lunedì 16 dicembre 2013

Gaffe

Esilarante fuori onda per la telegiornalista jesina Laura Tangherlini, uno dei volti più conosciuti e apprezzati di Rai News 24.
La giornalista, 31enne, è incappata qualche giorno fa in un una gaffe subito rilanciato da Blob. Dopo aver annunciato garbatamente la pubblicità che seguiva le notizie: «Ci vediamo tra poco con gli aggiornamenti e le notizie. Restate con noi», convinta di essere fuori onda Laura Tangherlini ha aggiunto: «Restatece voi, perché io me ne vado, può esse. Me sò rotta er c....o!» in accento romano misto all'inflessione jesina ancora forte, nonostante da più di sei anni lei viva praticamente nella capitale.
La gaffe in realtà è stata fatta in regia. Il microfono della Tangherlini è rimasto aperto sembra, diversi secondi dopo il lancio della pubblicità, quando la conduttrice in studio pensava ormai di essere in pausa. Un commento forse dettato dalla stanchezza e dai ritmi che il giornalismo televisivo impone.
Poco importa, il danno oramai è fatto: la bella jesina, dopo che il video ha iniziato a girare in rete con migliaia di condivisioni si è beccata un bel provvedimento disciplinare dall'azienda. E' stata sospesa dalla conduzione del programma all news. Ieri abbiamo provato a raggiungerla telefonicamente, ma lei, affranta per lo spiacevole episodio, non ha voluto commentare: «Scusatemi ho già avuto parecchi guai, non posso dire nulla» ha detto.
Un commento certamente volgare che ora lei non avrebbe mai voluto pronunciare. Fatto sta che è risuonato nelle case di tanti italiani e ora in tanti computer e smartphone. Ma c'è da dire che la telegiornalista jesina più che reazioni di fastidio, ha strappato tantissime risate ai suoi ammiratori e non.
Su YouTube sono diversi e parecchio cliccati i video realizzati dai fan che evidenziano la sua bellezza. Per non parlare delle condivisioni su Facebook, di colleghi e non, che hanno contribuito a far diventare in un paio d'ore il breve filmato un caso virale. E ora il video incriminato è circondato da una pioggia di commenti, prevalentemente ironici. Laura Tangherini è anche molto apprezzata per il suo lavoro sulla questione siriana: è autrice del libro «Siria in fuga» (edizioni Poiesis) dove racconta i viaggi in Libano e Giordania, le storie dei profughi siriani.
E anche la pagina Facebook della giornalista in queste ore è presa d'assalto con un fluire di commenti e di link a quel video che difficilmente Laura, sempre impeccabile in video, dimenticherà. Chissà che questa esilarante gaffe non la porterà a essere incoronata a «telegiornalista dell'anno»: nel concorso realizzato tramite il social network Facebook la sexi giornalista jesina è in finale, in un testa a testa a colpi di click con la giornalista del tg1 Barbara Capponi.

domenica 15 dicembre 2013

Speranza e tenerezza



Il Natale per me è speranza e tenerezza..
Francesco racconta a «La Stampa» il suo primo Natale da vescovo di Roma. Casa Santa Marta, martedì 10 dicembre, ore 12.50. Il Papa ci accoglie in una sala accanto al refettorio. L'incontro durerà un'ora e mezzo. Per due volte, durante il colloquio, dal volto di Francesco sparisce la serenità che tutto il mondo ha imparato a conoscere, quando accenna alla sofferenza innocente dei bambini e alla tragedia della fame nel mondo.
Nell'intervista il Papa parla anche dei rapporti con le altre confessioni cristiane e dell'«ecumenismo del sangue» che le unisce nella persecuzione, accenna alle questioni su matrimonio e famiglia che saranno trattate dal prossimo Sinodo, risponde a chi lo ha criticato dagli Usa definendolo «un marxista» e parla del rapporto tra Chiesa e politica.
Che cosa significa per lei il Natale?
«È l'incontro con Gesù. Dio ha sempre cercato il suo popolo, lo ha condotto, lo ha custodito, ha promesso di essergli sempre vicino. Nel Libro del Deuteronomio leggiamo che Dio cammina con noi, ci conduce per mano come un papà fa con il figlio. Questo è bello. Il Natale è l'incontro di Dio con il suo popolo. Ed è anche una consolazione, un mistero di consolazione. Tante volte, dopo la messa di mezzanotte, ho passato qualche ora solo, in cappella, prima di celebrare la messa dell'aurora. Con questo sentimento di profonda consolazione e pace. Ricordo una volta qui a Roma, credo fosse il Natale del 1974, una notte di preghiera dopo la messa nella residenza del Centro Astalli. Per me il Natale è sempre stato questo: contemplare la visita di Dio al suo popolo».
Che cosa dice il Natale all'uomo di oggi?
«Ci parla della tenerezza e della speranza. Dio incontrandoci ci dice due cose. La prima è: abbiate speranza. Dio apre sempre le porte, mai le chiude. È il papà che ci apre le porte. Secondo: non abbiate paura della tenerezza. Quando i cristiani si dimenticano della speranza e della tenerezza, diventano una Chiesa fredda, che non sa dove andare e si imbriglia nelle ideologie, negli atteggiamenti mondani.
Mentre la semplicità di Dio ti dice: vai avanti, io sono un Padre che ti accarezza. Ho paura quando i cristiani perdono la speranza e la capacità di abbracciare e accarezzare. Forse per questo, guardando al futuro, parlo spesso dei bambini e degli anziani, cioè dei più indifesi. Nella mia vita di prete, andando in parrocchia, ho sempre cercato di trasmettere questa tenerezza soprattutto ai bambini e agli anziani. Mi fa bene, e mi fa pensare alla tenerezza che Dio ha per noi».
Come si può credere che Dio, considerato dalle religioni infinito e onnipotente, si faccia così piccolo?
«I Padri greci la chiamavano "synkatabasis", condiscendenza divina. Dio che scende e sta con noi. È uno dei misteri di Dio. A Betlemme, nel 2000, Giovanni Paolo II disse che Dio è diventato un bambino totalmente dipendente dalle cure di un papà e di una mamma. Per questo il Natale ci dà tanta gioia. Non ci sentiamo più soli, Dio è sceso per stare con noi. Gesù si è fatto uno di noi e per noi ha patito sulla croce la fine più brutta, quella di un criminale».
Il Natale viene spesso presentato come fiaba zuccherosa. Ma Dio nasce in un mondo dove c'è anche tanta sofferenza e miseria.
«Quello che leggiamo nei Vangeli è un annuncio di gioia. Gli evangelisti hanno descritto una gioia. Non si fanno considerazioni sul mondo ingiusto, su come faccia Dio a nascere in un mondo così. Tutto questo è il frutto di una nostra contemplazione: i poveri, il bambino che deve nascere nella precarietà. Il Natale non è stata la denuncia dell'ingiustizia sociale, della povertà, ma è stato un annuncio di gioia. Tutto il resto sono conseguenze che noi traiamo. Alcune giuste, altre meno giuste, altre ancora ideologizzate. Il Natale è gioia, gioia religiosa, gioia di Dio, interiore, di luce, di pace. Quando non si ha la capacità o si è in una situazione umana che non ti permette di comprendere questa gioia, si vive la festa con l'allegria mondana. Ma fra la gioia profonda e l'allegria mondana c'è differenza».
È il suo primo Natale, in un mondo dove non mancano conflitti e guerre...
«Dio mai dà un dono a chi non è capace di riceverlo. Se ci offre il dono del Natale è perché tutti abbiamo la capacità di comprenderlo e riceverlo. Tutti, dal più santo al più peccatore, dal più pulito al più corrotto. Anche il corrotto ha questa capacità: poverino, ce l'ha magari un po' arrugginita, ma ce l'ha. Il Natale in questo tempo di conflitti è una chiamata di Dio, che ci dà questo dono. Vogliamo riceverlo o preferiamo altri regali? Questo Natale in un mondo travagliato dalle guerre, a me fa pensare alla pazienza di Dio. La principale virtù di Dio esplicitata nella Bibbia è che Lui è amore. Lui ci aspetta, mai si stanca di aspettarci. Lui dà il dono e poi ci aspetta. Questo accade anche nella vita di ciascuno di noi. C'è chi lo ignora. Ma Dio è paziente e la pace, la serenità della notte di Natale è un riflesso della pazienza di Dio con noi».
In gennaio saranno cinquant'anni dallo storico viaggio di Paolo VI in Terra Santa. Lei ci andrà?
«Natale sempre ci fa pensare a Betlemme, e Betlemme è in un punto preciso, nella Terra Santa dove è vissuto Gesù. Nella notte di Natale penso soprattutto ai cristiani che vivono lì, a quelli che hanno difficoltà, ai tanti di loro che hanno dovuto lasciare quella terra per vari problemi. Ma Betlemme continua a essere Betlemme.
Dio è venuto in un punto determinato, in una terra determinata, è apparsa lì la tenerezza di Dio, la grazia di Dio. Non possiamo pensare al Natale senza pensare alla Terra Santa. Cinquant'anni fa Paolo VI ha avuto il coraggio di uscire per andare là, e così è cominciata l'epoca dei viaggi papali. Anch'io desidero andarci, per incontrare il mio fratello Bartolomeo, patriarca di Costantinopoli, e con lui commemorare questo cinquantenario rinnovando l'abbraccio tra Papa Montini e Atenagora avvenuto a Gerusalemme nel 1964. Ci stiamo preparando».
Lei ha incontrato più volte i bambini gravemente ammalati. Che cosa può dire davanti a questa sofferenza innocente?
«Un maestro di vita per me è stato Dostoevskij, e quella sua domanda, esplicita e implicita, ha sempre girato nel mio cuore: perché soffrono i bambini? Non c'è spiegazione. Mi viene questa immagine: a un certo punto della sua vita il bambino si "sveglia", non capisce molte cose, si sente minacciato, comincia a fare domande al papà o alla mamma. È l'età dei "perché". Ma quando il figlio domanda, poi non ascolta tutto ciò che hai da dire, ti incalza subito con nuovi "perché?".
Quello che cerca, più della spiegazione, è lo sguardo del papà che dà sicurezza. Davanti a un bambino sofferente, l'unica preghiera che a me viene è la preghiera del perché. Signore perché? Lui non mi spiega niente. Ma sento che mi guarda. E così posso dire: Tu sai il perché, io non lo so e Tu non me lo dici, ma mi guardi e io mi fido di Te, Signore, mi fido del tuo sguardo».
Parlando della sofferenza dei bambini non si può dimenticare la tragedia di chi soffre la fame.
«Con il cibo che avanziamo e buttiamo potremmo dar da mangiare a tantissimi. Se riuscissimo a non sprecare, a riciclare il cibo, la fame nel mondo diminuirebbe di molto. Mi ha impressionato leggere una statistica che parla di 10 mila bambini morti di fame ogni giorno nel mondo. Ci sono tanti bambini che piangono perché hanno fame. L'altro giorno all'udienza del mercoledì, dietro una transenna, c'era una giovane mamma col suo bambino di pochi mesi. Quando sono passato, il bambino piangeva tanto.
La madre lo accarezzava. Le ho detto: signora, credo che il piccolo abbia fame. Lei ha risposto: sì sarebbe l'ora... Ho replicato: ma gli dia da mangiare, per favore! Lei aveva pudore, non voleva allattarlo in pubblico, mentre passava il Papa. Ecco, vorrei dire lo stesso all'umanità: date da mangiare! Quella donna aveva il latte per il suo bambino, nel mondo abbiamo sufficiente cibo per sfamare tutti. Se lavoriamo con le organizzazioni umanitarie e riusciamo a essere tutti d'accordo nel non sprecare il cibo, facendolo arrivare a chi ne ha bisogno, daremo un grande contributo per risolvere la tragedia della fame nel mondo. Vorrei ripetere all'umanità ciò che ho detto a quella mamma: date da mangiare a chi ha fame! La speranza e la tenerezza del Natale del Signore ci scuotano dall'indifferenza».
Alcuni brani dell'«Evangelii Gaudium» le hanno attirato le accuse degli ultra-conservatori americani. Che effetto fa a un Papa sentirsi definire «marxista»?
«L'ideologia marxista è sbagliata. Ma nella mia vita ho conosciuto tanti marxisti buoni come persone, e per questo non mi sento offeso».
Le parole che hanno colpito di più sono quelle sull'economia che «uccide»...
«Nell'esortazione non c'è nulla che non si ritrovi nella Dottrina sociale della Chiesa. Non ho parlato da un punto di vista tecnico, ho cercato di presentare una fotografia di quanto accade. L'unica citazione specifica è stata per le teorie della "ricaduta favorevole", secondo le quali ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo.
C'era la promessa che quando il bicchiere fosse stato pieno, sarebbe trasbordato e i poveri ne avrebbero beneficiato. Accade invece che quando è colmo, il bicchiere magicamente s'ingrandisce, e così non esce mai niente per i poveri. Questo è stato l'unico riferimento a una teoria specifica. Ripeto, non ho parlato da tecnico, ma secondo la dottrina sociale della Chiesa. E questo non significa essere marxista».
Lei ha annunciato una «conversione del papato». Gli incontri con i patriarchi ortodossi le hanno suggerito qualche via concreta?
«Giovanni Paolo II aveva parlato in modo ancora più esplicito di una forma di esercizio del primato che si apra ad una situazione nuova. Ma non solo dal punto di vista dei rapporti ecumenici, anche nei rapporti con la Curia e con le Chiese locali. In questi primi nove mesi ho accolto la visita di tanti fratelli ortodossi, Bartolomeo, Hilarion, il teologo Zizioulas, il copto Tawadros: quest'ultimo è un mistico, entrava in cappella, si toglieva le scarpe e andava a pregare. Mi sono sentito loro fratello. Hanno la successione apostolica, li ho ricevuti come fratelli vescovi. È un dolore non poter ancora celebrare l'eucaristia insieme, ma l'amicizia c'è. Credo che la strada sia questa: amicizia, lavoro comune, e pregare per l'unità. Ci siamo benedetti l'un l'altro, un fratello benedice l'altro, un fratello si chiama Pietro e l'altro si chiama Andrea, Marco, Tommaso...».

LA RENAULT QUATTRO DI DON ZOCCA REGALATA AL PAPA BERGOGLIO 
LA RENAULT QUATTRO DI DON ZOCCA REGALATA AL PAPA BERGOGLIO 
 
L'unità dei cristiani è una priorità per lei?
«Sì, per me l'ecumenismo è prioritario. Oggi esiste l'ecumenismo del sangue. In alcuni paesi ammazzano i cristiani perché portano una croce o hanno una Bibbia, e prima di ammazzarli non gli domandano se sono anglicani, luterani, cattolici o ortodossi. Il sangue è mischiato. Per coloro che uccidono, siamo cristiani. Uniti nel sangue, anche se tra noi non riusciamo ancora a fare i passi necessari verso l'unità e forse non è ancora arrivato il tempo. L'unità è una grazia, che si deve chiedere.
Conoscevo ad Amburgo un parroco che seguiva la causa di beatificazione di un prete cattolico ghigliottinato dai nazisti perché insegnava il catechismo ai bambini. Dopo di lui, nella fila dei condannati, c'era un pastore luterano, ucciso per lo stesso motivo. Il loro sangue si è mescolato. Quel parroco mi raccontava di essere andato dal vescovo e di avergli detto: "Continuo a seguire la causa, ma di tutti e due, non solo del cattolico". Questo è l'ecumenismo del sangue. Esiste anche oggi, basta leggere i giornali. Quelli che ammazzano i cristiani non ti chiedono la carta d'identità per sapere in quale Chiesa tu sia stato battezzato. Dobbiamo prendere in considerazione questa realtà».
Nell'esortazione lei ha invitato a scelte pastorali prudenti e audaci per quanto riguarda i sacramenti. A che cosa si riferiva?
«Quando parlo di prudenza non penso a un atteggiamento paralizzante, ma a una virtù di chi governa. La prudenza è una virtù di governo. Anche l'audacia lo è. Si deve governare con audacia e con prudenza. Ho parlato del battesimo, e della comunione come cibo spirituale per andare avanti, da considerare un rimedio e non un premio. Alcuni hanno subito pensato ai sacramenti per i divorziati risposati, ma io non sono sceso in casi particolari: volevo solo indicare un principio. Dobbiamo cercare di facilitare la fede delle persone più che controllarla. L'anno scorso in Argentina avevo denunciato l'atteggiamento di alcuni preti che non battezzavano i figli delle ragazze madri. È una mentalità ammalata».
E quanto ai divorziati risposati?
«L'esclusione della comunione per i divorziati che vivono una seconda unione non è una sanzione. È bene ricordarlo. Ma non ho parlato di questo nell'esortazione».
Ne tratterà il prossimo Sinodo dei vescovi?
«La sinodalità nella Chiesa è importante: del matrimonio nel suo complesso parleremo nelle riunioni del concistoro in febbraio. Poi il tema sarà affrontato al Sinodo straordinario dell'ottobre 2014 e ancora durante il Sinodo ordinario dell'anno successivo. In queste sedi tante cose si approfondiranno e si chiariranno».
Come procede il lavoro dei suoi otto «consiglieri» per la riforma della Curia?
«Il lavoro è lungo. Chi voleva avanzare proposte o inviare idee lo ha fatto. Il cardinale Bertello ha raccolto i pareri di tutti i dicasteri vaticani. Abbiamo ricevuto suggerimenti dai vescovi di tutto il mondo. Nell'ultima riunione gli otto cardinali hanno detto che siamo arrivati al momento di avanzare proposte concrete, e nel prossimo incontro, in febbraio, mi consegneranno i loro primi suggerimenti. Io sono sempre presente agli incontri, eccetto la mattina del mercoledì per via dell'udienza. Ma non parlo, ascolto soltanto, e questo mi fa bene. Un cardinale anziano alcuni mesi fa mi ha detto: "La riforma della Curia lei l'ha già cominciata con la messa quotidiana a Santa Marta". Questo mi ha fatto pensare: la riforma inizia sempre con iniziative spirituali e pastorali prima che con cambiamenti strutturali».
Qual è il giusto rapporto fra la Chiesa e la politica?
«Il rapporto deve essere allo stesso tempo parallelo e convergente. Parallelo, perché ognuno ha la sua strada e i suoi diversi compiti. Convergente, soltanto nell'aiutare il popolo. Quando i rapporti convergono prima, senza il popolo, o infischiandosene del popolo, inizia quel connubio con il potere politico che finisce per imputridire la Chiesa: gli affari, i compromessi... Bisogna procedere paralleli, ognuno con il proprio metodo, i propri compiti, la propria vocazione. Convergenti solo nel bene comune. La politica è nobile, è una delle forme più alte di carità, come diceva Paolo VI. La sporchiamo quando la usiamo per gli affari. Anche la relazione fra Chiesa e potere politico può essere corrotta, se non converge soltanto nel bene comune».
Posso chiederle se avremo donne cardinale?
«È una battuta uscita non so da dove. Le donne nella Chiesa devono essere valorizzate, non "clericalizzate". Chi pensa alle donne cardinale soffre un po' di clericalismo».
Come procede il lavoro di pulizia allo Ior?
«Le commissioni referenti stanno lavorando bene. Moneyval ci ha dato un report buono, siamo sulla strada giusta. Sul futuro dello Ior si vedrà. Per esempio, la "banca centrale" del Vaticano sarebbe l'Apsa. Lo Ior è stato istituito per aiutare le opere di religione, missioni, le Chiese povere. Poi è diventato come è adesso».
Un anno fa poteva immaginare che il Natale 2013 lo avrebbe celebrato in San Pietro?
«Assolutamente no».
Si aspettava di essere eletto?
«Non me l'aspettavo. Non ho perso la pace mentre crescevano i voti. Sono rimasto tranquillo. E quella pace c'è ancora adesso, la considero un dono del Signore. Finito l'ultimo scrutinio, mi hanno portato al centro della Sistina e mi è stato chiesto se accettavo. Ho risposto di sì, ho detto che mi sarei chiamato Francesco. Soltanto allora mi sono allontanato. Mi hanno portato nella stanza adiacente per cambiarmi l'abito. Poi, poco prima di affacciarmi, mi sono inginocchiato a pregare per qualche minuto insieme ai cardinali Vallini e Hummes nella cappella Paolina».


Lo zucchetto del Papa


martedì 3 dicembre 2013

La riabilitazione

Merita tornare su una notizia che non ha avuto l’eco che meritava: tra venerdì e sabato scorsi Romano Prodi è stato insignito di una laurea honoris causa da una università africana, ma la cerimonia di consegna di essa e la “lectio magistralis” si sono svolte presso la Pontificia accademia delle scienze sociali; poi ha fatto visita alla Università Gregoriana, la più prestigiosa e cosmopolita università pontificia retta dai gesuiti; e infine Prodi ha tenuto una conferenza dal titolo “la svolta di papa Francesco” presso l’autorevole rivista Civiltà cattolica. Difficile non interpretare tali riconoscimenti al Professore bolognese come una sorta di riabilitazione del “cristiano adulto” oggetto di diffidenza e opposizioni ai vertici della Chiesa italiana negli anni del suo protagonismo politico.
Basti rammentare tre circostanze: 1) qualche tempo dopo la caduta del suo secondo governo, conversando con la rivista francese Esprit, Prodi confidò che proprio dalle gerarchie italiane egli aveva avuto la più strenua opposizione “politica”; 2) la grande adunata di massa denominata “family day” convocata dalla Cei al palese fine di contrastare una minimalista proposta di legge in cantiere tesa disciplinare le unioni civili (i cosiddetti “dico”); 3) l’annuncio in tv, da parte del Professore, che egli, in quanto “cattolico adulto”, avrebbe partecipato al voto nei referendum sulla legge relativa alla fecondazione assistita, nonostante la irrituale e martellante campagna astensionistica condotta dalla Cei.
Nella convinzione che spettasse ai laici, non alla gerarchia, stabilire se votare o non votare, trattandosi non di principi etici in sé ma di mezzi politici e democratici nella disponibilità dei cittadini. Una espressione, quella di “cattolico adulto”, che incredibilmente non gli fu perdonata. Quasi che essa avesse un significato presuntuoso e polemico.
Circostanza sorprendente e paradossale – davvero un segno allarmante dei tempi grami di quella stagione di vita della Chiesa italiana – se si considera che essa (“fede adulta”, “cristiano adulto”), nel dopo Concilio, era semmai additata dagli stessi pastori quale meta e traguardo della formazione cristiana comune, dentro una società che si considerava adulta e che, in effetti, lo era dal punto di vista della disponibilità dei mezzi che dilatano le opportunità di scelta e dunque le responsabilità in capo all’uomo contemporaneo.
Per inciso: è davvero singolare che proprio quegli ambienti cattolici di base e di vertice adusi alla lagna per la supposta irrilevanza politica dei cattolici siano stati i più attivi nel fare la guerra a un buon cristiano (logorandolo e concorrendo alla crisi dei suoi governi) che era asceso alla premiership grazie a un progetto e a un movimento politico, denominato Ulivo, nel quale cattolici singoli e associati erano stati attori-protagonisti dopo un tempo di decadenza e discredito per il cattolicesimo politico.
Al di là dei singoli episodi, sono abbastanza note le ragioni per le quali Prodi ha conosciuto tali opposizioni di stampo ecclesiastico. Non gli si perdonava di essere stato autore di una impresa politica – quale federatore e leader del centrosinistra nel quadro dell’incipiente bipolarismo – che sanzionava la fine di lunga tradizione dominata dall’unità politica dei cattolici.
Una impresa che, in una ottica storica e teologica, rappresentava invece un doppio, prezioso traguardo, per la democrazia italiana e per la stessa Chiesa: verso una democrazia finalmente competitiva e dell’alternanza dopo mezzo secolo di democrazia bloccata; verso una Chiesa che, alleggerita dal collateralismo con una parte politica, vedesse così esaltata la libertà e l’universalità della missione sua propria, quella della evangelizzazione di persone e comunità.
Curiosa altresì la circostanza che chi – fuor di ipocrisia, mi riferisco al cardinale Ruini – più osteggiò Prodi per il suo contributo teso al superamento dell’unità politica dei cattolici si rivelò poi lestissimo e molto disinvolto nel gestire politicamente la stagione del pluralismo e del bipolarismo.
Da un lato con una verticalizzazione ecclesiastica delle relazioni con partiti, parlamento e governo a scavalco dei laici cristiani politicamente impegnati, dall’altro con un malcelato ma evidente sostegno allo schieramento di centrodestra capeggiato da Berlusconi.
Esorcizzando l’ethos e il sistema di valori che il Cavaliere incarnava e veicolava con il suo stile di vita e con i suoi media. Una predilezione verso il cristiano comune Berlusconi a discapito del cristiano adulto Prodi che suscitava scandalo presso alcuni, ma che invece Arturo Parisi indagò attingendo alla sua competenza di fine sociologo della religione.
In sintesi: in Berlusconi, con le sue contraddizioni persino conclamate rispetto alla morale cattolica, più facilmente il cattolico medio (medio in senso statistico) poteva identificarsi e autoassolversi, premiandolo anche elettoralmente. Non così nel cattolico Prodi.
Lo si può comprendere, dal punto di vista del cristiano della domenica, decisamente indulgente con se stesso. Più sorprendente e persino sconcertante da parte di chi semmai avrebbe il compito di forgiare coscienze cristiane coerenti e mature e dovrebbe avere altresì antenne sensibili ai vettori della scristianizzazione di massa e della corrosione del costume di cui il berlusconismo è stato l’apoteosi. Non per amore di polemica, ma per fare tesoro dei propri errori sarebbe lecito attendersi un franco e onesto bilancio critico di quel lungo ventennio anche da parte dell’episcopato italiano.
La riabilitazione del cristiano Prodi è una bella soddisfazione per lui. Chi lo conosce sa che quell’avversione fu per lui, che si sente figlio della Chiesa, motivo di personale sofferenza.
Ma è una notizia buona un po’ per tutti. Ci autorizza a sperare che stia cambiando l’aria nella Chiesa di Papa Francesco. Che finalmente si stia tornando allo spirito e alla lezione del Concilio. Sia nel ripristino della cura per la distinzione tra Chiesa e comunità politica, con la relativizzazione delle appartenenze e il conseguente, legittimo pluralismo. Sia nel rispetto e persino nell’apprezzamento per l’autonomia laicale e politica dei cristiani impegnati. Sembravano valori acquisiti, ma evidentemente così non era.
Oggi possiamo rileggere brani conciliari come questo senza che alle nostre orecchie suonino come parole di un’era storica confinata nel passato: «Dai sacerdoti i laici cristiani si aspettino luce e forza spirituale, non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che a ogni nuovo problema che sorge essi possano avere pronta una soluzione concreta o che a questo li chiami la loro missione: assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero». Un monito che vale per entrambi: laici e pastori.

Franco Monaco, Europa, 3 dicembre 2013

La peggior forma di governo

  " La democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre fino ad ora sperimentate " Winston Churchill a...