mercoledì 30 maggio 2012

Il calcio chiuso

"Bisognerebbe chiudere il calcio per due o tre anni" ha detto alla fine uno sdegnato Mario Monti. Quella di Monti potrebbe sembrare una provocazione da bar ma in realtà è il sasso di un tecnico cresciuto alla Bocconi scagliato nello stagno di uno sport ormai assuefatto ai suoi periodici scandali. E dunque anche un durissimo schiaffo in faccia alle istituzioni e agli uomini che governano il calcio da troppi anni, gli stessi che molto italianamente galleggiano da uno scandalo all’altro.

Sia il processo di Calciopoli tutt’ora in corso, siano gli ultrà che ormai dettano legge non solo in curva ma anche negli spogliatoi e nelle società (vedi il caso Genoa), sia l’inchiesta sulle scommesse con gli stessi meccanismi e i pacchi di soldi che viaggiano di mano in mano come trent’anni fa.
Non li ha nominati direttamente ed esplicitamente ma di sicuro alcuni dei dirigenti poltronati più illustri dello sport italiano - il presidente del Coni Gianni Petrucci, quello della Federcalcio Giancarlo Abete, quello della Lega di serie A Maurizio Beretta - devono aver sentito ieri un leggero pizzicore al fondoschiena. Ce l’avrà per caso con noi il presidente del Consiglio? Beh, si direbbe proprio di sì. E se rassegnaste i vostri mandati nel suo ufficio, probabilmente fareste un favore al paese intero e di sicuro al presidente Monti, che un po’ l’ha sparata grossa ma insomma ve la siete proprio cercata.
Certo quando si leggono le violente reazioni del presidente del Palermo Zamparini - «Monti si vergogni. L’unica cosa indegna in questo Paese è che uno come Monti osi dire quello che ha detto: ci sta massacrando, sta distruggendo l’Italia, dice solo delle stupidaggini» - verrebbe voglia di mettere davvero i sigilli agli stadi, ai campi d’allenamento e alle società di calcio. Ma è comunque difficile che il presidente del Consiglio pensi realmente che il calcio si possa davvero chiudere. E’ un’attività privata innanzitutto, molto popolare e coinvolgente, addirittura secolare, ma non è quella che si dice un’azienda pubblica. E anzi allo Stato versa circa un miliardo di tasse l’anno (quando le versa e non le trattiene sottobanco, ovvio…). Anche se poi i politici lo accarezzano e gli fanno favori notevoli, come la famigerata legge spalmadebiti o salvacalcio che non a caso Monti ha citato come a lui particolarmente indigesta.
La gente si svena per pagare le tasse e i club potevano dilazionare i debiti verso l’erario praticamente all’infinito. La gente comune con questa crisi fallisce e chiude bottega, poveraccia, il grande calcio ha mezzo miliardo di perdite e tira avanti tranquillamente di partita in partita. Vendendosele pure. No non si può andare avanti così, ed è giusto che un presidente del Consiglio parli adesso con un linguaggio esplicito e duro, in modo da farsi capire.
Ma di calcio campano non solo qualche centinaio di ricchissimi professionisti (al cui top c’è il signor Ibrahimovic con il suo stipendio di circa due milioni lordi al mese pagati dall’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi), ma anche parecchie migliaia di famiglie che vivono dell’indotto. Dai giardinieri, agli impiegati delle società, agli operai delle fabbriche di scarpini da pallone e così via. Come si fa a fermarlo per due o tre anni se non mandando a spasso qualche centinaia di migliaia di lavoratori?
No, difficile che il calcio possa chiudere. Ma è anche difficile che la sua crisi morale e il suo lato delinquenziale, diciamolo pure, si possano estirpare se tutto rimane com’è. Se i suoi dirigenti incapaci si autosostengono reciprocamente per rimanere al loro posto, un po’ come accade ai politici incapaci. Se i processi e le inchieste diventano un modo perfino pittoresco, fatto di polemiche e litigi furibondi e veleni, di riempire l’estate tra un campionato (fasullo) e l’altro. Se insomma mai nulla cambia.

Se veramente Monti volesse, potrebbe mettere alle corde tutti quelli che nulla hanno fatto e cambiare il volto dello sport e del calcio in pochissimo tempo, e forse gettare le basi per uno migliore. Senza togliere a nessuno il piccolo piacere di tifare per la propria squadra e di guardarsi la partita in santa pace. Con la certezza che sia vera e non taroccata.

lunedì 28 maggio 2012

evitare commistioni

La normativa attuale impone la separazione dei ruoli tra esecutivo e consiglio; il Consiglio svolge la funzione di indirizzo politico-amministrativo e di controllo sull'attività dell'ente.
Il consigliere quindi non può essere chiamato a gestire direttamente un settore dell'amministrazione per conto del Sindaco perché si troverebbe contemporaneamente nella posizione di controllato (in quanto consigliere delegato) e di controllore (in quanto consigliere).
Nell'ambito dell'autonomia statutaria del Comune, stabilita dall'art. 6 del T.U. 18 agosto 2000, n. 267, è ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, a condizione che il contenuto delle stesse sia coerente e connesso con le funzioni attribuite dall'ordinamento al delegato.
Il consigliere comunale secondo la normativa vigente può essere delegato dal consiglio ad effettuare per conto dello stesso verifiche, accertamenti e studi su determinate materie e provvedimenti e su situazioni particolari, con esclusione della possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, di adottare atti di gestione spettanti ai dirigenti e di esercitare funzioni di competenza del sindaco (e degli assessori), salvo quanto previsto dagli artt. 31 e 54, comma 7, del Testo unico.
Anche la Giurisprudenza ha avuto occasione di occuparsi della materia, tanto che Il TAR Toscana con sentenza n. 1248/04 del 27 aprile 2004 ha ritenuto che lo Statuto, fatto salvo il rispetto dei principi e precetti legislativi in materia di organizzazione degli enti locali, possa prevedere la delegabilità da parte del sindaco ad un consigliere di alcune competenze, che non comportino l'adozione di atti a rilevanza esterna e compiti di amministrazione attiva, limitate ad approfondimenti collaborativi per l'esercizio diretto delle predette funzioni da parte del sindaco che ne è titolare. Il TAR ha, nel caso , ritenuta legittima la delega perché conferita nel rispetto dello statuto e dell'ordinamento dell'ente "avendo il sindaco conservato tutti i poteri di amministrazione attiva... ed escluso che il
consigliere delegato partecipi alle sedute di giunta, abbia poteri decisionali di alcun tipo o, soprattutto, escluso che egli abbia poteri ulteriori rispetto a quelli degli altri consiglieri su dirigenti, funzionari e responsabili degli uffici e servizi comunali".
Pertanto solamente in questi termini, tenuto conto di quanto previsto dallo statuto, può essere valutata la delegabilità di compiti ai consiglieri comunali.
In tal senso anche TAR Puglia Sez. I n. 4499/2006 .
Il Ministero dell'Interno richiesto di parere su di un caso analogo ha avuto modo di inserire sul proprio sito riservato ai pareri, quanto segue :
"Una prefettura ha posto un quesito concernente il possibile conferimento ai consiglieri comunali di deleghe ed incarichi del sindaco, anche con rilevanza esterna, con particolare riferimento all'evenienza che gli statuti comunali disciplinino diversamente la materia.
Al riguardo si rappresenta che nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del T.U.O.E.L., è ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purchè il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Occorre però considerare che, quale criterio generale, il consigliere può essere incaricato di studi su determinate
materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale, in qualità di componente di un organo collegiale, il consiglio, che è destinatario dei compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto. E, poiché come anche
evidenziato dalla prefettura, il consiglio svolge attività di indirizzo e controllo politico-amministrativo, partecipando "...alla verifica periodica dell'attuazione delle linee programmatiche da parte del Sindaco ... e dei singoli assessori" (art. 42, comma 3, T.U.O.E.L.) ne scaturisce l'esigenza di evitare una incongrua commistione  nell'ambito dell'attività di controllo.
Tale criterio generale può ritenersi derogabile solo in taluni casi previsti dalla legge, quali l'art. 54, comma 7, T.U.O.E.L. - per le funzioni svolte dal sindaco nella sua attività di Ufficiale di Governo - e l'art. 31 del citato testo unico, che consente al sindaco di trasferire proprie attribuzioni ad altro organo in caso di partecipazione alle assemblee consortili, composte "dai rappresentanti degli enti associati nella persona del sindaco o di un suo delegato".
Pertanto, la normativa statutaria dell'ente locale, nel disciplinare la materia de qua, potrà prevedere disposizioni compatibili con i suesposti principi recati dalla legge dello Stato, considerato che lo statuto comunale può integrare le norme di legge che stabiliscono il riparto di attribuzioni tra gli organi di governo dell'ente, ma non può
derogarle.
Tale principio rimane valido anche alla luce della riforma del titolo quinto della Costituzione che ha confermato la competenza legislativa statale in materia di "legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane" (art. 117, secondo comma, lettera p della Costituzione).
Premesso che il divieto di delega riguarda soltanto le attribuzioni ex lege del sindaco, può, ad esempio, onsiderarsi compatibile con il T.U.O.E.L. la norma statutaria che consente al sindaco di attribuire "funzioni istruttorie" ai consiglieri, in quanto tali funzioni, per la loro natura, hanno rilievo meramente interno.
Per quanto concerne, invece, le funzioni "esecutive", va ribadito il principio, sopra esposto, per il quale le relative deleghe possono ritenersi compatibili con l'ordinamento vigente solo qualora non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, nè di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici (cfr. in tal senso,
T.A.R. Lazio, Sez. 2^ 8. 10.1993, n. 1164).
Vale al riguardo segnalare una più recente sentenza che non incide ma supporta il delineato orientamento ministeriale; il T.A.R. Toscana con decisione n. 1284/2004, ha confermato che "è ius receptum che lo statuto comunale, fatto salvo il rispetto dei principi e dei precetti legislativi in materia di organizzazione degli enti locali,ben possa prevedere la delegabilità ai consiglieri, da parte del sindaco, di alcune competenze."
In tale occasione viene affermata la legittimità di una disposizione statutaria che esclude la possibilità di delega di compiti di amministrazione attiva, che comporterebbe l'inammissibile confusione in capo al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di controllato.
Una disposizione del genere non altera la posizione politica del consigliere delegato, nell'ambito dell'assemblea consiliare, avendo il sindaco delegato competenze - precise e limitate - non "di governo", ma meramente propositive e di consulenza, nel rispetto sia dei principi generali in materia di organizzazione degli enti locali, sia
dei precetti statutari, essendo stato espressamente precisato che si tratta di competenze funzionali all'espletamento dell'attività di indirizzo e coordinamento.
In particolare il giudice amministrativo ha ritenuto legittima la delega proprio perché posta nel rispetto delle "regole " dell'ente, "avendo il sindaco conservato intatti tutti i poteri di amministrazione attiva ... ed escluso che il
consigliere delegato partecipi alle sedute della giunta, che abbia poteri decisionali di alcun tipo, e soprattutto che
abbia poteri ulteriori rispetto a quelli degli altri consiglieri su dirigenti, funzionari e responsabili degli uffici comunali"."

domenica 27 maggio 2012

Abitazione adeguata

Art. 2 L.R. 36/2005
1. Ai fini della presente legge si intendono:
a) per edilizia sovvenzionata gli alloggi di proprietà dello Stato, dei Comuni e degli ERAP, recuperati, acquistati o realizzati, in tutto o in parte, con fondi statali o regionali per le finalità proprie del settore, ad eccezione di quelli destinati alla locazione ai sensi dell’articolo 11 o realizzati ai sensi dell’articolo 8 della legge 17 febbraio 1992, n. 179 (Norme per l’edilizia residenziale pubblica);
b) per edilizia agevolata gli alloggi di proprietà pubblica o privata recuperati, acquistati o realizzati con contributi pubblici di cui agli articoli 11, 13 e 14, comma 2;
c) per nucleo familiare quello composto dal richiedente, dal coniuge non legalmente separato, dai soggetti con i quali convive e da quelli considerati a suo carico ai fini IRPEF, salva l’ipotesi in cui un componente, ad esclusione del coniuge non legalmente separato, intenda costituire un nucleo familiare autonomo. Non fanno parte del nucleo familiare le persone conviventi per motivi di lavoro. La convivenza è attestata dalla certificazione anagrafica, che dimostra la sussistenza di tale stato di fatto da almeno due anni antecedenti la scadenza dei singoli bandi. Tale limite temporale non è richiesto in caso di incremento naturale della famiglia ovvero derivante da adozione e tutela;
d) per operatori privati le imprese di costruzione e loro consorzi ed associazioni nonché le cooperative di abitazione e loro consorzi.
2. Per abitazione adeguata alle esigenze del nucleo familiare si intende quella con superficie utile calpestabile non inferiore a:
a) mq 30 per un nucleo familiare composto da una persona;
b) mq 45 per un nucleo familiare composto da due persone;
c) mq 54 per un nucleo familiare composto da tre persone;
d) mq 63 per un nucleo familiare composto da quattro persone;
e) mq 80 per un nucleo familiare composto da cinque persone;
f) mq 90 per un nucleo familiare composto da sei o più persone.
2 bis. Ai fini dell’applicazione del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), la Giunta regionale può determinare, sentita la Commissione consiliare competente, parametri abitativi minimi diversi da quelli indicati nel comma 2.
2 ter. Per alloggio improprio si intende l’unità immobiliare avente caratteristiche tipologiche di fatto incompatibili con l’utilizzazione ad abitazione o priva di almeno tre degli impianti igienici di cui all’articolo 7, ultimo comma, del d.m. 5 luglio 1975. Rientrano comunque in detta categoria le baracche, le stalle, le grotte, le caverne, i sotterranei, le soffitte, i bassi, i garages, le cantine e gli alloggi per i quali ricorrono tutte le condizioni di cui al comma 2 quater.
2 quater. Per alloggio antigienico si intende l’abitazione per la quale ricorra almeno una delle seguenti fattispecie:
1) altezza media interna utile di tutti i locali inferiore a metri 2,50, ridotta a metri 2,20 per i vani accessori;
2) presenza di stanza da bagno carente di almeno due degli impianti di cui all’articolo 7, ultimo comma, del d.m. 5 luglio 1975.
Nota relativa all'articolo 2:
Così modificato dall'art. 3, l.r. 27 dicembre 2006, n. 22, e dall'art. 1, l.r. 14 maggio 2007, n. 5

Superare la Babele

Secondo il Tempo, il corvo non canta
 
Dopo che il Vaticano ha aperto un'istruttoria formale a carico di Paolo Gabriele, il maggiordomo di Benedetto XVI arrestato con l'accusa di furto aggravato, è ora caccia ai possibili complici sulla vicenda della fuga di documenti riservati. Si indaga su tabulati telefonici e conti correnti. Per gli inquirenti resta aperto il capitolo dei possibili moventi. Il papa oggi alla messa di Pentecoste: vincere il fascino di seguire le nostre verità, ed accogliere la verità di Cristo, trasmessa dalla Chiesa. Il card.Martini: ora la Chiesa recuperi fiducia, il papa tradito come Gesù duemila anni fa, ora chiedere perdono.

PAPA: SUPERARE BABELE VUOL DIRE AGIRE COME CRISTIANI - "Agire come cristiani" oltre "il proprio io" ma "nel tutto e a partire dal tutto", per il Papa vuol dire "superare la Babele" della divisione e della incomunicabilità, grazie allo Spirito. Benedetto XVI lo ha detto nella omelia di Pentecoste, introducendo anche il tema della unità della Chiesa. Ha sviluppato poi il tema delle "opere della carne", tra cui "egoismo, violenza e inimicizia", contrapposte a quelle dello Spirito. Quindi l'invito a vivere in "unità e verità".

PAPA: VINCIAMO IL FASCINO A SEGUIRE NOSTRE VERITA' 
- "Lo Spirito ci illumini e ci guidi a vincere il fascino di seguire le nostre verità, ed accogliere la verità di Cristo, trasmessa dalla Chiesa". Così Benedetto XVI ha concluso l'omelia della messa di Pentecoste che celebra in San Pietro con 90 tra cardinali e vescovi.

"La Pentecoste - ha detto celebrando in San Pietro con 90 tra cardinali e vescovi il rito solenne con cui la Chiesa ricorda la discesa dello Spirito Santo tra gli apostoli - è la festa dell'unione, della comprensione e della comunione umana. Tutti possiamo constatare - ha aggiunto - come nel nostro mondo, anche se siamo sempre più vicini l'uno all'altro con lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, e le distanze geografiche sembrano sparire, la comprensione e la comunione tra le persone è spesso superficiale e difficoltosa. Permangono - ha proseguito - squilibri che non di rado portano a conflitti; il dialogo tra le generazioni si fa faticoso e a volte prevale la contrapposizione; assistiamo a fatti quotidiani in cui ci sembra che gli uomini stiano diventando più aggressivi e più scontrosi; comprendersi sembra troppo impegnativo e si preferisce rimanere nel proprio io, nei propri interessi. In questa situazione, - si è chiesto Benedetto XVI - possiamo veramente trovare e vivere quell'unità di cui abbiamo tanto bisogno?". Il Papa ha quindi fatto riferimento al racconto biblico della costruzione della torre di Babele che, ha commentato, "contiene una sua perenne verità; lo possiamo vedere lungo la storia, ma anche nel nostro mondo". Con il progresso della scienza e della tecnica siamo arrivati "al potere di dominare forze della natura, di manipolare gli elementi, di fabbricare esseri viventi, giungendo quasi fino allo stesso essere umano". Così la preghiera sembra un fatto "sorpassato", "perché noi stessi possiamo costruire e realizzare tutto ciò che vogliamo". Il mondo di oggi rivive la sua Babele: "abbiamo moltiplicato le possibilità di comunicare, di avere informazioni, di trasmettere notizie, ma possiamo dire che è cresciuta la capacità di capirci o forse, paradossalmente, ci capiamo sempre meno?"

"Agire come cristiani" oltre "il proprio io" ma "nel tutto e a partire dal tutto", per il Papa vuol dire "superare la Babele" della divisione e della incomunicabilità, grazie allo Spirito. Benedetto XVI ha cosi' introdotto il tema della unità della Chiesa
. Ha sviluppato poi il tema delle "opere della carne", tra cui "egoismo, violenza e inimicizia", contrapposte a quelle dello Spirito. Quindi l'invito a vivere in "unità e verità".

"La Pentecoste è la festa dell'unione, comprensione e comunione umana" e lo è anche nel nostro mondo in cui le persone sono più vicine ma "la comprensione e la comunione è spesso superficiale e difficoltosa". Lo dice il Papa, aggiungendo che talora viviamo una "nuova Babele", e "fatti quotidiani in cui sembra che gli uomini stiano diventano più aggressivi e scontrosi, comprendersi sembra troppo impegnativo, e si preferisce restare in se".

"La Pentecoste - ha detto celebrando in San Pietro con 90 tra cardinali e vescovi il rito solenne con cui la Chiesa ricorda la discesa dello Spirito Santo tra gli apostoli - è la festa dell'unione, della comprensione e della comunione umana. Tutti possiamo constatare - ha aggiunto - come nel nostro mondo, anche se siamo sempre più vicini l'uno all'altro con lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, e le distanze geografiche sembrano sparire, la comprensione e la comunione tra le persone è spesso superficiale e difficoltosa. Permangono - ha proseguito - squilibri che non di rado portano a conflitti; il dialogo tra le generazioni si fa faticoso e a volte prevale la contrapposizione; assistiamo a fatti quotidiani in cui ci sembra che gli uomini stiano diventando più aggressivi e più scontrosi; comprendersi sembra troppo impegnativo e si preferisce rimanere nel proprio io, nei propri interessi. In questa situazione, - si è chiesto Benedetto XVI - possiamo veramente trovare e vivere quell'unità di cui abbiamo tanto bisogno?". Il Papa ha quindi fatto riferimento al racconto biblico della costruzione della torre di Babele che, ha commentato, "contiene una sua perenne verità; lo possiamo vedere lungo la storia, ma anche nel nostro mondo". Con il progresso della scienza e della tecnica siamo arrivati "al potere di dominare forze della natura, di manipolare gli elementi, di fabbricare esseri viventi, giungendo quasi fino allo stesso essere umano". Così la preghiera sembra un fatto "sorpassato", "perché noi stessi possiamo costruire e realizzare tutto ciò che vogliamo". Il mondo di oggi rivive la sua Babele: "abbiamo moltiplicato le possibilità di comunicare, di avere informazioni, di trasmettere notizie, ma possiamo dire che è cresciuta la capacità di capirci o forse, paradossalmente, ci capiamo sempre meno?"

di Giovanna Chirri
La "casa costruita sulla roccia" della fede non cade. Il Papa ha usato questa citazione dal Vangelo di Matteo durante l'udienza in piazza San Pietro ai circa 40 mila di Rinnovamento dello Spirito. Una citazione che ha colpito quanti guardavano a Benedetto XVI per coglierne lo stato d'animo dopo l'arresto del suo maggiordomo, accusato di aver sottratto documenti riservati dall'appartamento papale. Accolto festosissimamente e con affetto in piazza, il Papa è apparso sereno anche se un po' affaticato e non ha fatto alcun accenno alle cronache recenti e dolorose. Per la prima volta dal 2006, il posto in prima fila sulla papamobile, accanto all'autista, non era occupato da Paolo Gabriele, detenuto a pochi metri dall'emiciclo berniniano, nella cella di sicurezza del palazzo del Tribunale. Nel pomeriggio invece l'Osservatore romano, ricordando i 35 anni dell'elezione episcopale di Joseph Ratzinger che cadono lunedì, ha significativamente stralciato una frase di un discorso del 2001 in cui l'allora cardinale spiegava che il vescovo deve essere uomo di pace ma non può venire a patti con la corruzione. Piccoli segni, da un universo criptico di suo, e arroccato in questi giorni nello "stupore e sconcerto" per l'arresto di quello che se colpevole sarebbe un ladro dentro le stanze del Papa. Un ladro con non si sa quali intenzioni e che fino a qualche giorno fa era considerato buon cristiano. Il fatto è gravissimo, e ovviamente turba l'opinione pubblica e i fedeli. Di stupore e sconcerto ha parlato il direttore della sala stampa padre Federico Lombardi, che ha espresso anche la speranza che la famiglia del maggiordomo, "amata" in Vaticano, possa "superare questa prova". Nel suo editoriale per Octava Dies, inoltre, padre Lombardi ha rilanciato il discorso che Benedetto XVI ha fatto lunedì scorso ai cardinali sul fatto che é importante avere amici di fronte alle prove della vita e che lui si sente sicuro tra i cardinali suoi amici. Padre Lombardi ha aggiunto di suo che nella lotta contro il male, anche quello nascosto e insidioso, bisogna scegliere da che parte stare. Se poco è filtrato sugli stati d'animo e sentimenti, notevole invece lo sforzo informativo circa l'inchiesta. Appena chiusa l' "istruttoria sommaria" il Vaticano ha confermato il nome dell'arrestato e fornito una serie di chiarimenti: l' "istruttoria formale" è ora nelle mani del giudice istruttore Piero Antonio Bonnet e proseguirà fino a quando avrà acquisito un quadro preciso, verso il proscioglimento o il rinvio a giudizio. Il detenuto ha già incontrato i due avvocati di sua fiducia che ha nominato per la difesa. E' confermato che gli indizi sono pesantissimi: nella sua casa, in territorio vaticano, sono stati trovati "documenti riservati" del cui "possesso illecito" Gabriele è accusato. L'indagine si svolge a tutto campo, non si escludono altre complicità e nessuna pista. Se il Vaticano parla poco, opera però molto, con in prima fila la Gendarmeria guidata dal comandante Domenico Giani. Viene tenuta al corrente dell'indagine penale contro Gabriele anche la commissione dei tre cardinali, Herranz, De Giorgi e Tomko, incaricata lo scorso aprile dal Papa di coordinare l'inchiesta a in tutti gli organismi della curia romana, per stanare i responsabili della fuga di documenti, verificatasi a partire da gennaio. Prime a finire in tv, alcune lettere di mons. Carlo Maria Viganò, attuale nunzio a Washington, contro la "corruzione" nel Governatorato vaticano, poi appunti sullo Ior del card. Nicora, un appunto riservato di padre Lombardi sul caso Orlandi. Fino, ed è stato troppo, alla pubblicazione nel libro di Gianluigi Nuzi di lettere indirizzate direttamente al Papa e documenti riservatissimi.

fonte: Ansa


venerdì 25 maggio 2012

gestire la comunicazione

Grillo parla sul palco ma le fila della regia sono ben pilotate. E vanno al di là dei MeetUp, gli incontri itineranti dei «grillini». A gestire la comunicazione e la strategia politica del Movimento 5 stelle c'è Gianroberto Casaleggio. Capelli ricci scombinati, occhialetto da Harry Potter e, soprattutto, massimo esperto italiani di social network. È lui il simbolo fisico del potere mediatico della politica 3.0, di quella democrazia della Rete che è l'anima della rivoluzione portata da Grillo. La sua Casaleggio Associati, creata a Milano nel 2004, oggi cura tutte le pubblicazioni, in Rete e non, del comico genovese, oltre a parte dell’organizzazione dei suoi tour. E può contare su una fitta rete di contatti e relazioni istituzionali. 

fonte: Lettera 43, Mercoledì, 29 Giugno 2011

Ipotesi licenziamento dipendenti pubblici

La gallina nera

Mentre rivolgeva questi e simili pensieri nella sua mente, una notte, nel sonno, ebbe questa visione. Vide una gallina piccola e nera, simile ad una colomba domestica, con zampe e piedi rivestiti di piume. Aveva moltissimi pulcini, che per quanto si aggirassero attorno a lei, non riuscivano a raccogliersi tutti sotto le sue ali. Quando si svegliò, l’uomo di Dio, e riprese i suoi pensieri, spiegò personalmente la visione. «La gallina, commentò, sono io, piccolo di statura e di carnagione scura, e debbo unire alla innocenza della vita una semplicità di colomba: virtù, che quanto è più rara nel mondo, tanto più speditamente si alza al cielo. I pulcini sono i frati, cresciuti in numero e grazia, che la forza di Francesco non riesce a proteggere dal turbamento degli uomini e dagli attacchi delle lingue maligne».

«Andrò dunque, e li raccomanderò alla santa Chiesa Romana: in tale modo i malevoli saranno colpiti dalla verga della sua potenza e i figli di Dio, ovunque, godranno di piena libertà, a maggior beneficio della salvezza eterna. Da questo i figli riconosceranno le tenere premure della madre e ne seguiranno, con particolare devozione, le orme venerande. La sua protezione difenderà l’Ordine dagli attacchi dei maligni, e il figlio di Belial non passerà impunemente per la vigna del Signore. Persino lei, che è santa, emulerà la gloria della nostra povertà e non permetterà che il torbido della superbia possa offuscare i grandi pregi dell’umiltà. Conserverà illesi tra di noi i vincoli della carità e della pace, colpendo con rigore e severità chi è causa di discordia.

Alla sua presenza fiorirà sempre la santa osservanza della purezza evangelica e non consentirà che svanisca neppure per un istante il buon odore della vita».

Vita Seconda di Tommaso da Celano capitolo XVI

giovedì 24 maggio 2012

Il braccio di ferro

Il presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, ha lasciato l'incarico, che ricopriva dall'ottobre 2009. La decisione - da tempo nell'aria - è arrivata oggi nel corso del consiglio di sovrintendenza della banca vaticana. É l'epilogo di un duro braccio di ferro tra Gotti Tedeschi e ambienti vaticani sull'applicazione della legge sulla trasparenza finanziaria e sulla conduzione degli affari dell'ente, gestiti in prima battuta dal direttore generale Paolo Cipriani. Le funzioni per il momento passano al vice presidente.

La crisi al vertice della massima istituzione finanziaria d'Oltretevere è scoppiato all'inizio dell'anno, quando è stata varata una legge che ha messo in discussione la precedente riforma delle finanze vaticane. A fine 2010, infatti, era stata varata con un Motu Proprio di Benedetto XVI una completa revisione delle procedure relative alle transazioni finanziarie - anche a seguito dell'indagine della magistratura di Roma su alcuni trasferimenti, e che avevano portato al sequestro di 23 milioni (poi dissequestrati) e l'iscrizione nel registro degli indagati di Gotti Tedeschi e Cipriani.

La riforma ha istituito l'Aif, autorità di informazione finanziaria, alla cui testa è stato messo il cardinale Attilio Nicora - allora capo anche dell'Apsa, potente dicastero del patrimonio - dandogli poteri molto ampi di controllo. Ma lo scorso 25 gennaio - su impulso del segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, e del capo del governatorato, cardinale Giuseppe Bertello, molto vicino al "primo ministro" papale - è stata varata una legge interna che ha di fatto ridotto questi poteri, dando ampie deleghe di controllo alla Segreteria di Stato, al Governatorato e alla Gendarmeria.

Questa nuova normativa è stata contestata da Nicora e dallo stesso Gotti, e lo scontro è arrivato sui giornali (i "Vaticaleaks"). Ma anche Moneyval - il gruppo del Consiglio d'Europa che valuta le normative antiriciclaggio - ha messo in serio dubbio la rifoma, come emerso nella recente visita Oltretevere e negli incontri della settimana scorsa a Strasburgo con una delegazione della Santa Sede.

venerdì 18 maggio 2012

Chi nasce qui è di qui

Approvare una direttiva europea che inviti tutti gli Stati membri all’approvazione all’interno del proprio ordinamento di una legge nazionale che garantisca ai figli degli stranieri nati in Europa la cittadinanza del Paese in cui nascono.
É questo l’obiettivo dell’appello promosso dal presidente degli europarlamentari Pd, David Sassòli, e dal presidente dell’Anci e sindaco di Reggio Emilia, Graziano Del Rio. 
L’appello - che tra i suoi firmatari vede, fra gli altri, i nomi di Rita Levi Montalcini, Romano Prodi, Stefano Rodotà, Andrea Camilleri, Nicola Piovani, Carlo Verdone, Claudio Baglioni, Piero Fassino - intende portare la questione del riconoscimento della cittadinanza alle seconde generazioni di immigrati a livello europeo con lo scopo di armonizzare le varie legislazioni interne agli stati Ue e, al contempo, di sostenere le proposte di legge già avanzate a livello nazionale.
In Italia, dove il numero dei “non cittadini” nati nel nostro Paese sfiora oramai il milione e dove numerose sono state le prese di posizione, a cominciare da quella del Presidente Napolitano, a favore del riconoscimento dello status di cittadino a chi nasce sul suolo nazionale, è stata recentemente presentata un’iniziativa di legge popolare che chiede di riformare la normativa attualmente in vigore (legge 91/92) estendendo l’applicazione dello ius soli.
“Riconoscere la cittadinanza a ragazzi che sono nati e cresciuti in un paese diverso da quello di origine dei loro genitori  - spiegano Sassòli e Del Rio - ma che di questo paese parlano la lingua, che in questo paese studiano, consumano e si relazionano non è semplicemente un atto di buon senso ma una battaglia di civiltà imprescindibile per un paese che voglia definirsi democratico e in grado di affrontare le sfide del futuro. Per questo – annunciano – abbiamo bisogno del sostegno del maggior numero di persone possibile e chiediamo a chi crede che la cittadinanza sia un diritto di questi giovani a venire a manifestare con noi il 31 maggio alle ore 17 in Piazza San Silvestro a Roma. Sarà un happening festoso con musica e interventi dal palco al quale sono stati invitati a partecipare tutte le comunità straniere residenti in Italia, il mondo dell'associazionismo laico e cattolico, i rappresentanti sindacali e politici senza simboli né bandiere. Ci auguriamo – concludono - di poter contare su una piazza gremita e partecipe: ignorare il problema significa condannare tutte queste persone - il cui numero è destinato inevitabilmente ad aumentare - alla condizione di eterni stranieri".

Questo è il nostro chiostro!


Del convito di Madonna Povertà con li Frati.

Avendo apparecchiato da mangiare, la pregorono ch' ella dovesse insieme con loro pigliare refezione.
Et ella rispose : Mostratemi in prima il vostro oratorio e il capitolo e il chiostro, il refettorio e la cucina e il dormentorio e la stalla e le belle sedie: niuna di queste cose veggo, ma veggo voi tutti allegri e giocondi, e abbundanti d'allegrezza e pieni di consolazioni, così come tutte queste cose voi l'aspettiate a vostra voluntà. Et eglino rispondendo dissono: Madonna reina nostra, noi servi tuoi per lungo cammino siamo affaticati, e tu, venendo con esso noi, non ài auta poca fatica. Mangiamo e confortiamoci prima, se ti piace, e di poi così confortati al tuo comandamento si farà tutto. Rispose : Piacimi quello che voi dite. M'arregate l'acqua, che noi ci laviamo le mani, e la tovaglia, che noi ci asciughiamo. Et eglino subito portaron un mezzo vaso di terra, — perché non avevano niuno intero, che lo potessero empiere d'acqua, — e, data l'acqua alle mani, raguardavano di qua e di là per il panno d'asciugare, e, non essendovi niuno panno, uno le porse la tonica con la quale era vestito, acciò eh' ella s'asciugasse le mani con quella. Et ella rendendoli grazia, prese quella, magnificando con tutto il cuore Dio, che tanta grazia aveva data a quelli.
E da poi la menaron in quel luogo, dov' era apparecchiata la mensa. Essendo venuta in quel luogo, raguardando, non vide, si non tre o quattro pezzi di pane d'orzo. Meravigliossi molto, dicendo in fra se medesima: Chi vide mai in tutte le generazioni del seculo tal cose? Benedetto sia tu, signore Dio, il quale ài cura e guardia de' tuoi servi: et ài ammaestrato il tuo populo, che per tali operazioni siano nella grazia tua. E in questo modo sederono, rendendo grazie a Dio sopra tutti li suoi beni.
Disse Madonna Povertà, che fusseno arregate le vivande cotte nelle scodelle. Fu portata una scodella piena d'acqua fredda, acciò che tutti intignessino in quella il pane. Non era quivi molte scodelle, né molti cuochi o cucinieri.
Addomandò che almeno fusson portate alcune erbe odorifere, per mangiarle col pane. Ma non avendo orto, né ortolano, andorono nella selva, e colsono alcune erbe selvatiche e posongliele innanzi.
Et ella disse: Arregate un poco di salina, per insalare queste erbe, che sono amare. Risposono: Aspetta, Madonna, tanto che noi entriamo nella città, e arregheremone, si troveremo qualcheduno che ce ne dia.
E disse: Arregate un coltello, che io netti queste erbe, e che io possi tagliare il pane, però che è duro e secco. Risposeno: Madonna, non aviamo fabbro, che ci facci coltelli; per ora adoperate li denti in luogo di coltello, e poi provederemo.
E disse: Avete un poco di vino? Risposeno quelli: Madonna nostra, vino non aviamo, perocché il principio dell'uomo fu pane et acqua; et a te non è buono bere vino, però che la sposa di Cristo debba fuggire il vino come veleno.
E poi che ebbono mangiato e furon sazii, più furon allegri, che s' egli avessono auto abbundanzia di cibi solenni: e benedissono il Signore nel cospetto di quella nella quale avevano trovata tanta grazia.
E menoronla in luogo dove ella si potesse posare, però ch'ella era affaticata. E così sopra la nuda terra si riposò. E domandò che le fusse dato un guanciale per tenere sotto il capo. Et eglino subito portoron una pietra, e puosonla sotto il suo capo. Et ella con quiete e sobrio sonno s'addormentò.
E non molto stette, ch'ella si levò su, e domandò che le fusse mostrato il chiostro; e si la menaron in su un certo colle, donde si poteva vedere tutto il paese, e guardando dissono: Questo è il nostro chiostro, Madonna.

dal Sacro patto con Madonna Povertà (Anonimo, 1239 circa)

sabato 12 maggio 2012

SALVE SANCTE PATER



Salve, Sancte Pater, patriae lux, forma Minorum. Virtutis speculum, recti via, regula morum: Carnis ab exilio duc nos ad regna polorum.
Salve, Padre santo, luce della patria, modello per i Frati Minori. Specchio di virtù, via verso ciò che è retto, regola di vita. Dall'esilio della carne, conducici al regno dei cieli.




venerdì 11 maggio 2012


Pietro di Poitiers (1130-1205)

Sermone rivolto agli ecclesiastici:

Gridano i nudi, gridano i famelici, si lamentano e dicono:
"A noi che soffriamo la fame e il freddo, cosa giovano quelle vesti bene in vista sotto i portici o ben piegate nelle bisacce!
Quel che dissipate ci appartiene: anelli al dito, catenine e gioielli al collo, cinture ben adorne, sono tutte cose di colore sgargiante e di mole preziosa che portate appese.
Per i fianchi dei poveri, che sono fratelli vostri, neppure mezz'oncia e un filo di misericordia!
Eppure anche noi siamo fatti ad immagine e somiglianza di Dio, redenti dal suo sangue e perciò vostri fratelli. Come mai non sentite più l'amore fraterno?
Quella che voi dilapidate è ricchezza che appartiene a Dio; Cristo acquistò col supplizio della croce quello che voi spendete in lussi superflui".

Il lavoro, il denaro e l'elemosina


REGOLA NON BOLLATA


CAPITOLO VII
DEL MODO Dl SERVIRE E Dl LAVORARE

Tutti i frati, in qualunque luogo si trovino presso altri per servire o per lavorare, non facciano né gli amministratori né i cancellieri, né presiedano nelle case in cui prestano servizio; né accettino alcun ufficio che generi scandalo o che porti danno alla loro anima (Cfr. Mc 8,36; Lc 22,26); ma siano minori e sottomessi a tutti coloro che sono in quella stessa casa.
E i frati che sanno lavorare, Iavorino ed esercitino quel mestiere che già conoscono, se non sarà contrario alla salute dell'anima e può essere esercitato onestamente. Infatti dice il profeta: "Mangerai il frutto del tuo lavoro; beato sei e t'andrà bene" (Sal 127,2); e l'Apostolo: "Chi non vuol lavorare, non mangi" (Cfr. Ts 3,10); 6 e: "Ciascuno rimanga in quel mestiere e in quella professione cui fu chiamato" (Cfr. 1Cor 7,24). E per il lavoro prestato possano ricevere tutto il necessario, eccetto il denaro.

E quando sarà necessario, vadano per l'elemosina come gli altri poveri. E possano avere gli arnesi e gli strumenti adatti ai loro mestieri.

Tutti i frati cerchino di applicarsi alle opere buone; poiché sta scritto: Fa' sempre qualche cosa di buono affinché il diavolo ti trovi occupato, e ancora: L'ozio è il nemico dell'anima. Perciò i servi di Dio devono sempre dedicarsi alla preghiera o a qualche opera buona.
Si guardino i frati, ovunque saranno, negli eremi o in altri luoghi, di non appropriarsi di alcun luogo e di non contenderlo ad alcuno.

E chiunque verrà da essi, amico o nemico, ladro o brigante, sia ricevuto con bontà. E ovunque sono i frati e in qualunque luogo si incontreranno, debbano rivedersi volentieri e con gioia di spirito e onorarsi scambievolmente senza mormorazione (1Pt 4,9).
E si guardino i frati dal mostrarsi tristi alI'esterno e oscuri in faccia come gli ipocriti (Cfr. Mt 6,16), ma si mostrino lieti nel Signore (Cfr. Fil 4,4) e giocondi e garbatamente amabili.

CAPITOLO VIII
CHE I FRATI NON RICEVANO DENARO

Il Signore comanda nel Vangelo: "Attenzione, guardatevi da ogni malizia e avarizia" (Lc 12,15 e 21,34); e: "Guardatevi dalle preoccupazioni di questo mondo e dalle cure di questa vita". Perciò, nessun frate, ovunque sia e dovunque vada, in nessun modo prenda con sé o riceva da altri o permetta che sia ricevuta pecunia o denaro, né col pretesto di acquistare vesti o libri, né per compenso di alcun lavoro, insomma per nessuna ragione, se non per una manifesta necessità dei frati infermi; poiché non dobbiamo avere né attribuire alla pecunia e al denaro maggiore utilità che ai sassi.

E il diavolo vuole accecare quelli che li desiderano e li stimano più dei sassi. 5Badiamo, dunque, noi che abbiamo lasciato tutto (Cfr. Mt 19,27), di non perdere, per sì poca cosa, il regno dei cieli.
E se troveremo in qualche luogo del denaro, non curiamocene, come della polvere che si calpesta, poiché è vanità delle vanità e tutto è vanità (Qo 1,2).
.E se per caso, Dio non voglia, capitasse che un frate raccogliesse o avesse della pecunia o del denaro, eccettuato soltanto per la predetta necessità relativa agli infermi, tutti noi frati riteniamolo un falso frate e apostata e un ladro e un brigante, e un ricettatore di borse, a meno che non se ne penta sinceramente
E in nessun modo i frati accettino né permettano di accettare, né cerchino, né facciano cercare pecunia per elemosina, né soldi per qualche casa o luogo, né si accompagnino con persona che vada in cerca di pecunia o di denaro per tali luoghi. 9 Altri servizi invece, che non sono contrari alla nostra forma di vita, i frati li possono fare nei luoghi con la benedizione di Dio.
Tuttavia, i frati, per una evidente necessità dei lebbrosi, possono chiedere l'elemosina per essi.
Si guardino però molto dalla pecunia. Similmente, tutti i frati si guardino di non andare in giro per alcun turpe guadagno.

CAPITOLO IX
DEL CHIEDERE L'ELEMOSINA

Tutti i frati si impegnino a seguire l'umiltà e la povertà del Signore nostro Gesù Cristo, e si ricordino che nient'altro ci è consentito di avere, di tutto il mondo, come dice l'apostolo, se non il cibo e le vesti, e di questi ci dobbiamo accontentare (Cfr. 1Tm 6,8).
E devono essere lieti quando vivono tra persone di poco conto e disprezzate, tra poveri e deboli, tra infermi e lebbrosi e tra i mendicanti lungo la strada.
E quando sarà necessario, vadano per l'elemosina.
E non si vergognino, ma si ricordino piuttosto che il Signor nostro Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo (Gv 11,27), onnipotente, rese la sua faccia come pietra durissima (Is 50, 7), né si vergognò; e fu povero e ospite, e visse di elemosine lui e la beata Vergine e i suoi discepoli. E quando gli uomini facessero loro vergogna e non volessero dare loro l'elemosina, ne ringrazino Iddio, poiché per tali umiliazioni riceveranno grande onore presso il tribunale del Signore nostro Gesù Cristo.

E sappiano che l'umiliazione è imputata non a coloro che la ricevono ma a coloro che la fanno.

E l'elemosina è l'eredità e la giustizia dovuta ai poveri; I'ha acquistata per noi il Signor nostro Gesù Cristo. 9 E i frati che lavorano per acquistarla avranno grande ricompensa e la fanno guadagnare e acquistare a quelli che la donano; poiché tutte le cose che gli uomini lasceranno nel mondo, periranno, ma della carità e delle elemosine che hanno fatto riceveranno il premio dal Signore.
E con fiducia l'uno manifesti all'altro la propria necessità, perché l'altro gli trovi le cose necessarie e gliele dia. E ciascuno ami e nutra il suo fratello, come la madre ama e nutre il proprio figlio (Cfr. 1Ts 2,7), in tutte quelle cose in cui Dio gli darà grazia. 12 E colui che non mangia non giudichi colui che mangia (Rm 14,3).
E ogniqualvolta sopravvenga la necessità, sia consentito a tutti i frati, ovunque si trovino, di prendere tutti i cibi che gli uomini possono mangiare, così come il Signore dice di David, il quale mangiò i pani dell'offerta che non era permesso mangiare se non ai sacerdoti (Mc 2,27; cfr. Mt 12,4). E ricordino ciò che dice il Signore: "Badate a voi che non vi capiti che i vostri cuori siano aggravati dalla crapula e dall'ubriachezza e dalle preoccupazioni di questa vita e che quel giorno piombi su di voi all'improvviso, poiché cadrà come un laccio su tutti coloro che abitano sulla faccia della terra" (Lc 21,34 e 35). Similmente, ancora, in tempo di manifesta necessità tutti i frati provvedano per le cose loro necessarie cosi come il Signore darà loro la grazia, poiché la necessità non ha legge.



domenica 6 maggio 2012

Il disprezzo dei diritti

Con lo Stato che esige subito le tasse – anche quan­do ha torto: paga e poi si vedrà se hai ragione (solve et repete) – e onora i suoi debiti con anni di ritardo, e di fronte ai sempre più numerosi suicidi, il rifiuto del professor Monti della ragionevole (civile) proposta Alfano di poter scalare dalle tasse (dovute) i crediti (prete­si) rivela un totale disprezzo dei diritti dei cittadini.

Ci voleva­no dei non eletti per dimostrare che un governo che non deb­ba rispondere agli elettori è automaticamente dispotico. Altro che «democrazia sospesa»; qui siamo in pieno autoritarismo, mascherato da efficientismo, che sta distruggendo quel poco di democrazia liberale che c'era.

Confesso che, conoscendolo come persona intellettualmente onesta, ed essendogli amico, mi ero illuso che il cattolico-liberale Monti, se non proprio propenso a far prevalere l'umanesimo cristiano sulla disumana Ragion di Stato (che, peraltro, è teoria di un cattolico: Bote­ro) – fosse almeno incline a ricordarsi di essere liberale.

Inve­ce, per dirla con lord Acton, «se il potere corrompe, il potere assoluto (incontrollato) corrompe assolutissimamente». Ho l'impressione che questi professori si prendano un po' troppo sul serio nel ruolo di «salvatori della Patria» e tendano a com­portarsi con i cittadini come, probabilmente, si comportavano con i propri studenti.

La politica, in una democrazia liberale, non è «prendere o la­sciare», ma rispetto (costituzio­nale) dei diritti e delle libertà in­dividuali, nonché delle minoran­ze. Ma qui chi controlla? Non lo fanno i partiti in Parlamento, or­mai supini – per incultura, debo­lezza e provincialismo – «a quel­li che sanno». Non i media ­che dovrebbero legittimare l'Or­dinamento esistente, ma anche fornire al cittadino gli strumenti per capire e giudicare – e sono una sorta di neo-Minculpop: «il Duce ha sempre ragione»; anche se Monti non sempre ce l'ha. Con un'opinione pubblica frastornata cui è stato fatto credere di essere in guerra – contro lo spread – le si nasconde che questo governo non è «la soluzione», ma sta diventando «un problema», e inclina verso un «fascismo di popolo». Sono ri­masto il solo a dirlo e mi spiace ripeterlo: è, nelle parole di Piero Gobetti sul fascismo, «d'autobiografia di una nazione».

Altro caso. L'esenzione fiscale della prima casa non sarebbe una forma di «evasione fiscale» come sostiene il governo; ec­co un altro (suo) tratto antidemocratico, per non dire illibera­le. La prima casa – spesso frutto del risparmio di una vita sul quale si sono già pagate le tasse – è un «bene primario» per i meno abbienti; che non hanno l'alternativa fra la casa e andare a dormire sotto i ponti. Dovrebbe essere la soglia minima oltre la quale il Fisco non dovrebbe andare in uno Stato che voglia essere davvero sociale. Invece, la sua esenzione è sprezzantemente equiparata a un reato; mentre, in nome della giustizia sociale, si stanno massacrando di tasse (soprattutto) i ceti meno abbienti.

Ostellino, Corriere della Sera, 5 maggio 2012

Senza di me non potete fare nulla

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 15,1-8.

«Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo.
Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto.



Voi siete gia mondi, per la parola che vi ho annunziato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me.


Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla.

Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano.


Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato.
In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.

S. AGOSTINO

OMELIA 81


Non dice: senza di me potete far poco, ma dice: "non potete far nulla". Non poco o molto, ma nulla si può fare senza di lui.

1. Gesù ha detto che egli è la vite, i suoi discepoli i tralci e il Padre l'agricoltore: su questo ci siamo già intrattenuti, come abbiamo potuto. In questa lettura, continuando a parlare di sé come vite e dei suoi tralci, cioè dei discepoli, il Signore dice: Rimanete in me e io rimarrò in voi (Gv 15, 4). Essi però sono in lui non allo stesso modo in cui egli è in loro. L'una e l'altra presenza non giova a lui, ma a loro. Sì, perché i tralci sono nella vite in modo tale che, senza giovare alla vite, ricevono da essa la linfa che li fa vivere; a sua volta la vite si trova nei tralci per far scorrere in essi la linfa vitale e non per riceverne da essi. Così, questo rimanere di Cristo nei discepoli e dei discepoli in Cristo, giova non a Cristo, ma ai discepoli. Se un tralcio è reciso, può un altro pullulare dalla viva radice, mentre il tralcio reciso non può vivere separato dalla vite.
[Chi non è in Cristo, non è cristiano.]

2. Il Signore prosegue: Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non resta nella vite, così neppure voi se non rimanete in me (Gv 15, 4). Questo grande elogio della grazia, o miei fratelli, istruisce gli umili, chiude la bocca ai superbi. Replichino ora, se ne hanno il coraggio, coloro che ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non sono sottomessi alla giustizia di Dio (cf. Rm 10, 3). Replichino i presuntuosi e quanti ritengono di non aver bisogno di Dio per compiere le opere buone. Non si oppongono forse a questa verità, da uomini corrotti di mente come sono, riprovati circa la fede (cf. 2 Tim 3, 8), coloro che rispondendo a sproposito dicono: Lo dobbiamo a Dio se siamo uomini, ma lo dobbiamo a noi stessi se siamo giusti? Che dite, o illusi, voi che non siete gli assertori ma i demolitori del libero arbitrio, che, per una ridicola presunzione, dall'alto del vostro orgoglio lo precipitate nell'abisso più profondo? Voi andate dicendo che l'uomo può compiere la giustizia da se stesso: questa è la vetta del vostro orgoglio. Se non che la Verità vi smentisce, dicendo: Il tralcio non può portar frutto da se stesso, ma solo se resta nella vite. Vi arrampicate sui dirupi senza avere dove fissare il piede, e vi gonfiate con parole vuote. Queste sono ciance della vostra presunzione. Ma ascoltate ciò che vi attende e inorridite, se vi rimane un briciolo di senno. Chi si illude di poter da sé portare frutto, non è unito alla vite; e chi non è unito alla vite, non è in Cristo; e chi non è in Cristo, non è cristiano. Ecco l'abisso in cui siete precipitati.

3. Ma con attenzione ancora maggiore considerate ciò che aggiunge e afferma la Verità: Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla (Gv 15, 5). Affinché nessuno pensi che il tralcio può produrre almeno qualche piccolo frutto da se stesso, il Signore, dopo aver detto che chi rimane in lui produce molto frutto, non dice: perché senza di me potete far poco, ma: senza di me non potete far nulla. Sia il poco sia il molto, non si può farlo comunque senza di lui, poiché senza di lui non si può far nulla. Infatti, anche quando il tralcio produce poco frutto, l'agricoltore lo monda affinché produca di più; tuttavia, se non resterà unito alla vite e non trarrà alimento dalla radice, non potrà da se stesso produrre alcun frutto. Quantunque poi il Cristo non potrebbe essere la vite se non fosse uomo, tuttavia non potrebbe comunicare ai tralci questa fecondità se non fosse anche Dio. Siccome però senza la grazia è impossibile la vita, in potere del libero arbitrio non rimane che la morte. Chi non rimane in me è buttato via, come il tralcio, e si dissecca; poi i tralci secchi li raccolgono e li buttano nel fuoco, e bruciano (Gv 15, 6). I tralci della vite infatti tanto sono preziosi se restano uniti alla vite, altrettanto sono spregevoli se vengono recisi. Come il Signore fa rilevare per bocca del profeta Ezechiele, i tralci recisi dalla vite non possono essere né utili all'agricoltore, né usati dal falegname in alcuna opera (cf. Ez 15, 5). Il tralcio deve scegliere tra una cosa e l'altra: o la vite o il fuoco: se non rimane unito alla vite sarà gettato nel fuoco. Quindi, se non vuol essere gettato nel fuoco, deve rimanere unito alla vite.

4. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà fatto (Gv 15, 7). Rimanendo in Cristo, che altro possono volere i fedeli se non ciò che è conforme a Cristo? Che altro possono volere, rimanendo nel Salvatore, se non ciò che è orientato alla salvezza? Una cosa infatti vogliamo in quanto siamo in Cristo, e altra cosa vogliamo in quanto siamo ancora in questo mondo. Può accadere, invero, che il fatto di dimorare in questo mondo ci spinga a chiedere qualcosa che, senza che ce ne rendiamo conto, non giova alla nostra salvezza. Ma se rimaniamo in Cristo, non saremo esauditi, perché egli non ci concede, quando preghiamo, se non quanto giova alla nostra salvezza. Rimanendo dunque noi in lui e in noi rimanendo le sue parole, domandiamo quel che vogliamo e l'avremo. Se chiediamo e non otteniamo, vuol dire che quanto chiediamo non si concilia con la sua dimora in noi e non è conforme alle sue parole che dimorano in noi, ma ci viene suggerito dalle brame e dalla debolezza della carne, la quale non è certo in lui, e nella quale non dimorano le sue parole. Di sicuro fa parte delle sue parole l'orazione che egli ci ha insegnato e nella quale diciamo: Padre nostro, che sei nei cieli (Mt 6, 9). Non allontaniamoci, nelle nostre richieste, dalle parole e dai sentimenti di questa orazione, e qualunque cosa chiederemo egli ce la concederà. Le sue parole rimangono in noi, quando facciamo quanto ci ha ordinato e desideriamo quanto ci ha promesso; quando invece le sue parole rimangono nella memoria, ma senza riflesso nella vita, allora il tralcio non fa più parte della vite, perché non attinge vita dalla radice. In ordine a questa differenza vale la frase: Conservano nella memoria i suoi precetti, per osservarli (Sal 102, 18). Molti, infatti, li conservano nella memoria per disprezzarli, per deriderli e combatterli. Non si può dire che dimorano le parole di Cristo in costoro, che sono, sì, in contatto con esse, ma senza aderirvi. Esse, perciò, non recheranno loro alcun beneficio, ma renderanno invece testimonianza contro di loro. E poiché quelle parole sono in loro, ma essi non le custodiscono, le posseggono soltanto per esserne giudicati e condannati.

 

Senza di me non potete far nulla

Il maso chiuso

 

C'è nella parabola di Comunione e Liberazione, nella crisi d'immagine e di senso in cui è precipitata, qualcosa in cui si rispecchia un nodo storico cruciale dell'intero cattolicesimo italiano.
Germogliata dal tronco inesausto della fede cristiana, alimentata e cresciuta per la speranza che questa ancora e sempre continua a recare con sé, Cl si è trovata a un tratto a dover fare i conti con la politica. Checché se ne dica e se ne pensi da parte delle anime belle che immaginano il mondo secondo quanto è prescritto dai principi, il destino della politica, la sua vocazione, sono iscritte nel Dna stesso del cristianesimo. Non si combatte impunemente per due, tre secoli l'impero romano; non si decide di uscire dalla dimensione della setta e dell'etnicità per diventare un'istituzione universale; non si decide di stare nella storia e di cimentarsi con il secolo ad ogni istante, sotto ogni cielo e in ogni ambito, senza fare i conti con la politica. Senza essere obbligati a entrare nella sua dimensione.

La scommessa cristiana, in modo specialissimo quella cattolica, è stata però quella di entrarvi senza perdervisi. Fare politica sì, ma salvando l'anima. Una scommessa quanto mai rischiosa, come si capisce.
Alla quale, poi, qui da noi se n'è aggiunta un'altra, non meno impegnativa: divenire parte politica, e addirittura governare lo Stato, l'Italia appunto, alla cui nascita si era stati tuttavia avversi, e alla cui stessa vita e modi d'essere si era sempre guardato senza troppa simpatia. È così che nella formazione del cattolicesimo politico italiano più che in quello di altri Paesi si sono iscritti due tratti tipici: l'orgoglio di un'identità diversa, e un intimo desiderio di rivalsa. Due tratti tipici che la vicinanza della Santa Sede non poteva che rafforzare, e che erano destinati a divenire due tentazioni permanenti: la tentazione della separatezza e quella dell'egemonismo. Apparentemente contrastanti. In realtà l'una la faccia dell'altra: come ha mostrato a suo tempo, in modo paradigmatico la parabola, per esempio, di certa sinistra cattolica, ma non solo. E trattandosi tra l'altro di tentazioni inevitabili per qualunque movimento a sfondo religioso costretto a muoversi in una società ultra secolarizzata, sentita perciò come totalmente ostile.

Comunione e Liberazione ha comunque incarnato entrambe le tentazioni in modo esemplare: la separatezza e l'egemonismo. Animatrice di mille iniziative e proposte lodevoli ma sempre più autoreferenziale, essa ha finito per rappresentare una sorta di «maso chiuso» cattolico piantato nel bel mezzo della società italiana (oltre che forse della stessa Chiesa). Con la quale società italiana essa ha avuto rapporti, naturalmente: rapporti assai vari e anche intensi, ma sempre più percependosi e mirando ad essere una potenza autosufficiente, mossa da una continua volontà di espansione. Ha un bel dire oggi don Carrón, il suo capo spirituale, che a peccare - cioè a commettere i gravi reati a sfondo finanziario per cui alcuni noti esponenti ciellini sono attualmente indagati in Lombardia - sono stati sempre e solo i singoli. È vero, ovviamente. Ma è solo una parte della verità.
L'altra parte è che quei peccati in tanto sono stati resi possibili in quanto i loro sospetti autori appartenevano a Cl, e come tali erano universalmente noti; che come appartenenti a Cl essi erano inseriti nell'ampia rete di relazioni facenti capo ad essa; e che da venti anni, infine - fattore assolutamente decisivo per chiunque non voglia mentire a se stesso - Comunione e Liberazione è parte di fatto ma a pieno titolo della maggioranza di governo della Regione Lombardia, e come tale notoriamente padrona assoluta del settore della sanità. Nella sanità lombarda da vent'anni non si muove foglia che Cl non voglia.

Tutto questo (sempre che non riguardi il codice penale) si chiama per l'appunto egemonismo e bisogno spasmodico di far valere la propria identità. È, come l'ho chiamata, la sindrome del «maso chiuso», che ben lungi dal riguardare solo Cl riguarda però, più o meno, l'intero cattolicesimo politico italiano. Ed è tale sindrome che a mio avviso costituisce oggi il principale ostacolo a che il cattolicesimo politico stesso riacquisti nella Penisola un ruolo effettivo di primo piano. Il voto propriamente cattolico, infatti, riguarda attualmente non più di un dieci per cento circa dell'elettorato. Il che vuol dire che qualunque iniziativa di quel campo che voglia mirare in alto ha la vitale necessità di coinvolgere forze diverse. Deve superare ogni egemonismo, spogliarsi di ogni abito di autosufficienza culturale, bensì avviare un dialogo alla pari con identità differenti dalla propria, insieme alle quali cercare significativi punti di convergenza. Ha bisogno in sostanza di riconoscersi in una autentica prospettiva federativa offerta in modo non strumentale a forze politiche d'ispirazione non cattolica (che siano di destra o di sinistra non cambia la natura del problema). Ha bisogno, sia pure in condizioni oggi diversissime, del realismo e del coraggio di cui seppe dare prova De Gasperi nel 1947-48, allorché mise insieme una coalizione di forze diverse, e la mantenne pure dopo la vittoria del 18 aprile, a dispetto dei fremiti egemonici e delle rivendicazioni identitarie di molti dei suoi. L'alternativa è il ghetto di un'autosufficienza magniloquente, ma in realtà sempre più insignificante e sempre più esposta a ogni degenerazione.

Ernesto Galli della Loggia, Corriere della Sera, 5 maggio 2012

sabato 5 maggio 2012

Laurea albanese

La laurea comprata dal Trota, Renzo Bossi, indigna pure l'Albania (il titolo fu acquistato a Tirana, la capitale): il Paese si spacca per le polemiche. L'Alleanza Rosso Nera, il nuovo partito di ispirazione nazionalista nato sull'onda della polemica contro il censimento, ha infatti manifestato venerdì mattina davanti al Ministero dell'Istruzione chiedendo le dimissioni del ministro Mygerem Tafaj, accusato di aver contribuito al degrado del sistema universitario segnato da corruzione diffusa e di cui lo scandalo del diploma a Renzo Bossi è stato bollato come l'ultima "vergognosa vicenda".
Sul caso della falsa laurea del Trota è intervenuto anche il leader socialista Edi Rama, che giovedì era in Italia per un incontro con gli studenti universitari albanesi di Firenze. Secondo Rama, con la riforma del 2005, che ha liberalizzato il sistema universitario, si sono aperte molte università "alcune buone, altre fabbriche di diplomi a pagamento". E proprio di uno di questi "diplomifici" avrebbe usufruito il Trota.
Come sulla stampa italiana, su quella albanese e nei commenti dei lettori dei siti del Paese si è scatenata l'ironia sui leghisti e sul loro razzismo antialbanese, una delle prime bandiere sventolate dal Carroccio sin dagli esordi politici. Il Trota è stato bersagliato dai commenti di scherno di chi lo sfotteva perché avrebbe sostenuto esami in lingua albanese.
Nel frattempo l'Università Kristal (quella da cui ha ottenuto il diploma Renzo Bossi), con una nota ha confermato l'iscrizione del Trota e di Perangelo Moscagiuro (la bodyguard di Rosi Mauro) all'Ateneo. La Kristal ha poi cercato di respingere il sospetto che Renzo Bossi possa aver completato il corso di studi in poco più di un anno invece dei tre previsti dalla legge, spiegando che l'immatricolazione risale all'anno 2007-2009, aumentando ulteriormente i sospetti sul proprio operato visto che il figlio di Bossi si è diplomato solo nel 2009 e quindi in ogni caso non poteva contrariamente a quello che asserisce l'Università avere i documenti in regola.

fonte: Libero

mercoledì 2 maggio 2012

modalità attribuzione seggi del Consiglio Comunale

Nelle elezioni amministrative, l'assegnazione dei seggi, in caso di ricorso al ballottaggio per l'elezione del Sindaco, deve essere operata con riferimento ai risultati conseguiti in sede di ballottaggio. È questo il principio statuito con la sentenza in commento dal Consiglio di Stato secondo il quale non può, ai fini della ripartizione dei seggi, farsi esclusivo riferimento alle cifre elettorali conseguite dalle liste o loro gruppi nel primo turno elettorale, senza tenere alcun conto dei loro collegamenti ai fini del secondo turno, rilevando i voti di lista conseguiti nel primo turno al solo fine della distribuzione dei seggi all'interno delle coalizioni.

In particolare, per la sentenza in rassegna, in assenza di una specifica norma al riguardo, deve privilegiarsi la soluzione più vicina al principio cardine che ha ispirato la riforma del governo locale, che è rinvenibile nel comma X dell'art. 73 del TUEELL, che ha inteso assicurare, mediante la previsione del ballottaggio, al sindaco eletto almeno il 60 per cento dei seggi del consiglio comunale.

Nelle elezioni amministrative il turno di ballottaggio è stato quindi previsto non solo come modalità per l'elezione diretta del sindaco, quanto, piuttosto, come metodo per la composizione dei consigli, atteso che il gruppo di liste collegate al candidato vincente beneficia del premio di maggioranza, mentre il gruppo perdente beneficia di quella relativa compattezza che gli torna utile per esercitare il proprio ruolo di opposizione e di controllo sulla maggioranza.

In sintesi, poiché dei momenti di cui tenere conto nel calcolo dei voti per l'attribuzione dei seggi il comma IV del citato art. 73 ha considerato rilevante quello in cui viene concretamente individuato il Sindaco, è a tale momento che occorre avere riguardo per effettuare l'attribuzione dei seggi in consiglio comunale ad una lista o ad un collegamento di liste se il sindaco viene individuato solo a seguito di ballottaggio; è quindi in base ai risultati in tale sede ottenuti dalle liste che deve essere effettuata la ripartizione dei seggi.

(Consiglio di Stato – Sezione Quinta Giurisdizionale, Sentenza 28 febbraio 2011, n.1269)

Matteo Renzi e Dante

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