di queste Quaresime, nel 1224, sul monte santo della Verna, che sul corpo di Francesco avvenne il miracolo delle stimmate, che realizzava la massima conformità dell’uomo Francesco a Cristo Crocifisso.

Attraverso queste cinque quaresime, Francesco trascorreva ogni anno circa duecento giorni in solitudine, preghiera, digiuno e  mortificazione, appartato dagli uomini e profondamente assorto in Dio. Potremmo perciò definire S. Francesco un uomo “fatto quaresima”, a ricordarci che la Quaresima non è soltanto un tempo opportuno per “fare” delle azioni come la preghiera, il digiuno e i gesti di carità ma un tempo per “essere” sempre più preghiera, sempre più digiuno e sempre più carità. Francesco non ha contato i giorni dei suoi sacrifici per Cristo ma, ad imitazione di Colui che amava, li ha moltiplicati, benedetti, resi fecondi.

Possiamo anche noi vivere intensamente questi quaranta giorni appartati da ciò che è banalità, vanità, effimero, col cuore tutto rivolto a Colui che non ha risparmiato la propria vita per noi.
Possiamo con S. Francesco anche noi ripetere le parole di San Paolo: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa”.

domenica 18 marzo 2012

Le bianche caravelle

Esistono momenti nella vita in cui  le parole degli uomini, anche quelle degli amici e dei poeti e degli scrittori più cari sembrano di troppo e la giornata si fa silenziosa e assorta.
Confusamente allora può riemergere il ricordo di qualche breve frammento vecchio di secoli: Ritornate alla cittadella, prigionieri della speranza, dice il profeta Zaccaria.
La Chiesa custodisce la speranza degli uomini, proprio per i giorni in cui, dipendesse tutto da noi, ci sentiremmo nell’opacità della nebbia, senza punti chiari di riferimento.
Bisogna che la preghiera sia digiuno, prima di essere banchetto. Tu eviterai quindi di inventar preghiere. Tu canterai umilmente con il libro dei poveri di spirito. Ed aspetterai. L’abate esperto della vita insegna così all’irruenza  di Miguel Manara.
Anche questo è ritornare alla cittadella.
E c’è una via ancora più semplice, a cui invita la prossima festa dell’Annunciazione; la poesia di Péguy la suggerisce con parole di grande dolcezza:
Bisogna prendere il coraggio a due mani
E rivolgersi direttamente a colei che è al di sopra di tutto
Essere arditi. Una volta.
Rivolgersi arditamente a colei che è infinitamente bella
Perché è anche infinitamente buona.
A colei che intercede.
La sola che possa parlare con l’autorità di una madre.
Rivolgersi arditamente a colei che è infinitamente pura.
Perché è anche infinitamente dolce.
A colei che è infinitamente nobile.
Perché è anche infinitamente cortese.
Infinitamente accogliente.
A colei che è infinitamente grande.
Perché è anche infinitamente piccola.
Infinitamente umile.
Una giovane madre.
A colei che è infinitamente gioiosa.
Perché è anche infinitamente dolorosa.
A colei che è infinitamente commovente.
Perché è anche infinitamente commossa.

L’autore paragona la preghiera di Gesù, il Padre nostro, alla punta del vascello dell’immenso corteo di preghiere che sale verso Dio, con una scia che s’allarga fino a sparire. 



E’ una grande  nave da guerra che avanza gagliarda e sicura. E dopo di essa ecco le bianche caravelle delle  Ave Maria, umilmente raccolte sotto le loro vele a fior d’acqua; come bianche colombe che si prendessero nella mano.
Di tutti i vascelli sono le più opportune,
Cioè quelle che si presentano più direttamente davanti al porto.

Il Padre comprende che tutte le preghiere  come timidi passerotti si sono ammassati dietro colui che è forte, si nascondono dietro lo sperone della preghiera di Gesù e proprio per Lui accoglie la flotta di tutte le preghiere che non sono nemmeno dette, le parole che non sono pronunciate.
Colui che ne è la sede non se ne accorge nemmeno.
Ma io le raccolgo, dice Dio, e le conto e le peso.
Perché io sono il giudice segreto.

Il Sussidiario.net, 17 marzo 2012

venerdì 16 marzo 2012

Diritto alla vita familiare

ROMA - Le coppie omosessuali, se con l'attuale legislazione "non possono far valere il diritto a contrarre matrimonio né il diritto alla trascrizione del matrimonio celebrato all'estero", tuttavia hanno il "diritto alla vita familiare " e a "vivere liberamente una condizione di coppia" con la possibilità, in presenza di "specifiche situazioni", di un "trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata". Lo afferma la Cassazione, in una sentenza depositata oggi.

Il verdetto è arrivato a conclusione di un iter giudiziario avviato da una coppia gay della provincia di Roma che si era sposata all'Aja, in Olanda, e chiedeva la trascrizione dell'atto di nozze in Italia. Richiesta che la prima sezione civile della Cassazione ha respinto, stabiliendo però che anche per le coppie gay devono valere gli stessi diritti assicurati dalla legge a qualsiasi coppia etero e pertanto "possono adire i giudici comuni per far valere, in presenza di specifiche situazioni, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata".

Il pronunciamento della Suprema corte viene definito storico dall'Arcigay. La sentenza, sottolinea presidente nazionale Paolo Patanè, "ha segnato un altro importante passo avanti sulla strada di una sempre più efficace protezione delle coppie omosessuali".  "Sono almeno tre i punti che - spiega - ci sembrano configurare un'autentica rivoluzione copernicana.

Da una parte la Corte afferma che le coppie omosessuali godono pienamente di un 'diritto alla vita familiare', recependo quindi l'orientamento già espresso dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nel 2010. In secondo luogo la Cassazione riecheggia quasi testualmente la decisione già adottata dalla nostra Corte costituzionale sempre nel 2010, riconoscendo alle persone omosessuali 'il diritto a vivere liberamente una condizione di coppia' con la possibilità di ricorrere ai giudici 'a prescindere dall'intervento del legislatore in materià. Ma soprattutto - osserva Patanè - la Corte formula importanti affermazioni di principio che sembrano smentire le posizioni recentemente espresse da alcuni politici circa la natura necessariamente eterosessuale del matrimonio".

Per il portavoce del Gay Center, Fabrizio Marrazzo, "la sentenza di oggi è importantissima: fa una fotografia della realtà delle coppie lesbiche e gay, stabilendo che anche per le coppie gay devono valere gli stessi diritti assicurati dalla legge a qualsiasi coppia eterosessuale. Sono parole chiare e nette di fronte alle quali il Parlamento e il Governo sono chiamati a dare una risposta".

Reazioni positive alla sentenza anche dal mondo politico. "Le coppie di fatto per la Cassazione hanno diritto a un 'trattamento omogeneo alle coppie coniugate'. W la Cassazione abbasso, su questo, Alfano", scrive su twitter il capogruppo di Fli alla Camera, Benedetto Della Vedova. Massimo Donadi, presidente del gruppo Idv alla Camera, si chiede come "è possibile che in questo paese, quando si parla di temi etici e di diritti civili, la politica arrivi sempre in ritardo? E' accaduto nel recente passato con la vicenda di Eluana Englaro. Stavolta, sul tema della coppie gay, è la Cassazione a prendere atto dei cambiamenti sociali e ad esprimersi in base al diritto"

"Non posso che ringraziare la Cassazione per la sentenza emessa oggi perché, come la coppia omosessuale che si è sposata all'Aja, anche a me e a mia moglie Ricarda è stata rifiutata la registrazione del matrimonio dal Comune di Roma e avevamo già deciso di fare esattamente quello che la Cassazione propone", dichiara Anna Paola Concia, deputata del Partito democratico. Soddisfazione per il verdetto è espressa anche dal senatore Pd Roberto Della Seta, componente della commissione straordinaria per i diritti umani. "L'auspicio - afferma - è che ora questo principio di elementare buon senso trovi piena applicazione nelle leggi". "Il nostro paese - continua - è uno dei più arretrati quanto a diritti delle persone omosessuali, e questo alimenta e legittima persistenti atteggiamenti omofobi e discriminatori, che talvolta non risparmiano anche esponenti politici".

(La Repubblica, 15 marzo 2012)

domenica 11 marzo 2012

Flores vs Bersani



Veleni e polemiche al corteo dei manifestanti della Fiom, ma nessun incidente. Tanti gli applausi per Maurizio Landini che arringa la folla dal palco di Piazza San Giovanni: "Contateci voi, guardate questa piazza: è la nostra migliore risposta". Gli organizzatori, comunque, stimano una partecipazione compresa fra 30 e 50 mila persone. Il leader della Fiom ha ribadito che "l'articolo 18 non si tocca" e ha offerto la via della piazza alla Cgil: "Siamo pronti a tornare qui fino allo sciopero generale".
Farà discutere l'intervento di Paolo Flores D'Arcais, direttore del sito Micromega. Flores D'Arcais sale sul palco e attacca Marchionne, Sacconi, Brunetta e Berlusconi. Nulla di nuovo, tranne che nel calderone dei 'cattivi' questa volta entra anche il leader del Pd Pierluigi Bersani.  Il direttore di Micromega si scaglia contro "questi signori" che, a suo dire ogni volta che si stracciano le vesti perché la Fiom fa politica, hanno la faccia come il c...”.
Immediata la reazione nel Pd, che chiede alla Fiom di prendere le distanze da Flores D'Arcais. Per Misani il linguaggio del direttore di Micromega "è lo stesso di Bossi".

fonte: Quotidiano.net , 9 marzo 2012

lunedì 5 marzo 2012

Il borghese e il signore

Un uom già fu della campagna amante,
mezzo borghese e mezzo contadino,
che possedeva un orto ed un giardino
fiorito, verdeggiante,
recinto intorno da una siepe viva.

Colà dentro ogni sorta vi fioriva
d'insalate e bei fiori di mughetto,
e gelsomini e fresca erba cedrina,
per fare a Caterina
il giorno della festa un bel mazzetto.

Questa felicità
da una Lepre fu tanto disturbata,
che il nostro galantuomo una mattina
va dal Signor della città vicina
e racconta la cosa come sta.

- Questa bestia indiscreta
viene, - dice, - ogni dì mattina e sera,
si satolla di cavoli e di bieta,
ridendo delle trappole e dei ciottoli,
che perdon contra ad essa tutto il credito.
È un pezzo che la dura questa bega,
e quasi entro in sospetto
che sia folletto questa Lepre o strega.

- Anche fosse il diavol colla coda, -
dice il Baron, - lasciate fare a me,
che in due minuti o tre
ve la metto al dover. - Quando? - Dimani -.

E come disse, vien colla sua gente,
armi, cavalli e cani,
e, comandando in casa allegramente,
- Compar, - dice al padrone, -
i vostri polli sono grassi e teneri,
facciamo prima un po' di colazione.

Dov'è, dov'è la bella padroncina?
Carina, t'avvicina,
quando le nozze? ehi, galantuomo, a questo
giova pensarci e presto.
Mano alla borsa, un genero ci vuole -.
Il buon Signor con tenere parole
la ragazzina fa sedere accanto,
le carezza una mano
e poi pian piano
sale al braccio, le tocca il fazzoletto,
con altre cortesie, da cui procura
difendersi la bella con rispetto.
Il babbo tace e bolle dal dispetto.

Già brulica di gente la cucina,
si mangia, si tempesta.
- Questi sono prosciutti della festa! -
dice il Signor. - È vostra cortesia;
se vi piaccion, son vostri. - Grazie, amico,
mandateli, vi prego, a casa mia -.

Mangia il Signore e mangia una caterva
di cani e cacciatori e servitori,
tutti animali e gente
a cui non manca per fortuna un dente.

In casa del padrone chi comanda
è l'Eccellenza sua, che trinca, abbraccia
e mangia in fin che giunge
il momento d'uscir a dar la caccia.

Ora incomincian le dolenti note!
Di corni e trombe scoppia un chiasso tale,
che par quasi il giudizio universale.
Ah povero padron! ah sentieroli,
ah fresche insalatine!
Addio porri, cicorie, addio fagioli,
che fate la minestra così buona!
All'erba, ai fior la caccia non perdona.

La Lepre che rifugio
avea trovato all'ombra d'un gran cavolo,
cacciata, tempestata, da un pertugio
della siepe scappò come il diavolo.
Ma il pertugio divenne una caverna,
perché il Signor, che si diverte al ballo,
vuol che si esca di là tutti a cavallo.

- Gli spassi ecco dei Grandi! - a quella vista
esclama il pover'uomo. In un momento
fecero i cani ed i cavalli un danno,
che certo ugual non fanno
cento lepri in un anno o cinquecento.

O stati microscopici,
non cercate arbitrati ai più potenti,
ma gli strappi aggiustatevi da voi.
Se li chiamate prima nelle guerre
li vedrete restar poi per le terre.

Articolo 9

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica .
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Una costituente per la cultura

Cinque punti per una "costituente" che riattivi il circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione (Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2012).

Occorre una vera rivoluzione copernicana nel rapporto tra sviluppo e cultura. Da "giacimenti di un passato glorioso", ora considerati ingombranti beni imporoduttivi da mantenere, i beni culturali e l'intera sfera della conoscenza devono tornare a essere determinanti per il consolidamento di una sfera pubblica democatica, per la crescita reale e per la rinascita dell'occupazione.

1. una costituente per la cultura
Cultura e ricerca sono due capisaldi della nostra Carta fondamentale. Le riflessioni programmatiche che proponiamo qui cercano di mettere a punto alcuni elementi "per una costituente della cultura". L'articolo 9 della Costituzione "promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione". Sono temi saldamente intrecciati tra loro. Perché ciò sia chiaro, il discorso deve farsi strettamente economico. Niente cultura, niente sviluppo. Dove per "cultura" deve intendersi una concezione allargata che implichi educazione, istruzione, ricerca scientifica, conoscenza. E per "sviluppo" non una nozione meramente economicistica, incentrata sull'aumento del Pil, che si è rivelato un indicatore alquanto imperfetto del benessere collettivo e ha indotto, per fare solo un esempio, la commissione mista Cnel-Istat a includere cultura e tutela del paesaggio e dell'ambiente tra i parametri da considerare. La crisi dei mercati e la recessione in corso, se da un lato ci impartiscono una dura lezione sul rapporto tra speculaizone finanziaria ed economia reale, dall'altro devono indurci a ripensare radicalmente il nostro modello di sviluppo.

2. strategie di lungo periodo
Se vogliamo davvero ritoranre a crescere, se vogliamo ricominciare a costruire un'idea di cultura sopra le macerie che somigliano assai da vicino a quelle da cui è iniziato il risveglio dell'Italia nel secondo dopoguerra, dobbiamo pensare a un'ottica di medio-lungo periodo in cui lo sviluppo passi obbligatoriamente per la valorizzazione dei saperi, delle culture, puntando in questo modo sulla capacità di guidare il cambiamento.
La cultura e la ricerca innescano l'innovazione, e dunque creano occupazione, producoo progresso e sviluppo. La cultura, in una parola, deve tornare al centro dell'azione di governo. Dell'intero Governo, e non di un solo ministero che di solito ne è la Cenerentola. E' una condizione per il futuro dei giovani. Chi pensa alla crescita senza ricerca, senza cultura, senza innovazione, ipotizza per loro un futuro da consumatori disoccupati, e inasprisce uno scontro generazionale senza vie d'uscita.
Anche la crisi del nostro dopoguerra, a ben vedere, fu affrontata investendo in cultura. Le nostre città, durante quella stagione, sono state rpotagoniste della crescita, hanno contruito "cittadini", e il valore sociale condiviso che ne è derivato ha cfreato una nuova cultura economica.
Ora le sfide paiono meno tangibili rispetto alle macerie del dopoguerra, ma le necessità e la capacità di immaginare e creare il futuro sono ancor più necessarie e non rinviabili. Se oggi quelle stesse città che sono stati laboratori viventi sembrano tramatizzate da un senso di inadeguatezza nell'interpretare le nuove sfide, ciò va ascritto a precise responsabilità di governo e a politiche e pratiche decisionali sbagliate. Negli ultimi decenni nel nostro Paese - a differenza di altri, Francia, Germania, Stati Uniti oltre a economia recentemente "emerse" - è accaduto esattamente l'inverso di ciò che era necessario. Si è affermata la marginalità della cultura, del suo Ministero, e dei Ministeri che ne occupano (Beni e Attività Culturali e Istruzione, Università e Ricerca) considerati centri di spesa improduttiva, da trattare con tagli trasversali.

3. cooperazione tra i ministeri
Oggi si impone un radicale cambiamento di marcia. Porre la reale funzione di sviluppo della cultura al centro delle scelte dell'intero Governo, significa che la strategia e le conseguenti scelte operative, devono essere condivise dal ministero dei Beni Culturali con quello dello Sviluppo, del Welfare, della Istruzione e Ricerca, degli Esteri e con il Presidente del Consiglio. Inoltre il ministero dei Beni Culturali e del paesaggio dovrebbe agire in stretta coordinazione con quelli dell'Ambiente e del Turismo.
Non si tratta solo di una razionalizzazione di risorse e competenze, ma dell'assunzione di responsabilità condivise per lo sviluppo. Responsabilità né marginali né rinviabili. Se realisticamente una vera integrazione degli obiettivi sembra difficile date le strutture relative di potere di ogni ministero e la complessità di azione propria dei ministeri stessi, tuttavia questo non deve diventare un alibi per l'inazione. Al contrario: esso deve imprimere il senso della necessità di favorire ogni forma di sperimentazione possibile che vada nella direzione di una cooperazione tra ministeri, oltre che ripristinare i necessari collegamenti tra Nord e Sud, tra centro e periferie. Si tratta di promuovere il funzionamento delle istituzioni mediante la lor leale cooperazione, individuando e risolvendo i conflitti a livello normativo (per esempio i conflitti Stato-Regioni per le norme su ambiente e paesaggio).

4. l'arte a scuola e la cultura scientifica
E' importante che l'azione pubblica contribuisca a radicare a tutti i livelli educativi, dalle elementari all'università, lo studio dell'arte e della storia per rendere i giovani i custodi del nostro patrimonio, e per poter fare in modo che essi ne traggano alimento per creatività del futuro. Per studio dell'arte si intende l'acquisizione di pratiche creative e non solo lo studio della storia dell'arte. Ciò non significa rinunciare alla cultura scientifica, che anzi deve essere incrementata e deve essere considerata, in forza del suo costitutivo antidogmatismo, un veicolo prezioso dei valori di fondo che contribuiscono a formare cittadini e consumatori dotati di spirito critico e aperto. La dicotomia tra cultura umanistica e scientifica si è rivelata infondata proprio grazie a una serie di studi cognitivi che dimostrano che i ragazzi impegnati in attività creative e artistiche sono anche i più dotati in ambito scientifico.

5. merito, complementarità pubblico-privato, sgravi ed equità fiscale
Una cultura del merito deve attraversare tutte le fasi educative, formando i nuovi cittadini all'accettazione di precise regole per la valutazione dei ricercatori e dei loro progetti di studio. non manca il merito, nei percorsi italiani di formazione. Lo dimostra il crescente successo di giovani educati in Italia che trovano impiego nelle più prestigiose università di ricerca in tutto il mondo. Ma finché on riusciremo ad attrarre altrettanti "cervelli" dall'estero, questo saldo passivo dissangujerà la nostra scienza e la nostra economia. E' necessario, riguardo a ognuno degli aspetti trattati, creare le condizioni per una reale complementarità tra investimento pubblico e intervento dei privati, che abbatta anche questa falsa dicotomia. E' la mancata centralità della cultura per lo sviluppo che ha portato a normative fiscali incoerenti e inefficaci.
La complementarità pubbloco/privato, che implica una forte apertura all'intervento dei privati nella gestione del patrimonio pubblico, deve divenire cultura diffusa e non presentarsi solo in episodi isolati.
Può nascere solo se non è pensata come sostitutiva dell'intervento pubblico, ma fondata sulla condivisione con le imprese e i singoli cittadini del valore pubblico della cultura.
Si è osservato in questi anni che laddove il pubblico si ritira anche il privato diminuisce in incisività, mentre politichepubbliche assennate hanno un forte potere motivazionale e spingono anche i privati a partecipare alla gesitone della cosa pubblica.
Provvedimenti legislativi a sostegno dell'intervento privato vanno poi ulteriormente sostenuti attraverso un sistema di sgravi fiscali (in molti Paesi persino il biglietto per un museo o un teatro è detraibile).
Misure di questo genere ben si armonizzano con l'attuale azione di contrasto all'evazione a favore di un'equità fiscale finalizzata a uno scopo comune: il superamento degli ostacoli allo sviluppo del Paese.

Investire in cultura per la crescita

«La bellezza è un valore morale». Era un tormentone quello dell'allora vescovo di Locri Giancarlo Bregantini. Non perdeva occasione per raccomandare di intonacare le case, sistemare le strade, curare i giardini, perché «in un posto brutto è facile che i ragazzi crescano brutti». Insomma, insiste nel libro Non possiamo tacere , l'estetica è etica: «i paesi più brutti e trascurati sono quelli segnati dalla mafia».

«Niente cultura, niente sviluppo»,
ha titolato Il Sole 24 Ore lanciando un appello per fare ripartire il Paese puntando su una «costituente» che «riattivi il circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione». I confronti su 125 nazioni, stando ai dati dell'Università di Costanza, non lasciano dubbi: dove c'è più cultura c'è più innovazione, più sviluppo, più ricchezza e meno corruzione.

Rovesciamo: dove c'è meno cultura c'è meno innovazione, meno sviluppo, meno ricchezza, più corruzione. Nel 2001 investivamo sul nostro tesoro d'arte e paesaggi solo lo 0,39% del Pil, siamo precipitati a un miserabile 0,19%: è stato saggio? Colpa della crisi, dicono. Ma investendo nel «Guggenheim», spiega uno studio di Kea European Affairs per la Ue, Bilbao ha recuperato in 7 anni i soldi spesi «moltiplicati per 18», con la parallela creazione di migliaia di posti di lavoro. Al punto d'esser presa a modello dalla Francia, che per rianimare l'agonizzante area di Lens ha deciso di fare lì, tra le fabbriche dismesse, un nuovo «Louvre» col calcolo che, per ogni euro investito, ne torneranno «come minimo sette».

Dice uno spot girato da Berlusconi che l'Italia ha «il 50% dei beni artistici tutelati dall'Unesco». Magari! Ma è vero che su 911 ne abbiamo più di tutti nel pianeta: 45. Molti più di Francia o Stati Uniti che ci staccano nelle classifiche turistiche. Il guaio è che questo patrimonio, accusa un dossier PwC, lo usiamo male, ricavandone la metà rispetto a Gran Bretagna, Germania e Francia e un terzo rispetto alla Cina.

Ci vorrebbe più testa, per usarlo. E una classe politica più interessata, curiosa, colta. Alla Costituente, pur avendo la guerra ostacolato i percorsi universitari, era laureato il 92% dei parlamentari: oggi la quota si è inabissata al 64%. Ma è il Paese tutto ad arrancare: dai sindaci ai governatori, dagli assessori ai consiglieri regionali. E giù giù ai cittadini che, sempre più indifferenti al bello e al brutto, arrivano a costruire pattume cementizio abusivo sul promontorio di capo Vaticano o sul basolato della via Domiziana accanto alla tomba di Scipione l'Africano.

Da dove ripartire, per fermare la dittatura dell'incuria? Dalla scuola: da lì occorre ricominciare. Se è vero che la nostra stessa identità è definita dai nostri tesori artistici e paesaggistici al punto che noi italiani per gli altri «siamo» la torre di Pisa e Rialto e Pompei, la storia dell'arte via via più maltrattata («sarà possibile diplomarsi in Moda, Grafica e Turismo senza sapere chi sono Giotto, Leonardo o Michelangelo», si indigna Tomaso Montanari sull'ultimo bollettino di Italia Nostra) deve essere materia di interesse nazionale. E permeare i nostri figli fin dalle elementari. Investiamo sulla bellezza e sulle teste: è un affare.

Gian Antonio Stella, La dittatura dell'incuria, 4 marzo 2012


La peggior forma di governo

  " La democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre fino ad ora sperimentate " Winston Churchill a...