domenica 12 maggio 2013

Doppiopetto blu

Ha il solito doppiopetto blu presidenziale. E se non fosse per il rosario nero che gli avvolge le mani intrecciate sul grembo, e perché è sdraiato sul letto vestito di tutto punto con gli occhi chiusi, potrebbe quasi sembrare il Giulio Andreotti di sempre. Ma il piccolo presepe vivente che lo circonda, stavolta, non è nella sua stanza da letto per ascoltare le battute al curaro, o le perle di buonsenso romano-papalino. Le tre bombole a ossigeno accostate alla parete raccontano giorni di sofferenza. E il senatore a vita Emilio Colombo, vecchio alleato e avversario in decine di congressi democristiani e di quasi altrettanti governi, si fa un segno della croce che non è solo un saluto a lui ma il commiato a un'epoca della storia d'Italia.
In questa stanza nella penombra al quarto piano di corso Vittorio Emanuele che si affaccia sul Tevere e sul Vaticano, sorvegliato e protetto da un grande crocifisso di porcellana appeso sopra al letto, è morto ieri mattina, poco dopo mezzogiorno, l'uomo-simbolo della Prima Repubblica. In quel momento in casa c'erano soltanto Gloria, la badante filippina che lo assisteva con altri due connazionali, e Giancarlo Buttarelli, il capo della scorta con lui da oltre trentacinque anni. C'era anche la signora Livia, ma per fortuna non si è accorta di nulla. E anche adesso, alle cinque del pomeriggio, mentre un silenzioso viavai di amici e mondi tramontati viene accompagnato a salutarlo per l'ultima volta, la moglie è in cucina in compagnia della cognata Antonella Danese. Forse non capisce quanto è successo. I figli vogliono che non si accorga che suo marito Giulio se n'è andato a novantaquattro anni.
Già, ci sono anche gli Andreotti: la tribù più discreta e invisibile del potere romano. Per il momento Stefano e Serena, due dei quattro figli. Gli altri, Lamberto, presidente della multinazionale Meyers Squibb, arriverà da New York in serata, e la figlia maggiore Marilena è partita da Torino, dove vive. In compenso ci sono alcuni dei nipoti, Giulio Andreotti e Giulia Ravaglioli, figlio il primo di Stefano e l'altra di Serena e del giornalista della Rai Marco Ravaglioli. Ci sono anche Marco e Luca Danese, i cugini. E sono loro, tutti insieme, ad accogliere ex ambasciatori e capi di gabinetto, alti burocrati e parlamentari figli della diaspora scudocrociata; e naturalmente sacerdoti. Il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, si è offerto di celebrare la messa. E anche il suo predecessore, il decano del Sacro Collegio, Angelo Sodano.
«E il cardinale Fiorenzo Angelini non viene?», si chiedono nel salottino con le cineserie e le scatoline d'argento allineate in ordine su un tavolino rotondo col drappo di velluto marrone. No, non ce la fa. E nemmeno il cardinale Achille Silvestrini. Sono molto vecchi anche loro, reduci di mille battaglie e pezzi d'antiquariato del «partito romano» italo-vaticano. Ci sono invece il vescovo Matteo Zuppi, parroco di Santa Maria in Trastevere, la chiesa della comunità di Sant'Egidio, e padre Luigi Venturi, il parroco di San Giovan Battista dei Fiorentini, la chiesa di quartiere dove oggi alle 17 si celebreranno i funerali in forma privata: perché la famiglia non vuole una cerimonia di Stato. Parlano tutti del «Presidente», come continuano a chiamarlo ricordando pagine ormai ingiallite di storia repubblicana. E la famiglia, con discrezione e garbo, ringrazia e stringe mani. Ma sempre un po' appartata, cordiale e insieme vigile. Come se concedesse per l'ultima volta il padre e il nonno a quelle persone che lo hanno visto più di loro.
Non è una veglia di potenti, ma di vecchi amici. Sì, sembra che Andreotti avesse anche amici. Non piange nessuno, perché probabilmente il «divo Giulio», o «Belzebù», come lo chiamano tuttora gli avversari più irriducibili, non approverebbe. Anche Pier Ferdinando Casini e Gianni Letta sono confusi fra l'avvocato Barone e Luigi Turchi e il figlio Franz. Parlano come se tutto fosse uguale a prima. Le segretarie, Daniela e Patrizia, raccontano che lo studio a palazzo Giustiniani ormai era un guscio vuoto da mesi; e che da febbraio i figli avevano deciso di restituirlo al Senato per non tenere occupate le stanze in nome di una finzione. È passato a salutare anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Sono arrivati appena si è saputa la notizia Franco e Sandra Carraro. C'è la signora Santarelli, figlia di un amico storico dell'ex presidente. E figli e nipoti osservano, rispondono alle domande, sorridono perfino, con gentilezza.
Quando Stefano Andreotti presenta a un Gianni Letta affranto il figlio, dicendogli: «Ecco Giulio Andreotti», c'è un attimo di sorpresa. Poi spunta un ragazzo alto, con i capelli un po' lunghi, in giacca blu e cravatta, che ha il nome del nonno e fa l'avvocato. L'altro, quello «vero», è sul letto con la coperta verde di lana a fiori e la foto di madre Teresa di Calcutta sul comodino, nella stanza a metà corridoio: quella annunciata dalla mensola di vetro dove sono esposti una parte dei campanelli d'argento che il senatore a vita ha collezionato per gran parte della sua lunga vita. Oltre la porta a due ante, in questo appartamento bello ma senza lusso, riposa quello che per decenni è stato considerato il sopravvissuto per antonomasia. Al punto che gli piaceva dire con civetteria: «Io, in fondo, sono postumo di me stesso». Perché lui continuava a vivere mentre finivano la Guerra fredda, la Prima e la Seconda Repubblica, e morivano o si dimettevano i Papi.
Non l'avevano schiantato né i processi per mafia, dai quali era uscito assolto e, per alcuni reati, solo prescritto, né un potere che aveva regole, riferimenti e protagonisti lontani ormai anni luce da lui. Finché era esistito un modo diviso fra Occidente e comunismo, Andreotti era parso eterno. Era il «suo» mondo, nel quale si muoveva con la leggiadria e il cinismo di chi ne conosceva non solo le apparenze, ma anche il sottosuolo. Aveva presieduto i suoi primi governi nel 1972, alleato con i liberali. Il terzo era stato nel 1976, appoggiato dal Pci. E l'ultimo, il settimo, nel 1989, a capo di un'alleanza con i socialisti di Bettino Craxi: l'ultimo della Prima Repubblica. Obiettivo: preservare la continuità dello Stato democristiano e un progresso senza avventure; e garantire il Vaticano, l'Europa e gli Usa come stelle polari. La Dc era solo uno strumento per governare. In realtà, la forza e il potere andreottiani erano fuori, non dentro al partito.
La sua base elettorale erano la Ciociaria, la burocrazia ministeriale romana, i conventi di suore, le congregazioni religiose. Come disse una volta lo scomparso capo dello Stato, Francesco Cossiga, Andreotti era «il popolo del Papa dentro la Dc». Oppure «un cardinale esterno», nella definizione dello storico Andrea Riccardi. Dei democristiani, di cui era un esemplare unico e dunque atipico, diffidava: forse perché aveva visto come erano stati rapidi a giubilare il suo mentore politico, Alcide De Gasperi, alla fine del centrismo e all'inizio degli Anni Cinquanta del secolo scorso. Non per nulla non aveva mai ricoperto cariche di partito, tranne quella di capogruppo alla Camera. E la sua corrente era piccola, combattiva e così variegata, per usare un eufemismo, che gli altri la chiamavano con una punta di razzismo «le truppe di colore» andreottiane.
Erano la sua piccola massa di manovra per ottenere ministeri; per garantirsi una longevità governativa dovuta non tanto alle sue strategie, quanto al ruolo di conservatore del sistema e conoscitore della macchina dello Stato. Eppure, quando la Dc finì insieme con la Guerra fredda, lui ne rimase un cultore nostalgico: capiva che l'archiviazione dell'unità politica dei cattolici era anche quella dei suoi punti cardinali e della sua cultura politica. Dopo la diaspora scudocrociata, a piazza del Gesù, sede storica della Dc a Roma, non voleva andare. Diceva che gli sembrava un condominio litigioso, con un partitino diverso a ogni piano. Da anni non era più un burattinaio. Anzi, rischiava di essere usato per operazioni politiche che non condivideva. Accadde nel 2006, quando Silvio Berlusconi lo candidò alla presidenza del Senato contro un altro ex democristiano, Franco Marini, scelto dal centrosinistra. Si illuse di essere «una goccia d'olio» in grado di sbloccare la situazione.
Ma fu la sua ultima illusione di potere, prima di un lungo oblìo dal quale è uscito solo ieri poco dopo mezzogiorno; e prima di essere di nuovo usato da partiti nei quali non si riconosce, come è accaduto dopo la notizia della sua morte. Il piccolo mondo antico che ieri si è ritrovato nel suo appartamento si è mimetizzato e adattato ai nuovi potenti. Ma sapeva che l'uomo adagiato in doppiopetto blu nella stanza accanto, e poi nella bara all'ingresso di casa, era la loro autobiografia: lo specchio nel quale per decenni la maggioranza silenziosa e moderata dell'Italia si era riflessa. Si tratta di un'Italia che ha rifiutato fino all'ultimo la sua scomparsa, perpetuando il mito dell'eternità andreottiana per non ammettere di essere postuma anche lei di se stessa. Ma «c'est fini», è finita, confessava a se stesso da tempo il suo segretario a palazzo Giustiniani, Salvatore Ruggieri.
E stavolta è finita davvero. Andreotti sarà ricordato come quello della battuta sul «potere che logora chi non ce l'ha»: un monumento lessicale a un potere senza alternativa, cresciuto negli ultimi anni della Dc; e pagato a caro prezzo quando quella stagione si è chiusa. Peccato che pochi ne ricordino un'altra, di molti anni prima. Chiesero all'allora ministro di qualcosa che avrebbe fatto se avesse avuto il potere assoluto. Andreotti ci pensò un secondo. Poi rispose: «Sicuramente qualche sciocchezza». Era una lezione di democrazia che molti, a cominciare da lui, hanno finito per rimuovere.

Massimo Franco, Corriere della Sera, 7 maggio 2013

Sulla burocrazia

Uno dei motivi, forse il principale, per cui il governo guidato da Mario Monti non è riuscito a tagliare la spesa pubblica è stata la scelta di mantenere al loro posto, quasi senza eccezioni, tutti i grandi burocrati che guidano i ministeri.
Il nuovo governo ha tempo fino al 31 maggio per decidere se confermare gli alti dirigenti dei ministeri: capi di gabinetto e degli uffici legislativi, capi dipartimento, direttori generali. Chi non verrà esplicitamente confermato, automaticamente decadrà. È una delle scelte più importanti delle prossime settimane.
Accadde qualcosa di analogo con il primo esecutivo Berlusconi. I nuovi ministri della Lega che scesero a Roma nel 1994 - Giancarlo Pagliarini, Vito Gnutti, Roberto Radice - erano uomini concreti, abituati a gestire imprese, inesperti di burocrazia romana. Al suo primo giorno di lavoro il neoministro del Bilancio, Pagliarini, dopo aver letto un documento della Ragioneria generale dello Stato, a suo avviso incomprensibile, disse: «Bisogna rifare il bilancio dello Stato da zero. Se continuano a scriverlo così, solo la Ragioneria generale lo capisce e solo loro decideranno».
Il monopolio delle informazioni è il vero motivo della potenza della burocrazia. Gestire un ministero è una questione complessa: richiede dimestichezza con il bilancio dello Stato e il diritto amministrativo e soprattutto buoni rapporti con i burocrati che guidano gli altri ministeri e la presidenza del Consiglio. Gli alti dirigenti hanno il monopolio di questa informazione e di questi rapporti, e tutto l'interesse a mantenerlo. Hanno anche l'interesse a rendere il funzionamento dei loro uffici il più opaco e complicato possibile, in modo da essere i soli a poterli far funzionare. E così quando arriva un nuovo ministro, animato dalle migliori intenzioni, a ogni sua proposta la burocrazia oppone ostacoli che appaiono incomprensibili, ma che i dirigenti affermano essere insormontabili. Giancarlo Pagliarini perse la sua battaglia con la Ragioneria e in quel 1994 nulla cambiò.
Mario Canzio, l'attuale Ragioniere generale dello Stato, entrò in Ragioneria nel 1972, 41 anni fa, come funzionario dell'Ispettorato generale del Bilancio, l'ufficio che ha il controllo della spesa pubblica. Da quel giorno la spesa pubblica al netto degli interessi è cresciuta (ai prezzi di oggi) di circa 200 miliardi, dal 32 al 45 per cento del Pil. Da quando, otto anni fa, fu nominato Ragioniere generale, è cresciuta di oltre 30 miliardi.
I sindaci durano in carica cinque anni, con la possibilità se rieletti di un solo secondo mandato, il Governatore della Banca d'Italia sei, il presidente della Bce otto. Il Ragioniere generale a vita. Andrea Monorchio rimase tredici anni, con dieci diversi governi.
Sono tutti ottimi funzionari dello Stato, ma se non sono riusciti ad arginare la spesa pubblica per quarant'anni saranno davvero le persone più adatte per gestire una spending review ? Non è venuto il momento di affrontare il ricambio della burocrazia? E di farlo per davvero, ponendo un termine alla perenne rotazione da un ministero all'altro, da un ministero a un'autorità indipendente e da questa ancora a un ministero? Non c'è ricambio se si abbassa l'età media dei ministri mentre la struttura sotto di loro resta immutabile.
Cambiare i vecchi burocrati è certamente costoso perché un nuovo dirigente ci metterà un po' a prendere in mano le redini del ministero. Ma è un costo che val la pena pagare. L'alternativa è continuare a non fare nulla.

Francesco Giavazzi, Corriere della Sera, 9 maggio 2013

Nel ventennale di Don Tonino


venerdì 3 maggio 2013

I sottosegretari del Governo Letta


 

A sorpresa, Consiglio dei ministri serale per la nomina dei sottosegretari di Stato, adempimento necessario perche il nuovo esecutivo Letta affronti a ranghi completi i lavori parlamentari che entreranno nel vivo da martedì, quando si insedieranno le commissioni permanenti di Camera e Senato. La riunione, partita con molto ritardo ma terminata in venti minuti, si è conclusa con il via libera ai nomi dei componenti del governo che coadiuveranno l'azione dei ministri: nella lista Stefano Fassina (Pd) e Luigi Casero (Pdl), nominati vice ministri all'Economia. A Fassina, in particolare, verrà affidata la delega per la riforma fiscale. Sottosegretari all'Economia Pierpaolo Baretta (Pd) e Alberto Giorgetti (Pdl), mentre Giuseppe Berretta, anche lui del Pd, sarà sottosegretario alla Giustizia.
In dettaglio, il comunicato stampa diffuso da Palazzo Chigi vede nominati sottosegretari alla Presidenza del Consiglio Giovanni Legnini, del Pd, (Editoria e Attuazione Programma), la collega di partito Sesa Amici (Rapporti con il Parlamento e coordinamento attività di Governo), Sabrina De Camillis, del Pdl, (Rapporti con il Parlamento e coord. attività Governo), Walter Ferrazza (Affari Regionali e Autonomie)
Micaela Biancofiore, del Pdl, (Pari Opportunità), Gianfranco Miccichè, leader di "Grande Sud", (Pubblica Amministrazione e Semplificazione). Sottosegretari al ministero dell'Interno sono stati invece nominati Filippo Bubbico (Viceministro) e Giampiero Bocci, entrambi del Pd, e il magistrato Domenico Manzione. Questi gli altri incarici di sottosegretario o viceministro decisi dalla riunione dei ministri, 23 dei quali sono di area Pd, 10 di area Pdl, 5 di area Scelta Civica, 2 di area Grande sud.


Affari Esteri
Lapo Pistelli, responsabile Esteri del Pd, (Viceministro)
Bruno Archi, Pdl, già consigliere diplomatico di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, (Viceministro)
Marta Dassù, già membro tecnico del governo Monti (Viceministro)
Mario Giro, esponente della Comunità di . Egidio (in "quota" Scelta civica)
Giustizia
Giuseppe Beretta (Pd)
Cosimo Ferri, magistrato, segretario di Magistratura indipendente
Difesa
Roberta Pinotti (Pd)
Gioacchino Alfano (Pdl)
Sviluppo Economico
Carlo Calenda, Scelta civica, (Viceministro)
Antonio Catricalà, già sottosegretario al Palazzo Chigi del Governo Monti (Viceministro)
Simona Vicari (Pdl)
Claudio De Vincenti, già sottosegretario allo stesso ministero nel Governo Monti
Infrastrutture e Trasporti
Vincenzo De Luca Pd, sindaco di Salerno (Viceministro)
Erasmo De Angelis , presidente di Publiacqua Toscana
Rocco Girlanda (Pdl)
Politiche Agricole Forestali e Alimentari
Maurizio Martina (Pd)
Giuseppe Castiglione (Pdl)
Ambiente, Tutela del territorio e del mare
Marco Flavio Cirillo (Pdl)
Lavoro e Politiche sociali
Cecilia Guerra, senatrice Pd, già sottosegretario del ministero del Lavoro nel governo Monti (Viceministro)
Jole Santelli (Pdl)
Carlo Dell'Aringa (Pd)
Istruzione, Università e Ricerca
Gabriele Toccafondi (Pdl)
Marco Rossi Doria, già sottosegretario all'Istruzione del Governo Monti
Gianluca Galletti (Unione di centro)
Beni, Attività culturali e turismo
Simonetta Giordani, "renziana" in quota Letta
Ilaria Borletti Buitoni (Scelta civica)
Salute
Paolo Fadda (Pd)

fonte: Il Sole 24 ore

La peggior forma di governo

  " La democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre fino ad ora sperimentate " Winston Churchill a...