domenica 23 febbraio 2014

Recondita armonia di bellezze diverse

La scorsa settimana ero abbastanza triste per il modo inconsueto e molto crudele col quale la direzione del Pd aveva sfiduciato Enrico Letta. Mi venne in mente la canzone jazz americana "Stormy Weather", tempi bui, e la citai nel mio articolo domenicale e nel titolo. Ma oggi è diverso.
Oggi, sia pure con qualche cautela, dobbiamo festeggiare l'ascesa al potere di Matteo Renzi, il rilancio in programma della crescita economica, dell'occupazione, dei giovani, il compimento della riforma elettorale, la diminuzione delle tasse, la riforma della pubblica amministrazione, la semplificazione cioè la modernizzazione dello Stato e il prolungamento della vita del governo fino al termine naturale della legislatura nell'aprile del 2018.
È lungo quest'elenco, anche solo a snocciolarne i titoli. Ricordo che Letta fu contento perché per esporre il suo programma, che la direzione del Pd neppure esaminò, aveva scritto 54 pagine. Ma qui, per illustrare quello di Renzi, ce ne vorrebbero almeno 500. Per ora non ci sono, anzi non ce n'è neppure mezza. C'è soltanto l'elenco dei titoli che abbiamo sopra elencato, c'è un doppio criterio che Renzi ha ribadito più volte venerdì nelle sue dichiarazioni successive alla nomina ricevuta dal Capo dello Stato e cioè: concretezza e trasparenza.
E c'è anche la tempistica: sei mesi per la legge elettorale, che invece fino all'altro ieri sembrava doversi collocare entro questo mese ed è stata, giustamente, agganciata alla riforma del Senato che richiede una legge costituzionale e una maggioranza comprensiva di Berlusconi.
Gli altri obiettivi invece saranno "avviati" e in buona parte effettuati entro quattro mesi, uno al mese cominciando dal lavoro e dall'occupazione. No, non state sognando, la tempistica indicata da Renzi è proprio questa: un mese per risolvere quei problemi (quasi secolari). Quattro problemi, quattro mesi e il pranzo è servito. E noi dovremmo festeggiare? Un governo di otto donne e otto uomini, il premier più giovane della storia italiana a partire dal 1861. Un altro esempio di grande gioventù per la presa del potere (ancora molto più giovane di lui) fu quello di Lorenzo il Magnifico, anche lui di Firenze, ma erano altri tempi. Anche Napoleone arrivò al vertice più o meno sui trent'anni e non parliamo di Alessandro Magno. Ma erano appunto tempi diversi.
Tra i moderni in Italia, abbiamo un campione; perciò in alto i calici. Personalmente purtroppo ho il divieto medico di bere alcol perciò - il presidente del Consiglio mi scuserà - brinderò alla salute sua e del governo da lui formato con una Coca light. Spero ne sarà ugualmente contento.
Ci sono però in più due punti che vorrei precisare prima di analizzare la situazione attuale del nostro Paese. E sono questi. Il direttore della Stampa, Mario Calabresi, riscontra nel nuovo governo e in Renzi che lo presiede una leggerezza che gli ricorda il Calvino delle Lezioni americane e ne trae ottimi auspici. Non so quanti siano i membri del nuovo governo che abbiano letto le Lezioni americane.
L'amico Calabresi, che formula quell'auspicio, certamente le conosce ma ha dimenticato di dire che il personaggio che Calvino indica come la personificazione della leggerezza che lui intende era - pensate un po' - Guido Cavalcanti. Francamente non pare che Renzi abbia qualche affinità con Cavalcanti. Ezio Mauro nel suo editoriale di ieri giudica Renzi un po' bullo. È chiaro che con Cavalcanti non ha nulla a che fare.
La seconda affermazione si rifà a una dichiarazione del neo-premier subito dopo l'investitura ricevuta al Quirinale. Ha detto testualmente: «Il mio governo è il più di sinistra degli ultimi 30 anni ». Dice così ma non sembrerebbe. Personalmente, se dovessi dare un attributo, direi che è un governo pop. Forse la sinistra è diventata pop. Non so se sia un progresso. Speriamo di sì.
Una novità c'è sicuramente: questo non è più un governo del presidente della Repubblica, come accadde con Monti e con Letta. Questo nel bene e nel male è il governo di Renzi e del suo partito. Napolitano l'ha nominato e non poteva far altro visto che il partito di Renzi ha la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato dove la maggioranza assoluta viene raggiunta con i voti di Alfano e dei pochi senatori centristi.
Ma c'è un'altra maggioranza della medesima importanza sulla quale né la legge elettorale né le riforme costituzionali potrebbero esser fatte ed è quella stipulata, con "piena sintonia", con Forza Italia di Silvio Berlusconi, il quale ha manifestato ampia adesione all'incarico che Renzi ha ricevuto.
Al punto che ieri il Cavaliere avrebbe espresso apprezzamento per la nomina della Guidi allo Sviluppo economico e comunicazioni, vantandosi di avere un ministro pur stando all'opposizione. C'è un problema per il premier e non è da poco. Anche perché tutto è confermato da una cena avvenuta lunedì a casa di Berlusconi, con la Guidi e suo padre tra gli invitati.
Ci sono dunque due maggioranze che per ora sostengono il nuovo governo, le quali però - è bene averlo presente - non vanno d'accordo tra loro perché Berlusconi, se solo potesse, vorrebbe distruggere Alfano e reciprocamente. Renzi e il suo partito sono perciò il perno che usa a proprio beneficio questa dicotomia. Durerà fino al 2018 o si sfascerà prima? Molto dipenderà anche dall'esito delle elezioni europee ma soprattutto dai risultati che nel frattempo il nuovo governo otterrà in materia economica.
Napolitano non aveva altre soluzioni, ma alcuni elementi della situazione dipendono pur sempre da lui. Per esempio lo scioglimento delle Camere; per esempio l'approvazione preventiva dei decreti e la promulgazione delle leggi o il loro rinvio al Parlamento nei casi di dubbia costituzionalità.
Insomma ha ripreso un ruolo non più determinato dall'emergenza, anche se l'emergenza c'è ancora ma con caratteristiche diverse.
Con intelligenza e coraggio del quale è giusto dargli atto, Renzi ha detto che i rischi d'un insuccesso ci sono ma bisognava correrli ed ha aggiunto che lui e il suo partito ci mettono la faccia; se sbaglieranno pagheranno. Si è però scordato di aggiungere che se sbaglieranno pagherà anche il Paese e sarà esattamente il Paese a pagare il prezzo più alto.
In quel deprecabile caso, che dobbiamo tutti cercar di scongiurare, ciascuno operando responsabilmente nel campo che gli è proprio, quali sono le alternative? Solo il populismo dilagante?
Quello è certamente il pericolo da scongiurare, ma ce n'è un altro che a mio avviso è più concreto: se Renzi dovesse fallire noi saremo commissariati dall'Europa con tutte le conseguenze del caso; ma avremo anche contribuito col nostro fallimento a danneggiare fortemente l'Europa nella sua evoluzione.
Il nostro continente diventerebbe irrilevante nell'economia globale con tutte le conseguenze del caso. La faccia di Renzi è a rischio e questo è il suo coraggio, ma se solo fosse questo ce ne potremmo tranquillamente infischiare. Il rischio è in realtà terribilmente più elevato ed è opportuno esserne consapevoli.

C'è un punto che resta assolutamente oscuro: fino a cinque o sei giorni prima del pronunciamento della direzione del Pd che abbatté Letta e votò per il nuovo governo, Renzi aveva confermato che mai e poi mai avrebbe messo fuorigioco il governo esistente, almeno fino alla conclusione del semestre italiano di presidenza europea. Non sosteneva che quel semestre fosse di grande importanza (anche Berlusconi la pensa così, ma Renzi ora su questo punto ha completamente cambiato idea) ma lui comunque non sarebbe intervenuto e si sarebbe unicamente occupato del partito, cosa che era di grande importanza e ci aveva preso gusto a portarla avanti.
Proprio in quei giorni, cioè un paio di settimane fa, a me capitò di partecipare nella trasmissione di Lilli Gruber ad un dibattito con Delrio che non conoscevo ma sapevo bene chi fosse.
Delrio, su domanda della Gruber e anche mia, ribadì che Renzi non pensava affatto a sostituire Letta e che lui era dello stesso parere e l'aveva consigliato a mantener ferma quella posizione. Ricordo che Delrio era ministro del governo Letta.
Accadde invece che a pochi giorni di distanza anche Delrio abbia cambiato radicalmente opinione e sia stato tra i più fidati dei luogotenenti del leader a spingerlo verso la presa del potere a Palazzo Chigi. In quei giorni Delrio era in predicato per assumere la guida dell'Economia, del quale non risulta abbia particolare esperienza.
Come si spiega questo improvviso cambiamento, talmente sorprendente che, quando avvenne e ancora fino a venerdì scorso, Renzi non aveva affatto formato la squadra di governo e si aggirava tra i nomi di Montezemolo, Baricco, Farinetti, Guerra, Boeri, Moretti ed altri che alla fine sono risultati indisponibili? Che cosa ha spinto Renzi e Delrio a "metter la faccia" loro e quella dell'intero Paese?
Io non so dare alcuna risposta e neanche Renzi la dà. Dice che la situazione era divenuta insostenibile. Perché? E perché non se n'era accorto nei quattro o cinque giorni prima della direzione del partito? Mi sorge un dubbio: forse aveva capito che la situazione congiunturale stava migliorando e che a metà agosto si sarebbe consolidata la fine della recessione con i primi effetti positivi e con il relativo successo di Letta. Questa prospettiva avrebbe messo lui in una posizione secondaria, perciò non c'era tempo da perdere.
Capisco che questa ipotesi è maliziosa, ma altre non ne vedo e voglio ricordare che Renzi aveva riferito anche a Napolitano le sue intenzioni di non insidiare il governo esistente. Questo rinnova la domanda: perché il neo-premier ha cambiato idea?
Il problema che adesso si pone (e dovrebbe esser risolto entro un mese stando alla tempistica renziana) è, per dirla in breve, un abbattimento sostanziale del cuneo fiscale o di qualche provvedimento che gli somigli, la ripresa dei pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione verso aziende creditrici, la ripresa degli investimenti; il tutto insieme ad una diminuzione del debito pubblico e della pressione fiscale sulle fasce povere della popolazione.
Sono gli stessi temi reclamati da Squinzi e dalla Confindustria i quali, però, alle domande rivoltegli, non hanno mai indicato le coperture che rispettino il limite del 3 per cento del deficit, ricordato da Visco a Renzi nel colloquio di tre giorni fa come asticella invalicabile.
Da calcoli fatti da attendibili osservatori le cifre necessarie oscillano tra i 50 e i 70 miliardi. Ma quand'anche ci si limitasse allo strettissimo necessario facendo passare degli straccetti di carne per bistecche alla fiorentina, ce ne vorrebbero come minimo 40. Da prendere attraverso la spending review.
Tagliando gran parte delle inutili sovvenzioni ad imprese del tutto improduttive se ne tirano fuori una trentina e un'altra decina tassando le rendite finanziare. Ma per realizzarle se ne parla alla fine dell'anno perché la bacchetta magica Renzi e Delrio non ce l'hanno.
Avevano detto un mese. Ben che vada ce ne vorranno otto di mesi anche se si aggiungesse - come pure sarebbe necessario - un'imposta edilizia con andamento decisamente progressivo per far fronte agli esodati e ai lavorati delle imprese messe a secco dai tagli della spending review. Il compito spetta al ministro del Tesoro Padoan, il solo ministro che a bocca storta Renzi ha dovuto accettare dal fermo suggerimento di Napolitano.
Purtroppo lo stormy weather permane. Al più ci si può consolare con la "Recondita armonia di bellezze diverse" cantata da Mario, il protagonista della Tosca, come apertura dell'opera. Era molto ardito quel fantasioso pittore che amava la bruna, sognava la bionda e intanto cospirava con i repubblicani per buttare giù il Papa. Alla fine fu fucilato e gettato nel Tevere. Segno che troppe cose insieme non si possono fare.

fonte: Eugenio Scalfari, La Repubblica, 23 febbraio 2014



martedì 11 febbraio 2014

«Un vero shock strutturale positivo»

Nel mezzo della tempesta economica e della crisi dell’euro dell’estate del 2011, mentre il capo dello Stato stava mettendo in stand-by Mario Monti per un eventuale incarico alla presidenza del Consiglio, l’allora amministratore delegato di Banca Intesa, Corrado Passera, stava stilando un documento segreto di 196 pagine per Giorgio Napolitano.
Sono giorni terribili. Lo spread tra titoli di Stato italiani e quelli tedeschi passa dal primo giugno al 2 luglio da 173 punti a 301. Il 5 agosto arriverà la celebre lettera della Banca centrale europea che chiede esplicitamente interventi per stabilizzare finanziariamente il Paese. Il 20 settembre ecco il declassamento di Standard & Poor’s. 

In quegli stessi mesi Passera propone a Napolitano un piano per il rilancio dell’economia, che comprende «un vero shock strutturale positivo», intitolandolo: «Un Grande Piano di Rilancio».
Monti, nella sua video intervista per il libro Ammazziamo il Gattopardo , ha confermato che conosceva bene il documento del banchiere e che «una volta con il presidente Napolitano mi è capitato, tra lui e me, di fare riferimento a questo lavoro di Passera». 

Nella prima bozza di agosto, come nella quarta versione di novembre in nostro possesso, saltano fuori svariati obiettivi, compreso quello di raggiungere una crescita di almeno il 2% all’anno nel medio periodo; portare i conti pubblici in pareggio già entro il 2012 e riportare il debito pubblico intorno al 100% del Prodotto interno lordo (Pil) entro tre anni.
C’era, sempre nella quarta bozza, la reintroduzione dell’Ici sulla prima casa, l’aumento dell’Iva a 23% entro settembre 2012, e un piano per abbattere il debito anche grazie alla presunta raccolta di 85 miliardi di euro con una tassa patrimoniale del 2% su tutta la ricchezza immobiliare esclusa la prima casa, i depositi bancari e i titoli di Stato.

La recessione ha fatto sì che nel 2012 il Pil si sia contratto del 2,4%. Il rapporto deficit-Pil invece di essere in pareggio è arrivato, sempre nel 2012, al 3%. Il debito-Pil è salito invece a fine 2012 a 127% (oggi è al 133%). L’Imu sulla prima casa è stata introdotta nel dicembre 2011. L’Iva è stata aumentata da 20 a 21% nel dicembre 2011, mentre oggi è al 22%. Il piano della patrimoniale non è stato mai adottato.
Viene fuori dal documento un senso di grande fretta, comprensibile dal punto di vista di chi lo scriveva, salvo il fatto che c’era ancora in sella un governo, anche se con una maggioranza litigiosa e rancorosa.
«Nelle ultime settimane si è perso un grande patrimonio di credibilità che occorre ricostruire al più presto», si legge nel documento. «Per rimettere in carreggiata l’Italia serve un Grande Piano di Rilancio per la crescita e la riduzione del debito con un’ampiezza circa dieci volte maggiore di quella recentemente introdotta e con molta maggiore enfasi sulla crescita sostenibile. Non proporla agli italiani, adesso e con sincerità, costruendo il vasto consenso necessario attraverso la condivisione di benefici e sacrifici, potrebbe, in tempi brevissimi, mettere a serio rischio la nostra economia, e forse, la nostra stessa democrazia». 

Bisognerà aspettare qualche mese perché Passera venga poi incaricato nel governo Monti di guidare il ministero dello Sviluppo economico. Ma in quell’estate si stava già lavorando per quanto sarebbe accaduto il 12 novembre del 2011.

Il Governo Letta in sintesi










Nasceva 289 giorni fa il governo guidato da Enrico Letta. Con la disoccupazione al 12,2 per cento (e quella giovanile al 38,6), il giorno dell’insediamento il “lavoro” era stato definita dal premier la principale priorità dell’esecutivo: «Bisogna ridurre le restrizioni ai contratti a termine, aiuteremo le imprese ad assumere giovani a tempo indeterminato in una politica generale di riduzione del costo del lavoro.»

289 giorni dopo, i risultati del governo sono magri: i dati sulla produzione industriale pubblicati dall’Istat mostrano che il rallentamento dell’economia non conosce soluzioni di continuità. A dicembre la produzione è calata dello 0,9 per cento, giù del 3 per cento dall’anno scorso. Confindustria ha calcolato che le tasse in Italia continuano a essere alte: al 42,3 per cento sul lavoro e al 65,8 per cento sugli utili d’impresa.

Sull’occupazione va persino peggio, con 12,7 persone senza lavoro su 100 (+0,5 punti percentuali dall’inizio del governo) e la disoccupazione giovanile al 41,6 per cento (+3 punti da maggio). E se lo spread tra Btp e Bund continua a calare, lo spread tra la disoccupazione tedesca e quella italiana ha raggiunto il livello più alto dagli ultimi decenni.

Di fronte a questa emergenza, il governo Letta si è trovato spesso bloccato negli arzigogoli burocratici: secondo l’Ufficio per il programma di governo - creato per monitorare l’attività dell’esecutivo - al 30 novembre 2013, dei 311 decreti attuativi richiesti dai 22 provvedimenti del governo Letta, 272 sono in attesa di attuazione. Una percentuale di realizzazione bassa, che riflette una maggioranza debole.

Dopo l’uscita di Forza italia lo scorso ottobre Letta dispone infatti di 368 deputati (dei 315 richiesti alla Camera) e 167 senatori (161 richiesti), senza contare la recente uscita dell’Udc di Casini e il terremoto dentro Scelta Civica. Inoltre, il travaglio interno al Partito democratico si rovescia sempre di più in Parlamento. Sulle 21 votazioni finali svoltesi al Senato dopo l’abbandono di Forza Italia sono 8 (il 38 per cento) le votazioni in cui alcuni senatori della maggioranza di governo hanno votato contro il proprio gruppo. Questa quota scende di poco (al 35 per cento) analizzando le votazioni finali passate alla Camera dei deputati. Tra i parlamentari “ribelli” quelli del Pd la fanno da padrone: sono il 75 per cento tra tutti i “ribelli” alla Camera e il 62 per cento al Senato.

A causare turbolenze i parlamentari cuperliani, che contano per il 60 per cento di tutti i “ribelli” del Pd, seguiti da renziani (25 per cento) e civatiani (15 per cento). Il dato è una conseguenza naturale del peso relativo del Pd nella maggioranza ma l’alta percentuale di cuperliani - in minoranza nei gruppi - mostrano che né Letta né il segretario del Pd, Matteo Renzi, sembrano riuscire a controllare completamente i propri parlamentari. E la situazione si fa anche peggiore nelle commissioni e durante le votazioni non definitive.

Lo spazio di manovra del governo è insomma ristretto, e la situazione è reso ulteriormente complicata dall’irrigidimento della disciplina di bilancio prevista dal cosiddetto Fiscal Compact, che prevede l’abbattimento del rapporto debito-Pil (oggi al 127 per cento) come principale obiettivo fiscale da parte dei governi fino al raggiungimento del 60 per cento in vent’anni - un obiettivo che implicherebbe per l’Italia risparmi tra i 40 e 50 miliardi annuali. Difficile abbattere il peso delle tasse sul lavoro e contemporaneamente aderire al fiscal compact.

“La ripresa è dietro l’angolo”, affermano da mesi i membri del governo e non importa quante volte questa frase venga ripetuta: rimane sempre, al fondo, la sensazione che si tratti di speranze più che di realtà.
- See more at: http://www.pagina99.it/news/politica/3766/Stallo-per-stallo--ecco-i.html#sthash.2EV2OWz0.dpuf
fonte: Pagina 99
Nasceva 289 giorni fa il governo guidato da Enrico Letta. Con la disoccupazione al 12,2 per cento (e quella giovanile al 38,6), il giorno dell’insediamento il “lavoro” era stato definita dal premier la principale priorità dell’esecutivo: «Bisogna ridurre le restrizioni ai contratti a termine, aiuteremo le imprese ad assumere giovani a tempo indeterminato in una politica generale di riduzione del costo del lavoro.»

289 giorni dopo, i risultati del governo sono magri: i dati sulla produzione industriale pubblicati dall’Istat mostrano che il rallentamento dell’economia non conosce soluzioni di continuità. A dicembre la produzione è calata dello 0,9 per cento, giù del 3 per cento dall’anno scorso. Confindustria ha calcolato che le tasse in Italia continuano a essere alte: al 42,3 per cento sul lavoro e al 65,8 per cento sugli utili d’impresa.

Sull’occupazione va persino peggio, con 12,7 persone senza lavoro su 100 (+0,5 punti percentuali dall’inizio del governo) e la disoccupazione giovanile al 41,6 per cento (+3 punti da maggio). E se lo spread tra Btp e Bund continua a calare, lo spread tra la disoccupazione tedesca e quella italiana ha raggiunto il livello più alto dagli ultimi decenni.

Di fronte a questa emergenza, il governo Letta si è trovato spesso bloccato negli arzigogoli burocratici: secondo l’Ufficio per il programma di governo - creato per monitorare l’attività dell’esecutivo - al 30 novembre 2013, dei 311 decreti attuativi richiesti dai 22 provvedimenti del governo Letta, 272 sono in attesa di attuazione. Una percentuale di realizzazione bassa, che riflette una maggioranza debole.

Dopo l’uscita di Forza italia lo scorso ottobre Letta dispone infatti di 368 deputati (dei 315 richiesti alla Camera) e 167 senatori (161 richiesti), senza contare la recente uscita dell’Udc di Casini e il terremoto dentro Scelta Civica. Inoltre, il travaglio interno al Partito democratico si rovescia sempre di più in Parlamento. Sulle 21 votazioni finali svoltesi al Senato dopo l’abbandono di Forza Italia sono 8 (il 38 per cento) le votazioni in cui alcuni senatori della maggioranza di governo hanno votato contro il proprio gruppo. Questa quota scende di poco (al 35 per cento) analizzando le votazioni finali passate alla Camera dei deputati. Tra i parlamentari “ribelli” quelli del Pd la fanno da padrone: sono il 75 per cento tra tutti i “ribelli” alla Camera e il 62 per cento al Senato.

A causare turbolenze i parlamentari cuperliani, che contano per il 60 per cento di tutti i “ribelli” del Pd, seguiti da renziani (25 per cento) e civatiani (15 per cento). Il dato è una conseguenza naturale del peso relativo del Pd nella maggioranza ma l’alta percentuale di cuperliani - in minoranza nei gruppi - mostrano che né Letta né il segretario del Pd, Matteo Renzi, sembrano riuscire a controllare completamente i propri parlamentari. E la situazione si fa anche peggiore nelle commissioni e durante le votazioni non definitive.

Lo spazio di manovra del governo è insomma ristretto, e la situazione è reso ulteriormente complicata dall’irrigidimento della disciplina di bilancio prevista dal cosiddetto Fiscal Compact, che prevede l’abbattimento del rapporto debito-Pil (oggi al 127 per cento) come principale obiettivo fiscale da parte dei governi fino al raggiungimento del 60 per cento in vent’anni - un obiettivo che implicherebbe per l’Italia risparmi tra i 40 e 50 miliardi annuali. Difficile abbattere il peso delle tasse sul lavoro e contemporaneamente aderire al fiscal compact.

“La ripresa è dietro l’angolo”, affermano da mesi i membri del governo e non importa quante volte questa frase venga ripetuta: rimane sempre, al fondo, la sensazione che si tratti di speranze più che di realtà.
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Nasceva 289 giorni fa il governo guidato da Enrico Letta. Con la disoccupazione al 12,2 per cento (e quella giovanile al 38,6), il giorno dell’insediamento il “lavoro” era stato definita dal premier la principale priorità dell’esecutivo: «Bisogna ridurre le restrizioni ai contratti a termine, aiuteremo le imprese ad assumere giovani a tempo indeterminato in una politica generale di riduzione del costo del lavoro.»

289 giorni dopo, i risultati del governo sono magri: i dati sulla produzione industriale pubblicati dall’Istat mostrano che il rallentamento dell’economia non conosce soluzioni di continuità. A dicembre la produzione è calata dello 0,9 per cento, giù del 3 per cento dall’anno scorso. Confindustria ha calcolato che le tasse in Italia continuano a essere alte: al 42,3 per cento sul lavoro e al 65,8 per cento sugli utili d’impresa.

Sull’occupazione va persino peggio, con 12,7 persone senza lavoro su 100 (+0,5 punti percentuali dall’inizio del governo) e la disoccupazione giovanile al 41,6 per cento (+3 punti da maggio). E se lo spread tra Btp e Bund continua a calare, lo spread tra la disoccupazione tedesca e quella italiana ha raggiunto il livello più alto dagli ultimi decenni.

Di fronte a questa emergenza, il governo Letta si è trovato spesso bloccato negli arzigogoli burocratici: secondo l’Ufficio per il programma di governo - creato per monitorare l’attività dell’esecutivo - al 30 novembre 2013, dei 311 decreti attuativi richiesti dai 22 provvedimenti del governo Letta, 272 sono in attesa di attuazione. Una percentuale di realizzazione bassa, che riflette una maggioranza debole.

Dopo l’uscita di Forza italia lo scorso ottobre Letta dispone infatti di 368 deputati (dei 315 richiesti alla Camera) e 167 senatori (161 richiesti), senza contare la recente uscita dell’Udc di Casini e il terremoto dentro Scelta Civica. Inoltre, il travaglio interno al Partito democratico si rovescia sempre di più in Parlamento. Sulle 21 votazioni finali svoltesi al Senato dopo l’abbandono di Forza Italia sono 8 (il 38 per cento) le votazioni in cui alcuni senatori della maggioranza di governo hanno votato contro il proprio gruppo. Questa quota scende di poco (al 35 per cento) analizzando le votazioni finali passate alla Camera dei deputati. Tra i parlamentari “ribelli” quelli del Pd la fanno da padrone: sono il 75 per cento tra tutti i “ribelli” alla Camera e il 62 per cento al Senato.

A causare turbolenze i parlamentari cuperliani, che contano per il 60 per cento di tutti i “ribelli” del Pd, seguiti da renziani (25 per cento) e civatiani (15 per cento). Il dato è una conseguenza naturale del peso relativo del Pd nella maggioranza ma l’alta percentuale di cuperliani - in minoranza nei gruppi - mostrano che né Letta né il segretario del Pd, Matteo Renzi, sembrano riuscire a controllare completamente i propri parlamentari. E la situazione si fa anche peggiore nelle commissioni e durante le votazioni non definitive.

Lo spazio di manovra del governo è insomma ristretto, e la situazione è reso ulteriormente complicata dall’irrigidimento della disciplina di bilancio prevista dal cosiddetto Fiscal Compact, che prevede l’abbattimento del rapporto debito-Pil (oggi al 127 per cento) come principale obiettivo fiscale da parte dei governi fino al raggiungimento del 60 per cento in vent’anni - un obiettivo che implicherebbe per l’Italia risparmi tra i 40 e 50 miliardi annuali. Difficile abbattere il peso delle tasse sul lavoro e contemporaneamente aderire al fiscal compact.

“La ripresa è dietro l’angolo”, affermano da mesi i membri del governo e non importa quante volte questa frase venga ripetuta: rimane sempre, al fondo, la sensazione che si tratti di speranze più che di realtà.
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Attacco al Presidente


domenica 9 febbraio 2014

Puntare il dito

Così dice il Signore:
«Non consiste forse [il digiuno che voglio]
nel dividere il pane con l’affamato,
nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto,
nel vestire uno che vedi nudo,
senza trascurare i tuoi parenti?

Allora la tua luce sorgerà come l’aurora,
la tua ferita si rimarginerà presto.
Davanti a te camminerà la tua giustizia,
la gloria del Signore ti seguirà.
Allora invocherai e il Signore ti risponderà,
implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”.
Se toglierai di mezzo a te l’oppressione,
il puntare il dito e il parlare empio,
se aprirai il tuo cuore all’affamato,
se sazierai l’afflitto di cuore,

allora brillerà fra le tenebre la tua luce,
la tua tenebra sarà come il meriggio».


Is 58,7-10

La peggior forma di governo

  " La democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre fino ad ora sperimentate " Winston Churchill a...