lunedì 16 dicembre 2013

Gaffe

Esilarante fuori onda per la telegiornalista jesina Laura Tangherlini, uno dei volti più conosciuti e apprezzati di Rai News 24.
La giornalista, 31enne, è incappata qualche giorno fa in un una gaffe subito rilanciato da Blob. Dopo aver annunciato garbatamente la pubblicità che seguiva le notizie: «Ci vediamo tra poco con gli aggiornamenti e le notizie. Restate con noi», convinta di essere fuori onda Laura Tangherlini ha aggiunto: «Restatece voi, perché io me ne vado, può esse. Me sò rotta er c....o!» in accento romano misto all'inflessione jesina ancora forte, nonostante da più di sei anni lei viva praticamente nella capitale.
La gaffe in realtà è stata fatta in regia. Il microfono della Tangherlini è rimasto aperto sembra, diversi secondi dopo il lancio della pubblicità, quando la conduttrice in studio pensava ormai di essere in pausa. Un commento forse dettato dalla stanchezza e dai ritmi che il giornalismo televisivo impone.
Poco importa, il danno oramai è fatto: la bella jesina, dopo che il video ha iniziato a girare in rete con migliaia di condivisioni si è beccata un bel provvedimento disciplinare dall'azienda. E' stata sospesa dalla conduzione del programma all news. Ieri abbiamo provato a raggiungerla telefonicamente, ma lei, affranta per lo spiacevole episodio, non ha voluto commentare: «Scusatemi ho già avuto parecchi guai, non posso dire nulla» ha detto.
Un commento certamente volgare che ora lei non avrebbe mai voluto pronunciare. Fatto sta che è risuonato nelle case di tanti italiani e ora in tanti computer e smartphone. Ma c'è da dire che la telegiornalista jesina più che reazioni di fastidio, ha strappato tantissime risate ai suoi ammiratori e non.
Su YouTube sono diversi e parecchio cliccati i video realizzati dai fan che evidenziano la sua bellezza. Per non parlare delle condivisioni su Facebook, di colleghi e non, che hanno contribuito a far diventare in un paio d'ore il breve filmato un caso virale. E ora il video incriminato è circondato da una pioggia di commenti, prevalentemente ironici. Laura Tangherini è anche molto apprezzata per il suo lavoro sulla questione siriana: è autrice del libro «Siria in fuga» (edizioni Poiesis) dove racconta i viaggi in Libano e Giordania, le storie dei profughi siriani.
E anche la pagina Facebook della giornalista in queste ore è presa d'assalto con un fluire di commenti e di link a quel video che difficilmente Laura, sempre impeccabile in video, dimenticherà. Chissà che questa esilarante gaffe non la porterà a essere incoronata a «telegiornalista dell'anno»: nel concorso realizzato tramite il social network Facebook la sexi giornalista jesina è in finale, in un testa a testa a colpi di click con la giornalista del tg1 Barbara Capponi.

domenica 15 dicembre 2013

Speranza e tenerezza



Il Natale per me è speranza e tenerezza..
Francesco racconta a «La Stampa» il suo primo Natale da vescovo di Roma. Casa Santa Marta, martedì 10 dicembre, ore 12.50. Il Papa ci accoglie in una sala accanto al refettorio. L'incontro durerà un'ora e mezzo. Per due volte, durante il colloquio, dal volto di Francesco sparisce la serenità che tutto il mondo ha imparato a conoscere, quando accenna alla sofferenza innocente dei bambini e alla tragedia della fame nel mondo.
Nell'intervista il Papa parla anche dei rapporti con le altre confessioni cristiane e dell'«ecumenismo del sangue» che le unisce nella persecuzione, accenna alle questioni su matrimonio e famiglia che saranno trattate dal prossimo Sinodo, risponde a chi lo ha criticato dagli Usa definendolo «un marxista» e parla del rapporto tra Chiesa e politica.
Che cosa significa per lei il Natale?
«È l'incontro con Gesù. Dio ha sempre cercato il suo popolo, lo ha condotto, lo ha custodito, ha promesso di essergli sempre vicino. Nel Libro del Deuteronomio leggiamo che Dio cammina con noi, ci conduce per mano come un papà fa con il figlio. Questo è bello. Il Natale è l'incontro di Dio con il suo popolo. Ed è anche una consolazione, un mistero di consolazione. Tante volte, dopo la messa di mezzanotte, ho passato qualche ora solo, in cappella, prima di celebrare la messa dell'aurora. Con questo sentimento di profonda consolazione e pace. Ricordo una volta qui a Roma, credo fosse il Natale del 1974, una notte di preghiera dopo la messa nella residenza del Centro Astalli. Per me il Natale è sempre stato questo: contemplare la visita di Dio al suo popolo».
Che cosa dice il Natale all'uomo di oggi?
«Ci parla della tenerezza e della speranza. Dio incontrandoci ci dice due cose. La prima è: abbiate speranza. Dio apre sempre le porte, mai le chiude. È il papà che ci apre le porte. Secondo: non abbiate paura della tenerezza. Quando i cristiani si dimenticano della speranza e della tenerezza, diventano una Chiesa fredda, che non sa dove andare e si imbriglia nelle ideologie, negli atteggiamenti mondani.
Mentre la semplicità di Dio ti dice: vai avanti, io sono un Padre che ti accarezza. Ho paura quando i cristiani perdono la speranza e la capacità di abbracciare e accarezzare. Forse per questo, guardando al futuro, parlo spesso dei bambini e degli anziani, cioè dei più indifesi. Nella mia vita di prete, andando in parrocchia, ho sempre cercato di trasmettere questa tenerezza soprattutto ai bambini e agli anziani. Mi fa bene, e mi fa pensare alla tenerezza che Dio ha per noi».
Come si può credere che Dio, considerato dalle religioni infinito e onnipotente, si faccia così piccolo?
«I Padri greci la chiamavano "synkatabasis", condiscendenza divina. Dio che scende e sta con noi. È uno dei misteri di Dio. A Betlemme, nel 2000, Giovanni Paolo II disse che Dio è diventato un bambino totalmente dipendente dalle cure di un papà e di una mamma. Per questo il Natale ci dà tanta gioia. Non ci sentiamo più soli, Dio è sceso per stare con noi. Gesù si è fatto uno di noi e per noi ha patito sulla croce la fine più brutta, quella di un criminale».
Il Natale viene spesso presentato come fiaba zuccherosa. Ma Dio nasce in un mondo dove c'è anche tanta sofferenza e miseria.
«Quello che leggiamo nei Vangeli è un annuncio di gioia. Gli evangelisti hanno descritto una gioia. Non si fanno considerazioni sul mondo ingiusto, su come faccia Dio a nascere in un mondo così. Tutto questo è il frutto di una nostra contemplazione: i poveri, il bambino che deve nascere nella precarietà. Il Natale non è stata la denuncia dell'ingiustizia sociale, della povertà, ma è stato un annuncio di gioia. Tutto il resto sono conseguenze che noi traiamo. Alcune giuste, altre meno giuste, altre ancora ideologizzate. Il Natale è gioia, gioia religiosa, gioia di Dio, interiore, di luce, di pace. Quando non si ha la capacità o si è in una situazione umana che non ti permette di comprendere questa gioia, si vive la festa con l'allegria mondana. Ma fra la gioia profonda e l'allegria mondana c'è differenza».
È il suo primo Natale, in un mondo dove non mancano conflitti e guerre...
«Dio mai dà un dono a chi non è capace di riceverlo. Se ci offre il dono del Natale è perché tutti abbiamo la capacità di comprenderlo e riceverlo. Tutti, dal più santo al più peccatore, dal più pulito al più corrotto. Anche il corrotto ha questa capacità: poverino, ce l'ha magari un po' arrugginita, ma ce l'ha. Il Natale in questo tempo di conflitti è una chiamata di Dio, che ci dà questo dono. Vogliamo riceverlo o preferiamo altri regali? Questo Natale in un mondo travagliato dalle guerre, a me fa pensare alla pazienza di Dio. La principale virtù di Dio esplicitata nella Bibbia è che Lui è amore. Lui ci aspetta, mai si stanca di aspettarci. Lui dà il dono e poi ci aspetta. Questo accade anche nella vita di ciascuno di noi. C'è chi lo ignora. Ma Dio è paziente e la pace, la serenità della notte di Natale è un riflesso della pazienza di Dio con noi».
In gennaio saranno cinquant'anni dallo storico viaggio di Paolo VI in Terra Santa. Lei ci andrà?
«Natale sempre ci fa pensare a Betlemme, e Betlemme è in un punto preciso, nella Terra Santa dove è vissuto Gesù. Nella notte di Natale penso soprattutto ai cristiani che vivono lì, a quelli che hanno difficoltà, ai tanti di loro che hanno dovuto lasciare quella terra per vari problemi. Ma Betlemme continua a essere Betlemme.
Dio è venuto in un punto determinato, in una terra determinata, è apparsa lì la tenerezza di Dio, la grazia di Dio. Non possiamo pensare al Natale senza pensare alla Terra Santa. Cinquant'anni fa Paolo VI ha avuto il coraggio di uscire per andare là, e così è cominciata l'epoca dei viaggi papali. Anch'io desidero andarci, per incontrare il mio fratello Bartolomeo, patriarca di Costantinopoli, e con lui commemorare questo cinquantenario rinnovando l'abbraccio tra Papa Montini e Atenagora avvenuto a Gerusalemme nel 1964. Ci stiamo preparando».
Lei ha incontrato più volte i bambini gravemente ammalati. Che cosa può dire davanti a questa sofferenza innocente?
«Un maestro di vita per me è stato Dostoevskij, e quella sua domanda, esplicita e implicita, ha sempre girato nel mio cuore: perché soffrono i bambini? Non c'è spiegazione. Mi viene questa immagine: a un certo punto della sua vita il bambino si "sveglia", non capisce molte cose, si sente minacciato, comincia a fare domande al papà o alla mamma. È l'età dei "perché". Ma quando il figlio domanda, poi non ascolta tutto ciò che hai da dire, ti incalza subito con nuovi "perché?".
Quello che cerca, più della spiegazione, è lo sguardo del papà che dà sicurezza. Davanti a un bambino sofferente, l'unica preghiera che a me viene è la preghiera del perché. Signore perché? Lui non mi spiega niente. Ma sento che mi guarda. E così posso dire: Tu sai il perché, io non lo so e Tu non me lo dici, ma mi guardi e io mi fido di Te, Signore, mi fido del tuo sguardo».
Parlando della sofferenza dei bambini non si può dimenticare la tragedia di chi soffre la fame.
«Con il cibo che avanziamo e buttiamo potremmo dar da mangiare a tantissimi. Se riuscissimo a non sprecare, a riciclare il cibo, la fame nel mondo diminuirebbe di molto. Mi ha impressionato leggere una statistica che parla di 10 mila bambini morti di fame ogni giorno nel mondo. Ci sono tanti bambini che piangono perché hanno fame. L'altro giorno all'udienza del mercoledì, dietro una transenna, c'era una giovane mamma col suo bambino di pochi mesi. Quando sono passato, il bambino piangeva tanto.
La madre lo accarezzava. Le ho detto: signora, credo che il piccolo abbia fame. Lei ha risposto: sì sarebbe l'ora... Ho replicato: ma gli dia da mangiare, per favore! Lei aveva pudore, non voleva allattarlo in pubblico, mentre passava il Papa. Ecco, vorrei dire lo stesso all'umanità: date da mangiare! Quella donna aveva il latte per il suo bambino, nel mondo abbiamo sufficiente cibo per sfamare tutti. Se lavoriamo con le organizzazioni umanitarie e riusciamo a essere tutti d'accordo nel non sprecare il cibo, facendolo arrivare a chi ne ha bisogno, daremo un grande contributo per risolvere la tragedia della fame nel mondo. Vorrei ripetere all'umanità ciò che ho detto a quella mamma: date da mangiare a chi ha fame! La speranza e la tenerezza del Natale del Signore ci scuotano dall'indifferenza».
Alcuni brani dell'«Evangelii Gaudium» le hanno attirato le accuse degli ultra-conservatori americani. Che effetto fa a un Papa sentirsi definire «marxista»?
«L'ideologia marxista è sbagliata. Ma nella mia vita ho conosciuto tanti marxisti buoni come persone, e per questo non mi sento offeso».
Le parole che hanno colpito di più sono quelle sull'economia che «uccide»...
«Nell'esortazione non c'è nulla che non si ritrovi nella Dottrina sociale della Chiesa. Non ho parlato da un punto di vista tecnico, ho cercato di presentare una fotografia di quanto accade. L'unica citazione specifica è stata per le teorie della "ricaduta favorevole", secondo le quali ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo.
C'era la promessa che quando il bicchiere fosse stato pieno, sarebbe trasbordato e i poveri ne avrebbero beneficiato. Accade invece che quando è colmo, il bicchiere magicamente s'ingrandisce, e così non esce mai niente per i poveri. Questo è stato l'unico riferimento a una teoria specifica. Ripeto, non ho parlato da tecnico, ma secondo la dottrina sociale della Chiesa. E questo non significa essere marxista».
Lei ha annunciato una «conversione del papato». Gli incontri con i patriarchi ortodossi le hanno suggerito qualche via concreta?
«Giovanni Paolo II aveva parlato in modo ancora più esplicito di una forma di esercizio del primato che si apra ad una situazione nuova. Ma non solo dal punto di vista dei rapporti ecumenici, anche nei rapporti con la Curia e con le Chiese locali. In questi primi nove mesi ho accolto la visita di tanti fratelli ortodossi, Bartolomeo, Hilarion, il teologo Zizioulas, il copto Tawadros: quest'ultimo è un mistico, entrava in cappella, si toglieva le scarpe e andava a pregare. Mi sono sentito loro fratello. Hanno la successione apostolica, li ho ricevuti come fratelli vescovi. È un dolore non poter ancora celebrare l'eucaristia insieme, ma l'amicizia c'è. Credo che la strada sia questa: amicizia, lavoro comune, e pregare per l'unità. Ci siamo benedetti l'un l'altro, un fratello benedice l'altro, un fratello si chiama Pietro e l'altro si chiama Andrea, Marco, Tommaso...».

LA RENAULT QUATTRO DI DON ZOCCA REGALATA AL PAPA BERGOGLIO 
LA RENAULT QUATTRO DI DON ZOCCA REGALATA AL PAPA BERGOGLIO 
 
L'unità dei cristiani è una priorità per lei?
«Sì, per me l'ecumenismo è prioritario. Oggi esiste l'ecumenismo del sangue. In alcuni paesi ammazzano i cristiani perché portano una croce o hanno una Bibbia, e prima di ammazzarli non gli domandano se sono anglicani, luterani, cattolici o ortodossi. Il sangue è mischiato. Per coloro che uccidono, siamo cristiani. Uniti nel sangue, anche se tra noi non riusciamo ancora a fare i passi necessari verso l'unità e forse non è ancora arrivato il tempo. L'unità è una grazia, che si deve chiedere.
Conoscevo ad Amburgo un parroco che seguiva la causa di beatificazione di un prete cattolico ghigliottinato dai nazisti perché insegnava il catechismo ai bambini. Dopo di lui, nella fila dei condannati, c'era un pastore luterano, ucciso per lo stesso motivo. Il loro sangue si è mescolato. Quel parroco mi raccontava di essere andato dal vescovo e di avergli detto: "Continuo a seguire la causa, ma di tutti e due, non solo del cattolico". Questo è l'ecumenismo del sangue. Esiste anche oggi, basta leggere i giornali. Quelli che ammazzano i cristiani non ti chiedono la carta d'identità per sapere in quale Chiesa tu sia stato battezzato. Dobbiamo prendere in considerazione questa realtà».
Nell'esortazione lei ha invitato a scelte pastorali prudenti e audaci per quanto riguarda i sacramenti. A che cosa si riferiva?
«Quando parlo di prudenza non penso a un atteggiamento paralizzante, ma a una virtù di chi governa. La prudenza è una virtù di governo. Anche l'audacia lo è. Si deve governare con audacia e con prudenza. Ho parlato del battesimo, e della comunione come cibo spirituale per andare avanti, da considerare un rimedio e non un premio. Alcuni hanno subito pensato ai sacramenti per i divorziati risposati, ma io non sono sceso in casi particolari: volevo solo indicare un principio. Dobbiamo cercare di facilitare la fede delle persone più che controllarla. L'anno scorso in Argentina avevo denunciato l'atteggiamento di alcuni preti che non battezzavano i figli delle ragazze madri. È una mentalità ammalata».
E quanto ai divorziati risposati?
«L'esclusione della comunione per i divorziati che vivono una seconda unione non è una sanzione. È bene ricordarlo. Ma non ho parlato di questo nell'esortazione».
Ne tratterà il prossimo Sinodo dei vescovi?
«La sinodalità nella Chiesa è importante: del matrimonio nel suo complesso parleremo nelle riunioni del concistoro in febbraio. Poi il tema sarà affrontato al Sinodo straordinario dell'ottobre 2014 e ancora durante il Sinodo ordinario dell'anno successivo. In queste sedi tante cose si approfondiranno e si chiariranno».
Come procede il lavoro dei suoi otto «consiglieri» per la riforma della Curia?
«Il lavoro è lungo. Chi voleva avanzare proposte o inviare idee lo ha fatto. Il cardinale Bertello ha raccolto i pareri di tutti i dicasteri vaticani. Abbiamo ricevuto suggerimenti dai vescovi di tutto il mondo. Nell'ultima riunione gli otto cardinali hanno detto che siamo arrivati al momento di avanzare proposte concrete, e nel prossimo incontro, in febbraio, mi consegneranno i loro primi suggerimenti. Io sono sempre presente agli incontri, eccetto la mattina del mercoledì per via dell'udienza. Ma non parlo, ascolto soltanto, e questo mi fa bene. Un cardinale anziano alcuni mesi fa mi ha detto: "La riforma della Curia lei l'ha già cominciata con la messa quotidiana a Santa Marta". Questo mi ha fatto pensare: la riforma inizia sempre con iniziative spirituali e pastorali prima che con cambiamenti strutturali».
Qual è il giusto rapporto fra la Chiesa e la politica?
«Il rapporto deve essere allo stesso tempo parallelo e convergente. Parallelo, perché ognuno ha la sua strada e i suoi diversi compiti. Convergente, soltanto nell'aiutare il popolo. Quando i rapporti convergono prima, senza il popolo, o infischiandosene del popolo, inizia quel connubio con il potere politico che finisce per imputridire la Chiesa: gli affari, i compromessi... Bisogna procedere paralleli, ognuno con il proprio metodo, i propri compiti, la propria vocazione. Convergenti solo nel bene comune. La politica è nobile, è una delle forme più alte di carità, come diceva Paolo VI. La sporchiamo quando la usiamo per gli affari. Anche la relazione fra Chiesa e potere politico può essere corrotta, se non converge soltanto nel bene comune».
Posso chiederle se avremo donne cardinale?
«È una battuta uscita non so da dove. Le donne nella Chiesa devono essere valorizzate, non "clericalizzate". Chi pensa alle donne cardinale soffre un po' di clericalismo».
Come procede il lavoro di pulizia allo Ior?
«Le commissioni referenti stanno lavorando bene. Moneyval ci ha dato un report buono, siamo sulla strada giusta. Sul futuro dello Ior si vedrà. Per esempio, la "banca centrale" del Vaticano sarebbe l'Apsa. Lo Ior è stato istituito per aiutare le opere di religione, missioni, le Chiese povere. Poi è diventato come è adesso».
Un anno fa poteva immaginare che il Natale 2013 lo avrebbe celebrato in San Pietro?
«Assolutamente no».
Si aspettava di essere eletto?
«Non me l'aspettavo. Non ho perso la pace mentre crescevano i voti. Sono rimasto tranquillo. E quella pace c'è ancora adesso, la considero un dono del Signore. Finito l'ultimo scrutinio, mi hanno portato al centro della Sistina e mi è stato chiesto se accettavo. Ho risposto di sì, ho detto che mi sarei chiamato Francesco. Soltanto allora mi sono allontanato. Mi hanno portato nella stanza adiacente per cambiarmi l'abito. Poi, poco prima di affacciarmi, mi sono inginocchiato a pregare per qualche minuto insieme ai cardinali Vallini e Hummes nella cappella Paolina».


Lo zucchetto del Papa


martedì 3 dicembre 2013

La riabilitazione

Merita tornare su una notizia che non ha avuto l’eco che meritava: tra venerdì e sabato scorsi Romano Prodi è stato insignito di una laurea honoris causa da una università africana, ma la cerimonia di consegna di essa e la “lectio magistralis” si sono svolte presso la Pontificia accademia delle scienze sociali; poi ha fatto visita alla Università Gregoriana, la più prestigiosa e cosmopolita università pontificia retta dai gesuiti; e infine Prodi ha tenuto una conferenza dal titolo “la svolta di papa Francesco” presso l’autorevole rivista Civiltà cattolica. Difficile non interpretare tali riconoscimenti al Professore bolognese come una sorta di riabilitazione del “cristiano adulto” oggetto di diffidenza e opposizioni ai vertici della Chiesa italiana negli anni del suo protagonismo politico.
Basti rammentare tre circostanze: 1) qualche tempo dopo la caduta del suo secondo governo, conversando con la rivista francese Esprit, Prodi confidò che proprio dalle gerarchie italiane egli aveva avuto la più strenua opposizione “politica”; 2) la grande adunata di massa denominata “family day” convocata dalla Cei al palese fine di contrastare una minimalista proposta di legge in cantiere tesa disciplinare le unioni civili (i cosiddetti “dico”); 3) l’annuncio in tv, da parte del Professore, che egli, in quanto “cattolico adulto”, avrebbe partecipato al voto nei referendum sulla legge relativa alla fecondazione assistita, nonostante la irrituale e martellante campagna astensionistica condotta dalla Cei.
Nella convinzione che spettasse ai laici, non alla gerarchia, stabilire se votare o non votare, trattandosi non di principi etici in sé ma di mezzi politici e democratici nella disponibilità dei cittadini. Una espressione, quella di “cattolico adulto”, che incredibilmente non gli fu perdonata. Quasi che essa avesse un significato presuntuoso e polemico.
Circostanza sorprendente e paradossale – davvero un segno allarmante dei tempi grami di quella stagione di vita della Chiesa italiana – se si considera che essa (“fede adulta”, “cristiano adulto”), nel dopo Concilio, era semmai additata dagli stessi pastori quale meta e traguardo della formazione cristiana comune, dentro una società che si considerava adulta e che, in effetti, lo era dal punto di vista della disponibilità dei mezzi che dilatano le opportunità di scelta e dunque le responsabilità in capo all’uomo contemporaneo.
Per inciso: è davvero singolare che proprio quegli ambienti cattolici di base e di vertice adusi alla lagna per la supposta irrilevanza politica dei cattolici siano stati i più attivi nel fare la guerra a un buon cristiano (logorandolo e concorrendo alla crisi dei suoi governi) che era asceso alla premiership grazie a un progetto e a un movimento politico, denominato Ulivo, nel quale cattolici singoli e associati erano stati attori-protagonisti dopo un tempo di decadenza e discredito per il cattolicesimo politico.
Al di là dei singoli episodi, sono abbastanza note le ragioni per le quali Prodi ha conosciuto tali opposizioni di stampo ecclesiastico. Non gli si perdonava di essere stato autore di una impresa politica – quale federatore e leader del centrosinistra nel quadro dell’incipiente bipolarismo – che sanzionava la fine di lunga tradizione dominata dall’unità politica dei cattolici.
Una impresa che, in una ottica storica e teologica, rappresentava invece un doppio, prezioso traguardo, per la democrazia italiana e per la stessa Chiesa: verso una democrazia finalmente competitiva e dell’alternanza dopo mezzo secolo di democrazia bloccata; verso una Chiesa che, alleggerita dal collateralismo con una parte politica, vedesse così esaltata la libertà e l’universalità della missione sua propria, quella della evangelizzazione di persone e comunità.
Curiosa altresì la circostanza che chi – fuor di ipocrisia, mi riferisco al cardinale Ruini – più osteggiò Prodi per il suo contributo teso al superamento dell’unità politica dei cattolici si rivelò poi lestissimo e molto disinvolto nel gestire politicamente la stagione del pluralismo e del bipolarismo.
Da un lato con una verticalizzazione ecclesiastica delle relazioni con partiti, parlamento e governo a scavalco dei laici cristiani politicamente impegnati, dall’altro con un malcelato ma evidente sostegno allo schieramento di centrodestra capeggiato da Berlusconi.
Esorcizzando l’ethos e il sistema di valori che il Cavaliere incarnava e veicolava con il suo stile di vita e con i suoi media. Una predilezione verso il cristiano comune Berlusconi a discapito del cristiano adulto Prodi che suscitava scandalo presso alcuni, ma che invece Arturo Parisi indagò attingendo alla sua competenza di fine sociologo della religione.
In sintesi: in Berlusconi, con le sue contraddizioni persino conclamate rispetto alla morale cattolica, più facilmente il cattolico medio (medio in senso statistico) poteva identificarsi e autoassolversi, premiandolo anche elettoralmente. Non così nel cattolico Prodi.
Lo si può comprendere, dal punto di vista del cristiano della domenica, decisamente indulgente con se stesso. Più sorprendente e persino sconcertante da parte di chi semmai avrebbe il compito di forgiare coscienze cristiane coerenti e mature e dovrebbe avere altresì antenne sensibili ai vettori della scristianizzazione di massa e della corrosione del costume di cui il berlusconismo è stato l’apoteosi. Non per amore di polemica, ma per fare tesoro dei propri errori sarebbe lecito attendersi un franco e onesto bilancio critico di quel lungo ventennio anche da parte dell’episcopato italiano.
La riabilitazione del cristiano Prodi è una bella soddisfazione per lui. Chi lo conosce sa che quell’avversione fu per lui, che si sente figlio della Chiesa, motivo di personale sofferenza.
Ma è una notizia buona un po’ per tutti. Ci autorizza a sperare che stia cambiando l’aria nella Chiesa di Papa Francesco. Che finalmente si stia tornando allo spirito e alla lezione del Concilio. Sia nel ripristino della cura per la distinzione tra Chiesa e comunità politica, con la relativizzazione delle appartenenze e il conseguente, legittimo pluralismo. Sia nel rispetto e persino nell’apprezzamento per l’autonomia laicale e politica dei cristiani impegnati. Sembravano valori acquisiti, ma evidentemente così non era.
Oggi possiamo rileggere brani conciliari come questo senza che alle nostre orecchie suonino come parole di un’era storica confinata nel passato: «Dai sacerdoti i laici cristiani si aspettino luce e forza spirituale, non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che a ogni nuovo problema che sorge essi possano avere pronta una soluzione concreta o che a questo li chiami la loro missione: assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero». Un monito che vale per entrambi: laici e pastori.

Franco Monaco, Europa, 3 dicembre 2013

giovedì 28 novembre 2013

Un Dc si prende il PCI


Disarcionato

Senza parole. Alle 17.43 le lancette della storia si fermano per sempre. Suona a morto la campana della democrazia. È il minuto di silenzio della libertà. Il lasciapassare definitivo alla cavalcata giudiziaria di un organo dello Stato che s’è fatto partito e che presto colpirà - perché tanto colpirà (e noi garantisti saremo lì a difendervi, ma quanto ci farà godere quel momento) - chi oggi brinda alla fine di Berlusconi. Senza parole per lo spettacolo offerto all’estero da un Paese allo sfascio. Senza parole per i vili e gli sciacalli, per chi non ha palle e dignità. Senza parole per Renzo Piano, senatore a vita sempre assente ma ricomparso per ghigliottinare il Cav. Senza parole per chi straparla di legge uguale per tutti quando per uno, è dimostrato, non esserlo stata. Senza parole. Le uniche sensate le riproduciamo da un sms di un amico, vecchio comunista, disgustato dai 195 schierati nel piazzale Loreto del Senato: «È così triste e deprimente, dopo 40 anni di militanza politica, dover prendere atto della deriva giustizialista della sinistra italiana». Senza parole pure lui. Senza più speranza tutti noi.

Gian Marco Chiocci per il Tempo

mercoledì 27 novembre 2013

Le porte riaperte


La Chiesa riapre le porte a Romano Prodi, accogliendo il Professore con quattro, prestigiosi appuntamenti, programmati uno dopo l'altro. Per Prodi sta così per concludersi una emarginazione durata 17 anni e «ordinata» a suo tempo dalla Cei di Camillo Ruini nei confronti di un «cattolico adulto» che ha sempre rivendicato l'autonomia delle proprie scelte politiche.
Le porte si riaprono venerdì: il Professore riceverà una laurea honoris causa in Vaticano, all'interno della Pontificia Accademia delle Scienze, l'empireo della cultura cattolica, dove terrà anche una lectio magistralis; in serata Prodi è atteso alla Università Gregoriana, la «fabbrica» dei Papi che è anche l'ateneo dei Gesuiti, l'ordine di papa Francesco per una conferenza; l'indomani, presso Civiltà Cattolica, sempre sotto l'egida gesuita, l'ex premier discuterà assieme ad Alberto Melloni su un tema eloquente, «La svolta di Papa Francesco».
Un trittico che, per Prodi, si completerà il 5 dicembre, sempre dentro la Città del Vaticano con un workshop aperto dal cardinale Turkson, ministro vaticano del Welfare e grande elettore di Francesco. Una sorta di «riabilitazione» che potrebbe essere stata preannunciata da un'espressione usata a fine luglio da papa Francesco che, parlando ai vescovi sudamericani, sconsigliò loro di far politica, incoraggiandoli ad accompagnare i cristiani che, «da adulti», devono assumere le loro scelte.
Naturalmente quella del Papa non era una citazione della frase di Prodi, ma il sofisticato lessico pontificio è sembrato emancipare dalla eterodossia quella espressione usata anni prima dal Professore. I quattro eventi programmati nei prossimi giorni idealmente segnano una «redenzione» per un personaggio che in questi anni ha vissuto con amarezza la progressiva marginalizzazione.
Anche se, a dispetto dell'interdetto, Prodi ha continuato ad avere una intensa vita nel mondo cattolico di base italiano (da anni è invitato da parroci, vescovi e associazioni), ma anche all'estero, come testimoniano gli inviti alla Settimana sociale dei cattolici tedeschi o le interviste a quotidiani cattolici come la Croix.
A dispetto di questa partecipazione mai interrotta, Prodi non ha mai digerito l'atteggiamento imposto dal vertice della Cei soprattutto perché ha vissuto quell'allontanamento come una drastica cesura rispetto alla propria storia personale.
Dopo aver frequentato in giovinezza Giuseppe Dossetti e Camillo Ruini ( futuro capo dei vescovi italiani, che nel 1969 celebrò le nozze del giovane Romano con Flavia Franzoni), fin dagli anni Settanta Prodi si è proposto come figura originale rispetto alla tradizionale élite cattolica: non ha mai fatto parte di alcuna associazione e la sua identità è sempre stata determinata dal suo stile di vita, dal suo modo di parlare, di vestirsi, dalla sua grande famiglia, dal rapporto paritario con la moglie Flavia.
Eppure, in occasione delle elezioni del 1996 Prodi subì l'improvvisa freddezza del suo (ex) confessore Camillo Ruini, che vide nel Professore l'artefice della fine dell'unità politica dei cattolici. Anche se la vera svolta si ebbe col ritorno di Prodi da Bruxelles, nel 2005. In quella occasione la Chiesa italiana gli preferì una personalità dalla vita privata e famigliare eterodosse come Berlusconi, imponendo il veto sul Professore ai giornali «ufficiali» di area cattolica: da quando è entrato in politica - Prodi non è mai stato intervistato da «Avvenire».
Il Professore reagì, andando a votare nel referendum sulla procreazione assistita e disubbidendo così alla Cei che aveva fatto campagna per l'astensione. Il solco si è via via approfondito e venerdì 29 inizierà a ricolmarsi per effetto del primo appuntamento in Vaticano: la lectio magistralis sullo «sviluppo sostenibile» in Africa e la successiva laurea honoris causa.
fonte: Fabio Martini per "La Stampa"

lunedì 25 novembre 2013

Trise, Tari, Tasi, Tuc, Iuc...

A questo punto pagare la tassa sulla casa sarà il meno. Basta capire quale tassa bisognerà pagare, chi la dovrà pagare, in che modo, in quali tempi. Capita che in tempi di legge di stabilità di acronimo si possa anche morire.
E  se è vero che non c’è niente di più mobile della tassa sugli immobili, si capirà come nel giro di un anno siamo passati dall’Ici all’Imu, dalla Trise con Tari e Tasi al Tuc (abortito prima ancora di nascere) per arrivare infine a partorire la Iuc, imposta unica comunale, che ha mandato in pensione la Trise messa a punto meno di un mese fa dal governo con le gemelle Tari e Tasi e che ha messo una parola definitiva sulle velleità, peraltro molto ridotte nell’ultima settimana, del Tuc.
Anche la Iuc sarà una e trina infatti si dividerà in una componente relativa alla raccolta dei rifiuti e in una seconda sui servizi indivisibili. È questo il compromesso raggiunto in commissione Bilancio del senato e presentato sotto forma di emendamento dei relatori alla legge di stabilità.
Al di là del cambio dell’acronimo che si aggiunge alla folta selva di altre sigle che popolano gli incubi degli italiani ma anche di sindaci ed esattori, occorre capire cosa in realtà cambia e se le risorse che non si erano trovate per la Tari e la Tasi ora sono invece saltate fuori. A quanto si legge dal testo della proposta dei relatori dalla Iuc, che sostituirà l’Imu dal 2014, saranno esentate le prime case ad esclusione di quelle di lusso. L’importo stanziato nel fondo attribuito ai comuni per introdurre detrazioni sulla nuova imposta sulla casa «darà la possibilità di avere un effetto analogo a quello del 2012, quando la detrazione base era a 200 euro e si aggiungevano 50 euro a figlio» hanno spiegato i relatori illustrando la loro proposta.
Insomma, tutto cambi perché nulla cambi.

fonte:Europa

domenica 24 novembre 2013

Abbiamo un cuore solidale e la mente liberale

Un piccolo teatro, ma strapieno. Di gente appassionata. Un teatro tricolore, l'inno nazionale all'inizio, il pensiero alla Sardegna disastrata dal ciclone, che diventa metafora dell'Italia. È proprio un partecipante sardo che, dopo il racconto del dolore e della devastazione della sua terra, lancia la parola d'ordine: «L'importante è ricominciare», l'importante è ripartire.
L'immagine è quella della nave che salpa, sperando di navigare in acque rese abbondanti dallo scongelamento dell'iceberg dell'astensionismo, dall'arrivo dei delusi degli schieramenti principali. Al Teatro Quirino va in scena l'Assemblea popolare per l'Italia, con i centristi di Pier Ferdinando Casini e i popolari di Mario Mauro, e «un progetto inclusivo e non contro qualcuno, un progetto corale» ci tengono a sottolineare personalità come Mario Marazziti (che viene da Scelta civica) o Lorenzo Dellai che (alla Camera) insieme a Lucio Romano (al Senato), saranno i capigruppo della nuova formazione.
Tocca proprio a loro due leggere il Manifesto fondativo, l'appello per «un nuovo cantiere e una democrazia comunitaria». È frutto di un lavoro collettivo. Parte un po' banale: «Abbiamo lanciato il cuore oltre l'ostacolo». Ma il secondo slogan è efficace: «Abbiamo un cuore solidale e la mente liberale: in una parola, siamo popolari».
Una grande assemblea politica, quasi duemila persone (con qualche patema d'animo per la sicurezza da parte del proprietario del Teatro), convocate in pochi giorni, col maltempo, più di trenta parlamentari, ministri, persone famose della politica italiana e nessun politico sul palco, in posti d'onore, tutti ad ascoltare.
Ad ascoltare la gente. La politica rovesciata.
E infatti i big si limitano alle interviste all'ingresso o a margine dell'evento, perché il proscenio è tutto per le persone normali, gente che vuole vivere l'esperienza di provare a cambiare l'Italia: ci sono studenti, medici, avvocati, imprenditori, ricercatori, volontari, amministratori locali. Prima di entrare, un'urna con le schede e le matite per scrivere il nome del partito che nascerà.
Di questo sono sicuri tutti: Casini, Lorenzo Cesa, Gregorio Gitti certificano che presto, già la prossima settimana, nasceranno i gruppi parlamentari comuni. Un passaggio che non filerà del tutto liscio, perché c'è da perfezionare la separazione non proprio consensuale con Scelta civica. «I problemi sono più a livello di Sc come partito che a livello parlamentare», dice un senatore, spiegando che la questione dei rimborsi elettorali pesa come un macigno.
A livello parlamentare, la situazione è che al Senato i montiani hanno già chiesto a Pietro Grasso una deroga per poter formare un gruppo con gli otto senatori rimasti mentre i 12 popolari, che attualmente esprimono il capogruppo Romano, probabilmente assumeranno una nuova denominazione. Alla Camera, le due anime hanno i numeri per formare ciascuna un gruppo a sé stante di almeno 20 deputati.
Sono incognite che si risolveranno nei prossimi giorni, mentre a livello europeo c'è l'adesione al progetto da parte di Giuseppe Gargani, Carlo Casini, Gino Trematerra, Potito Salatto, e, fra gli altri, Ciriaco De Mita.
«È finita la stagione degli uomini della Provvidenza - dice Pier Ferdinando Casini - e vogliamo creare una forza europeista, sì, ma che contrasti la politica europea fondata su questo rigore che porta a fondo tutti no». Mauro mette in evidenza che il centrodestra berlusconiano non esiste più e che con il Ncd (il Nuovo centrodestra) di Alfano, pur essendoci differenze, «gli elettori sono gli stessi» mentre «al governo c'è collaborazione».
Ecco, Alfano è il competitor. Il bacino elettorale, infatti, è lo stesso. «Ma da loro», dice Mauro(che pure lui è ministro del governo Letta), alludendo alla manifestazione del Ncd, «c'era una sfilza di ministri: più il potere che il popolo. Ma è solo il popolo che può far ripartire, perché ha fiducia e coraggio».

fonte: Corriere della Sera 

Il percorso politico nato dall’iniziativa “Verso la Terza Repubblica”, alla fine del 2012, e concretizzatosi con la costituzione di Scelta Civica, ha rappresentato una novità significativa e un passo avanti nella storia politica italiana. Persone e culture politiche differenti si sono ritrovate nell’obiettivo comune di ricostruzione sociale, economica e istituzionale del Paese.
La drammaticità di una crisi finanziaria ed economica senza precedenti ha reso inaccettabili le responsabilità di una classe politica autoreferenziale e inefficiente, che nei due decenni passati non ha saputo far crescere e modernizzare l’Italia. Il risultato è quello di un Paese impoverito, più diviso, meno solidale e fiducioso nel futuro, che non riesce a stare al passo con le altre democrazie europee. L’elenco di cosa non funziona è noto, come nota è la reazione dei cittadini: astensione elettorale e preoccupanti manifestazioni di antipolitica.
Il processo di rinnovamento del Paese, in grado di realizzare le riforme necessarie, ma anche di aggregare intorno ad esse il consenso popolare, richiede tempo, fatica, coraggio e pazienza. Ogni scorciatoia, lo abbiamo purtroppo visto in questi mesi, è destinata ad allontanarci dalla meta.
In questa prospettiva, le dimissioni del presidente Monti dalla guida di Scelta Civica – cui tutti riconosciamo coraggio e dedizione al Paese – e l’accelerazione del confronto interno, non sono che gli evidenti segni dell’esigenza di far crescere un progetto politico in modo democratico, oltre gli schemi cooptativi ereditati dal tempo della competizione elettorale.
Siamo un soggetto politico in formazione, con la precisa volontà di concorrere, con molti altri che ancora non hanno avuto il coraggio di scegliere il cambiamento, a costruire una forza maggioritaria nel Paese e nel Parlamento. Per questo è nostro compito proporre un progetto politico stabile e maturo, a larga partecipazione popolare, non elitario, per non tradire le aspettative e le speranze che abbiamo suscitato.
Il primo passo deve essere la chiarezza nel definire la nostra identità, i valori di appartenenza e la nostra proposta politica. Non siamo né un cartello elettorale né un partito personale, ma un soggetto che va costruito in stretta saldatura tra i parlamentari, i simpatizzanti e la gente del nostro Paese che guarda alla politica con preoccupazione e interesse. Ogni incertezza, ogni elitarismo prigioniero di sole logiche parlamentari, come abbiamo visto nei mesi passati, ci condanna all’irrilevanza.
Non è più il tempo delle ideologie, ma delle idee. Per questo la cultura politica non è un orpello da lasciare al Ventesimo secolo. Proprio in un periodo in cui mancano idee sul futuro, la politica non può rinunciare ad avere una visione generale. Cresce tra i cittadini una domanda di “senso” e di orientamento. Al gonfiarsi dell’individualismo va contrapposta una concezione autenticamente comunitaria della democrazia.
La politica non è tecnicismo, non è mera amministrazione, ma scelta delle priorità alla luce della visione del bene comune degli italiani. Cambiare la politica non significa negarne il valore, ma al contrario “ridarle un’anima”, un ancoraggio umano e culturale.
In questa logica proponiamo di costruire un’area politica autenticamente e innovativamente popolare, che riprenda – con nuovi linguaggi, nuove sensibilità e nuova classe dirigente-  allo stesso tempo la storia del popolarismo e del pensiero liberale .
Intendiamo con questo l’impegno a radicarci nelle realtà locali, la scelta di far crescere la politica nella partecipazione democratica, in un rapporto tra eletti e aderenti fatto di mutuo scambio. L’Italia, per evitare gli effimeri populismi (che nascono anche come risposta alla chiusura nel palazzo), ha bisogno di una politica popolare.
Nulla a che vedere con inaccettabili strumentalizzazioni delle convinzioni religiose né con operazioni nostalgiche.
Noi vogliamo guardare avanti:
al riconoscimento dei diritti umani per tutti e per ciascuno
all’uguaglianza e all’equità per ridistribuire ricchezza e dare opportunità a tutti;
alla valorizzazione della famiglia riconosciuta dalla Costituzione;
alla tutela della vita in tutte le sue stagioni;
al diritto al lavoro per permettere a tutti di vivere con dignità;
al sostegno all’attività imprenditoriale responsabile e innovativa;
all’ammodernamento istituzionale e allo snellimento della macchina pubblica;
alla costruzione di una società accogliente e plurale.

Solo in questo modo, lo spirito riformatore riesce a non sfociare in indifferenza verso la giustizia e la coesione sociale. Solo così si rinnegano le spinte populiste che si fanno strada oggi in Europa.
Il “chi siamo” passa anche da una nuova forma di partito: né liquido né pesante, non verticistico, bensì una struttura federale, solidale e plurale di aderenti, associazioni e movimenti territoriali. Non una macchina elettorale a servizio di un leader ma uno strumento democratico, aperto e trasparente, di partecipazione per i cittadini, nonché di formazione di una classe dirigente onesta, capace e preparata.
Ciò che vogliamo e possiamo ora costruire è un popolarismo di nuova concezione, radicato nella cultura di un cristianesimo rinvigorito dai valori di Papa Francesco universalmente riconosciuti, anche innervato dalla coscienza laica. Plurale per sua natura, esso non è confessionale ma risponde al superamento di steccati antichi e nuovi. Comunitario, vuole ricostruire un ethos condiviso e suscitare passione per un destino comune. Nemico di ogni populismo, esso è esigente sul piano della moralità nella vita pubblica e rigoroso nella gestione della finanza.

Da questa visione derivano chiare scelte riformiste:
- Verità nella comunicazione ai cittadini sulla reale situazione italiana, mantenendo con scrupolo il rispetto dei vincoli economici, per non scaricare su figli e nipoti il peso delle mancate scelte di oggi.
- Centralità del lavoro e dell’impresa per ridare prospettiva di crescita, economica ed umana, al Paese. Disoccupazione, sottoccupazione, assistenzialismo si contrastano concentrando tutte le risorse disponibili in un piano organico di rilancio delle attività produttive, in un quadro di economia sociale di mercato altamente competitiva e perciò idonea a garantire a tutti di poter progredire nella scala sociale.
- Semplificazione amministrativa per snellire la macchina pubblica, che non può essere un ostacolo all’iniziativa imprenditoriale: anziché pensare all’ennesima grande riforma, che resterebbe lettera morta, sosteniamo un’opera di “smaltimento normativo” per rendere la macchina burocratica più semplice e per applicare le tante buone leggi che già ci sono.
- Riformismo sociale per cambiare in profondità il nostro Paese e l’Europa senza lasciare nessuno indietro. Le riforme debbono essere spiegate ai cittadini affinché ne comprendano le ragioni ed i benefici e debbono tener conto delle conseguenze che producono, in particolare sulle fasce della popolazione più vulnerabili e molto provate dalla crisi in corso. C’è una domanda di inclusione di cui si deve tener conto con grande attenzione. La società italiana è percorsa da troppe fratture, che drammaticamente la mettono alla prova e sono espressione della grande fragilità nazionale.
- Autonomismo responsabile capace di dare attuazione al principio di sussidiarietà ed insieme di aumentare democrazia e buongoverno. Dobbiamo rimettere mano alla riforma dello Stato per liberare energie esistenti nella società ed insieme combattere gli enormi sprechi di burocrazie e clientele sviluppatesi negli anni.
- Vocazione europea e mondiale dell’Italia, chiamata ad assumere nuovamente un ruolo chiave nella ridefinizione del quadro globale. C’è bisogno di un nostro protagonismo per costruire gli Stati Uniti d’Europa, capaci di programmare un progetto non solo di tenuta ma anche di crescita comune, fuori dai tecnicismi delle burocrazie, affinché l’UE divenga vera potenza globale, capace di assicurare stabilità interna e pace in molte aree del mondo, a partire dalla crisi in Medio Oriente.

Tale progetto comporta scelte politiche contingenti e di medio e lungo respiro.
Innanzitutto – secondo gli auspici del Capo dello Stato – offriamo un convinto sostegno con vigile lealtà al Governo Letta affinché possa operare per tutta questa legislatura. Ciò é nell’interesse del Paese, che ha bisogno di stabilità per profonde riforme, anche costituzionali, prima di tornare alle urne.
Una stagione si sta chiudendo. La nuova non può essere costruita sull’ambizione di ereditare semplicemente una parte del vecchio sistema. Perciò non avrebbe senso partecipare in nessun modo alla trasformazione del PDL o offrire sponda a chi la teorizza anche evocando un presunto “padre nobile”.
Il futuro e’ un partito popolare, democratico, riformista, europeista, in netta discontinuità con la stagione berlusconiana e che in prospettiva si pensa e si organizza in concorrenza con la sinistra, ma degasperianamente alternativo alla destra.
Questo progetto si colloca naturalmente – pur se in modo originale – nell’alveo del Partito Popolare europeo.
Molti cittadini, tra cui tanti elettori e simpatizzanti, potranno essere coinvolti in tale progetto per far evolvere un disegno finora rimasto in fase embrionale. Infatti, il vero cambiamento avviene con la partecipazione dei cittadini e non solo degli eletti delle istituzioni. Tale nostro progetto è possibile solo con tante persone nuove, soprattutto credibili, che devono essere coinvolte attivamente.
Per questo sarà fondamentale un confronto quanto più aperto possibile nei gruppi parlamentari, a cominciare dall’assemblea convocata per oggi e domani, in cui si mettano in discussione le diverse posizioni politiche e non personali. Dobbiamo chiarire senza equivoci il nostro intento di costruire un partito autonomo, oggi e nel futuro, da chiunque rappresenti il modello bipolare a carattere leaderistico che ci ha condotto all’attuale crisi politica. Dalla rigorosa verifica degli obiettivi discendono le scelte organizzative, ivi comprese eventuali divisioni che non possono essere determinate da anacronistiche e illogiche “cacciate” o espulsioni. E insieme dovrà avviarsi una nuova fase della nostra storia comune, caratterizzata da un appello ai tanti che, nella politica come nella società civile, sono alla ricerca di una seria strada da percorrere insieme. Vogliamo chiudere questa stagione delle polemiche interne (tutte accentrate in un gruppo autoreferenziale) per aprirci finalmente ad un autentico confronto con i tanti cittadini che hanno creduto in noi, nel progetto incarnato nelle liste di “Scelta Civica” e di “Con Monti per l’Italia”, e con i tanti che continuano a guardare, sempre più delusi, a ciò che la politica propone per il futuro dell’Italia.
Gli italiani si sentono sempre meno rappresentati dalla politica e, allo stesso tempo, hanno voglia di fare qualcosa per orientare il loro futuro. Il nostro sarà quello di ridare loro rappresentanza sui problemi concreti della loro vita, non con fumosi, astratti o elitari discorsi. Questa rappresentanza si ricostruisce con proposte concrete e serie, ma anche attraverso l’ascolto e il coinvolgimento dei cittadini in un grande progetto. La politica deve tornare a incarnare la voglia che il Paese cresca e la speranza di un futuro migliore per tutti gli italiani.
Roma 15 novembre 2013


sabato 23 novembre 2013

Pelù su Renzi

"Renzi mi fa molta paura. E' un berluschino cresciuto con Mediaset nel sangue. E' veramente perfetto per gli italiani, per la massa degli italiani. Svegliatevi!". Così il cantante fiorentino Piero Pelù a La Zanzara su Radio 24. "Renzi - dice ancora Pelù - di sinistra non ha nemmeno il piede, la mano ed il resto della parte sinistra. La parte sinistra del corpo gli manca proprio. E' solamente un grande centro. E' sempre stato democristiano. Vuole piacere a tutti".

Dice ancora Pelù: "E' berluschino anche nella scelta delle deputate. Quella Maria Elena Boschi è carina, bona, se l'è scelta bene. Non è mica un bischero...E' possibile che quando uno diventa famoso deve per forza passare per certe riviste come Chi?". "Come sindaco - dice ancora - fa cacare. E già come presidente della provincia qualche bel disastro l'ha combinato. E' stato estremamente allegro nella gestione del denaro pubblico. E' uguale agli altri. Dicono sia il male minore, ma con questa storia ce lo mettono in c...".


"JOVANOTTI? SALTA SUI CARRO DEI POLITICI, PRIMA VELTRONI ADESSO RENZI". "LA POLITICA TI SFRUTTA POI TI PRENDE A CALCI NEL CULO."

"In questi anni Jovanotti non ha mai smesso di saltare sul carro prima di D'Alema poi di Veltroni. Ora di Renzi". Così il cantante fiorentino Piero Pelù a La Zanzara su Radio 24. "Basta ricordare - continua Pelù - quando Jovanotti a Sanremo fece il rap dedicato a D'Alema. Ogni artista dovrebbe stare il più possibile al di fuori dei giochi della politica. La politica è capace solo di sfruttare l'immagine degli artisti per poi dar loro un calcio nel culo nel momento più opportuno".

"Il Pd è diventato l'acronimo di un moccolo, è l'acronimo di una bestemmia. L'ho votato per anni e anni e ne sono rimasto estremamente deluso".

Così il cantante fiorentino Piero Pelù ai microfoni della Zanzara su Radio 24. "Grillo - dice Pelù - è una delle cose più interessanti, apparentemente fuori dai giochi, ma quando affronta il problema della Bossi-Fini come un leghista lo prenderei a calci nel culo".

"Berlusconi invece è il nuovo Mussolini - dice ancora Pelù - ma non sono il primo a notarlo. Non lo sopporto più e sono ancora tutti lì a leccargli il culo. Gli italiani sono lobotomizzati. Berlusconi e la Tv hanno avuto un ruolo primario. Berlusconi è la fiction che dura da più tempo in Italia". "Penso ad andare via dall'Italia - prosegue - più che altro per i miei figli, è un paese dissestato. Che cavolo di futuro gli stiamo offrendo?".


venerdì 22 novembre 2013

La vicenda della Lega democratica

Negli anni Settanta, ogni qual volta tra cattolici democratici si discuteva di abbandonare la Democrazia cristiana, i caveat che spuntavano fuori erano sempre gli stessi. Primo: attenti a non fare la fine del Movimento cristiano dei lavoratori di Livio Labor, fallimentare tentativo post-sessantottino di creare un secondo partito cattolico. Secondo: attenti a non fare la fine degli «indipendenti di sinistra», cattolici eletti nel 1976 nelle liste del Pci a titolo personale ma incapaci di influire sulla linea del partito, e tantomeno di favorirne la modernizzazione. La «diaspora» dei cattolici – si sente ripetere più volte nella Lega democratica – non serve a nessuno: né ai cattolici né ai comunisti. (…)

Quella tra pluralismo e diaspora è una distinzione sottile, non priva di ambiguità. Ai suoi esordi, la Lega democratica aveva sostenuto la tesi che i cattolici dovessero confrontarsi con le sinistre come «componente omogenea» per evitare quello che Antonio Gramsci aveva definito il «suicidio» del movimento cattolico-democratico. (…) Ma qual è il confine tra un insieme di presenze a titolo individuale nei partiti della sinistra e l’esistenza di una «componente omogenea» cattolico-democratica? È un discorso che in questi termini può prestarsi a una lettura correntizia: i cattolici democratici possono entrare a far parte dei partiti della sinistra ma solo come corrente autonoma, magari in lotta per la leadership (o l’egemonia culturale) del partito. La «specificità» dei cristiani in politica, così interpretata, diventa separatezza, segregazione rispetto al mondo. Invece di un partito cattolico, una corrente cattolica.

E non è in questa direzione che punta la vicenda della Lega democratica. Non ci si può relazionare col mondo come una «cittadella assediata», scrive Paolo Giuntella. Bisogna puntare piuttosto ad essere «sale della terra»: anche se minoritari, i cattolici democratici possono rendere «fertile» il terreno che li circonda. Tradotto in termini politici è un discorso che conduce lontano dal partito cattolico, o dai partiti cattolici al plurale, ma anche da qualsiasi ipotesi correntizia. (…)

La prospettiva della Lega non è mai quella del Partito d’Azione, uno schieramento di intellettuali che parla solo alle élite. L’azione politica dei cattolici democratici può esplicarsi solo nel contesto di una grande forza «popolare». Ma un partito popolare non può limitarsi a «rappresentare l’esistente»: se così fosse, un partito del genere sarebbe condannato all’immobilismo. (…) Nel mondo degli anni Ottanta la Lega guarda con paura a una politica che banalizza i problemi, che si adegua ai tempi della televisione, che sempre più si limita ad assecondare tutte le pulsioni che provengono dalla società, senza filtro. Non iniziativa politica, ma populismo. Di certo, tra i contributi della presenza cattolico-democratica al nuovo centrosinistra, si può annoverare un fermo «no al populismo». La questione del consenso elettorale però rimane sostanzialmente inevasa. (…)

Il tema della specificità dei cattolici nei partiti di sinistra si fa più spinoso quando si entra nel campo dei famosi (o famigerati) «principî non negoziabili». Per i cattolici della Lega la realizzazione di una società pienamente cristiana è un compito che sfugge alle possibilità umane. La secolarizzazione ha reso questo dato particolarmente evidente: vista in questa luce anche la secolarizzazione ha un valore positivo, di liberazione del cristiano dalla pretesa di costruire nel presente un feticcio della Città di Dio. Le due Città sono e rimangono distinte. (…)

Non è una scelta di disimpegno, ma l’impegno politico non sfocia nella crociata. È chiaro però che questa indicazione non dice nulla sulle scelte partitiche concrete dei cattolici democratici. Dopo l’Assemblea nazionale della Dc del 1981, l’Assemblea degli esterni, gran parte della Lega democratica decide di allontanarsi dai partiti, guardando solo alla società civile. È una decisione che per certi aspetti può ricordare la situazione che si è ripresentata alle elezioni politiche del febbraio 2013, in cui alcuni cattolici – insoddisfatti dell’attuale offerta partitica – hanno proposto di «saltare un giro», di lasciar perdere gli schieramenti esistenti in attesa magari di una nuova aggregazione di cattolici in politica.

Ma è proprio qui la differenza sostanziale tra la proposta politica cattolico-democratica e le ipotesi di nuovi partiti cattolici che affollano questi scampoli di Seconda Repubblica. Sia che si scelga la militanza in un partito, sia che si preferisca agire nella società civile, resta fermo il rifiuto del partito confessionale, che porta con sé l’inevitabile tentazione di schierare la Chiesa da una parte o dall’altra dello scacchiere politico. Per la Chiesa – scrive Pietro Scoppola – «un annuncio di salvezza è altra cosa da una opinabile scelta di schieramenti». Se i cattolici scelgono lo scontro col mondo, il rischio maggiore che corrono non è la sconfitta, ma perdere di vista proprio l’«annuncio della salvezza», cioè il cuore stesso della loro fede.

fonte: Europa, Lorenzo Biondi 20 novembre 2013

La peggior forma di governo

  " La democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre fino ad ora sperimentate " Winston Churchill a...