martedì 29 aprile 2014

Il calendario di Renzi

Matteo Renzi aveva messo a punto un calendario ambizioso di interventi radicali in tutti i gangli vitali della vita pubblica. Il ritmo arrembante con cui era stato preannunciato un programma rigoroso e vincolante di grandi riforme ogni mese sembrava aver conquistato cittadini, mass media, osservatori scettici. Tuttavia la realtà odierna sconfessa, o quanto meno ridimensiona, la forza dirompente delle solenni promesse del premier. Mentre la minoranza del Pd si organizza. 
RIFORME ISTITUZIONALI NELLA PALUDE
Preannunciata tra la fine di febbraio e le Idi di marzo, la nuova legge elettorale, approvata in modo rutilante dalla Camera dei deputati, è arenata tra le mura di Palazzo Madama. Complice il timore di un inusitato ballottaggio per il governo tra Partito democratico e Movimento Cinque Stelle e lo stallo sulla revisione del Senato, il meccanismo di voto vedrà la luce – salvo colpi di scena – prima della pausa estiva.
CERCASI JOBS ACT
Marzo avrebbe dovuto rappresentare uno spartiacque storico per le regole sul lavoro, le relazioni industriali, l’innovazione degli ammortizzatori sociali. Nulla di tutto ciò è stato previsto nell’unico provvedimento messo in cantiere dall’esecutivo e dal responsabile del Welfare Giuliano Poletti. La portata del decreto legge che porta il suo nome, frutto di un logorante braccio di ferro tra Nuovo Centro-destra, Scelta Civica, riformisti del PD da una parte e sinistra del Nazareno e CGIL dall’altra, è limitata a modifiche dei contratti a termine, delle regole sull’apprendistato e sulla formazione pubblica.
Il cuore della riforma è rinviato a un disegno di legge delega i cui tempi appaiono incerti. A quel punto si conosceranno i pilastri del Job Act che avrebbe dovuto rivoluzionare e rilanciare il tessuto produttivo-occupazionale del nostro paese. Per ora restano evanescenti i confini del nuovo Codice del lavoro, del contratto unico flessibile e indeterminato con garanzie crescenti nel tempo, di una rete moderna di ammortizzatori sociali orientati al Welfare to work.
TEMPI QUASI SCADUTI PER LA NUOVA BUROCRAZIA
Un architrave del programma annunciato dal Presidente del Consiglio prevedeva il rinnovamento strutturale entro aprile della Pubblica amministrazione. Il calendario potrebbe venire rispettato in “zona Cesarini”, visto che in settimana il governo approverà il testo base di riforma messo a punto dal ministro competente Marianna Madia.
L’obiettivo di conferire efficienza alla macchina statale passa per una strategia di tagli e assunzioni mirate. Una mescolanza di mobilità obbligatoria e sblocco del turn over che dovrebbe tradursi in una nuova entrata per ogni cinque uscite dal servizio. Permettendo così una riduzione non traumatica di 85mila dipendenti pubblici prevista dal progetto di spending review redatto da Carlo Cottarelli.
L’ALLENTAMENTO BLANDO DEL PATTO DI STABILITA’ INTERNO
Sempre sul piano locale emerge una clamorosa contraddizione tra impegni assunti dal premier e concrete realizzazioni. Un punto che riguarda l’allentamento del Patto di stabilità interno, cavallo di battaglia dell’ex primo cittadino di Firenze. Perché, come rivela il Sole 24 Ore, nel provvedimento fiscale promosso da Palazzo Chigi i progetti di riqualificazione, ammodernamento, messa in sicurezza degli edifici scolastici potranno beneficiare di 544 milioni di euro.
NUMERI IN CONTRADDIZIONE
Cifra ben diversa dai 3,5 miliardi “pronti per essere impiegati in tempi brevi”, preannunciati da Renzi nel corso della sua prima conferenza stampa da capo dell’esecutivo. Il testo del decreto legge governativo in materia tributaria è molto chiaro. All’articolo 48, riferendosi agli investimenti realizzati dalle amministrazioni comunali per l’edilizia educativa, il provvedimento prevede un’esclusione dai vincoli di bilancio di 244 milioni di euro per gli anni 2014 e 2015. A tali risorse vanno aggiunti 300 milioni destinati allo stesso scopo dal Fondo comunitario per lo sviluppo e la coesione relativo al periodo 2014-2020.
A QUANTO AMMONTANO LE RISORSE PER LA SCUOLA?
Ma le somme stanziate dai programmi dell’Unione Europea per la ristrutturazione delle scuola non erano pari a 3 miliardi? Guardando a questa cifra il premier aveva promesso la creazione di una “cabina di regia” per velocizzare le pratiche edilizie e consentire a sindaci e presidenti di provincia di “intervenire sui luoghi ove vivono e studiano i nostri figli”.
CHI BENEFICIA DEL BONUS FISCALE
Altro tema cruciale relativo al provvedimento tributario concerne le fasce economico-sociali che riceveranno il bonus fiscale sui redditi IRPEF. La platea per ora coinvolge esclusivamente le retribuzioni da lavoro dipendente medio-basso. Ripetere, come fa Renzi da giorni, che il beneficio verrà allargato a pensionati, persone prive di stipendio, e partite IVA, richiede un’accurata analisi sulle coperture di bilancio. E un necessario confronto con il capo del Tesoro. L’unica certezza su una misura di significativa portata finanziaria è il rinvio alla legge di stabilità di fine anno.
LE RAGIONI DEL DIVARIO TRA PAROLE E ATTI
Una spiegazione plausibile della notevole differenza, in taluni casi del fossato, tra impegni assunti dal premier e realizzazioni dell’esecutivo viene offerta da Oscar Giannino. A giudizio dell’analista economico, Renzi è chiamato a concretizzare oggi tutti gli interventi riformatori che il ceto politico italiano degli ultimi venti e trent’anni ha preferito rinviare, abbandonare, annacquare. Una responsabilità storica che ha provocato un ritardo enorme per l’Italia rispetto alle democrazie industriali avanzate. E che l’attuale capo del governo è costretto a colmare, in una fase di recessione economica, in modo frettoloso e superficiale.
Ulteriore motivazione, scrive l’editorialista del Messaggero, va ricercata nella mancanza di un genuino e convinto supporto del Partito democratico verso gli obiettivi prospettati dal suo segretario. La cui leadership non è mai stata accettata dal “ventre profondo” del Nazareno, bensì digerita temporaneamente per opportunismo.
È una parte rilevante di quell’universo, ancorata alla conservazione dello status quo, che il premier dovrà sfidare a viso aperto per tenere fede all’originario e ambizioso calendario di riforme. Soltanto così potrà ambire, come Tony Blair e Gerard Schroeder, a imprimere una traccia profonda nella politica e nella sinistra italiana.

fonte: Edoardo Petti,  Formiche.net

domenica 20 aprile 2014

Scalfari 90

I dati anagrafici sono la sola cosa che non possiamo travisare: "Sono nato il 6 aprile del 1924". Oggi compie novant'anni. Ragguardevole età che Eugenio Scalfari soppesa con affetto e disincanto: "Non c'è modo di chiedersi quanto tempo ci resta. Bisogna vivere come se fosse sempre l'ultimo giorno pieno", aggiunge. Osservo le mani venate di azzurro e l'ampia poltrona che avvolge il corpo magro. La mansarda dove sostiamo, all'ultimo piano di un attico non distante dal Pantheon, è carica di libri. È un pomeriggio romano. Lieve. Che si smorza nel sole barocco: "Vorrei che tu vedessi la terrazza. Le città osservate dall'alto sono come gli amori visti da lontano, hanno meno difetti". Mi viene da pensare che in quelle parole si nasconda un lato romantico. Una moltitudine di emozioni. Mi sorprende l'energia. E la pienezza dei giorni di cui parla: "Vivono di una densità diversa rispetto al passato e sono trafitti da pensieri ulteriori", precisa, con un velo di sorriso.


Quali pensieri?
"Intorno alle condizioni del tuo corpo. Lentezza, fragilità e quella sensazione che il tempo non lavori più a tuo favore".

Ma non necessariamente contro.
"No, infatti. Siamo animali simbolici e desideranti: costruiamo mondi, relazioni. Viviamo di immaginazione e di futuro. Ma c'è sempre un limite: un segno ineludibile. Un calcio in faccia alla realtà. Ho letto, da qualche parte, che l'esistenza della morte ci obbliga a non essere perfetti".

Hai mai teso alla perfezione?

"È un'ideale. O almeno così per lungo tempo l'ho pensata. La verità è che danziamo dentro il caos".

Cercando un senso e un ordine?
"Cercando, certo. Ma dubito che la perfezione sia di questo mondo".

Le tue incursioni nel cristianesimo e nella fede farebbero pensare a un bisogno di chiarezza ulteriore.

"Fa parte del bagaglio di un buon laico interrogarsi sulle grandi questioni che sono teologiche ma anche filosofiche. Resto un non credente".

E questo papa?
"Questo papa cosa?".

Così diverso.
"È la Chiesa che ti sorprende".

Monarchia seria.
"Le istituzioni vere, forti, collaudate sanno forse reagire meglio alla crisi dei tempi".

Cosa ti sorprende?
"L'assoluta singolarità. Sembra un uomo estraneo a ogni gesto ieratico".

Ed è un bene?
"La forma è importante. Ma lui ha ridato sostanza al gesto. Con semplicità. Qualche tempo fa ero ricoverato per una polmonite. Verso la fine della mia degenza mi annunciano una sua telefonata: c'è il papa in linea, mi dice l'infermiera. Non so come l'abbia saputo. Prendo la chiamata. Mi chiede: come sta? Rispondo: molto meglio. Lei non ha risposto, replica. Avverte dolori? Ha la tosse? Come si sente? No, no, sto bene, dico io, apprensivo. Allora auguri. E mette giù il telefono".

Sbrigativo ma efficace.
"È la naturalezza della sua parola e del comportamento che mi colpiscono. Insieme alla dolcezza e alla partecipazione all'altro".

È stato così con qualche altro papa?
"Non ne ho conosciuti molti. Ma li ho criticati quasi tutti. In particolare Pio XII. Ora che mi ci fai pensare ricordo un'udienza pubblica cui fui ammesso con mia madre. Avevo quattordici anni. Poco dopo ci saremmo trasferiti da Roma a Sanremo".

Che anno era?

"Il 1938. Mio padre fu chiamato a dirigere il Casinò della città. Era avvocato. Ma gli piacevano le donne e un po' le carte. Io fui iscritto al liceo Cassini. Arrivando dal Mamiani temevo che non mi sarei adattato facilmente".

Alludi a un certo provincialismo.
"I piccoli centri sono così. Mi avevano soprannominato "Napoli". Agli occhi della classe incarnavo il meridionale. Tra l'altro non ero mai stato a Napoli".

Una forma di razzismo?
"Blando, goliardico. Ma anche fastidioso. Smisero alla fine del primo trimestre. Nel frattempo si era formato un gruppo di studenti animato dagli stessi interessi culturali. Nella classe c'era Italo Calvino. Diventammo compagni di banco. Entrambi ci mettemmo a capo di questo gruppo. Ne sollecitammo gli aspetti più originali, le curiosità più riposte, le letture meno convenzionali. Italo disse che tutto quello che ci stava capitando accadeva nel nome di Atena, la dea dell'intelligenza e della Polis".

Il mondo greco contro quello romano vagheggiato dal fascismo?
"Eravamo studenti e non c'era un contrasto così netto. Ma ci sembrava di aver costruito una cultura parallela e autonoma rispetto a quella sviluppata dal fascismo".

Ma tu eri fascista?
"Convinto, e quando nell'inverno del 1943 il vicesegretario del partito Carlo Sforza mi cacciò dai Guf caddi, per alcuni giorni, in una specie di depressione".

Non riesco a immaginarti affranto.
"Era accaduto tutto in un attimo. Sforza mi contestò violentemente alcuni articoli che avevo scritto per Roma fascista. Mi strappò le mostrine e mentre mi sollevava da terra tenendomi per il bavero della divisa gli guardavo atterrito i polsi delle mani: tanto grandi da sembrare le cosce di un uomo. Ad ogni modo fu così che cominciai a rendermi conto che un'altra società era possibile. E che gli anni del liceo e le amicizie strette allora non erano passati invano".

Come spieghi quel mondo parallelo di interessi e letture che poco avevano a che fare con il fascismo?

"Negli ultimi anni in cui ho diretto Repubblica e in quelli successivi ho molto intensificato la mia ricerca letteraria, filosofica e religiosa. All'inizio qualcuno si sorprendeva di questi miei interessi in un certo senso lontani dal giornalismo. Dimenticando così che le mie prime letture furono ampiamente letterarie e filosofiche. Ricordo la mia prima lettura al liceo: Il discorso sul metodo di Cartesio. La chiarezza espositiva del testo, unita all'idea che il pensiero ha bisogno di regole, mi formò nel profondo. Tanto è vero che il mio approdo successivo all'Illuminismo non sarebbe stato così convinto senza Cartesio".

In questi anni il tuo entusiasmo per il secolo dei Lumi si è un po' raffreddato. Hai spinto in primo piano figure come Montaigne che relativizza la ragione, o come Nietzsche che la distrugge. Sei giunto alla conclusione che il mondo non era solo progresso e felicità?
"Sai, non è che gli illuministi, a parte qualche incallito materialista, fossero tutti beatamente rivolti alle sorti progressive della ragione. Diderot era ben conscio delle trasformazioni e della crisi del proprio secolo. E lo stesso Voltaire non fu da meno. Per non parlare della sensibilità protoromantica di Rousseau".

Insomma non fu solo il secolo dell'ottimismo?
"È così. Poi, sai, nell'intraprendere il lungo viaggio nella modernità, ero consapevole che il quadro mentale che si delinea da Montaigne in poi è mosso, frastagliato, insidioso e perfino contraddittorio. Accennavi a Nietzsche. Non mi sento nicciano. Ma so anche che se vuoi occuparti di filosofia - ossia di una delle forme supreme dei modi del pensare - non puoi prescinderne".

In che senso?
"Con lui si conclude la lunga epoca della modernità. Non è un fatto trascurabile. Mi colpiva che Nietzsche - nei primi giorni della sua follia, quando gli amici lo andavano a trovare a Torino - avesse accanto al letto gli Essais di Montaigne. Cioè la riflessione con cui ha inizio il viaggio nella modernità".

Perché sostieni che quel viaggio si conclude con Nietzsche?
"Perché dopo di lui non si può più pensare e scrivere di filosofia in modo sistematico. Non esiste più un centro da cui si irradia tutto il resto. La perdita della centralità dell'uomo comporta l'infinita moltiplicazione dei centri".

Quindi ciascuno diventa centrale a se stesso?
"Gottfried Benn - che fu un ufficiale medico ma soprattutto un saggista di talento - fa un'osservazione interessante: ho capito perché Nietzsche scrive per aforismi. Chi non vede più connessione può procedere solo per episodi. E noi, aggiungo io, presi singolarmente siamo degli episodi. Io sono il centro della mia periferia che è, a sua volta, la mia circonferenza. Nietzsche comprese che i grandi sistemi filosofici erano tramontati".

Tutto questo non crea smarrimento?
"Cambia il quadro mentale, si modificano i punti di riferimento. Non puoi più oggi metterti a scrivere Il discorso sul metodo come fece Cartesio. Sarebbe ridicolo".

Devi mettere in gioco te stesso?
"Devi farlo: ogni riflessione che riguarda il mondo ti interpella in prima persona. E non solo perché Freud ha scoperto l'inconscio, ma perché la vita - la tua vita e quella degli altri - si è letteralmente scomposta. Lo capì benissimo Rilke quando scrisse il primo grande romanzo dell'ultima modernità: I quaderni di Malte Laurids Brigge".

Un romanzo sovrastato dall'idea della morte e del ricordo.

"Fra tutti gli animali l'uomo è il solo che conosce l'invecchiamento e scoprendo la morte fa di tutto per allontanarla, attraverso il ricordo".

Lasciare di sé una traccia?
"Per questo leggiamo Omero da tremila anni e Shakespeare da cinquecento. Ma anche il ciabattino del vicolo accanto vuole fare delle belle scarpe, non solo per lasciar prosperare la sua bottega ma perché così forse sarà ricordato".

È un trauma così forte essere dimenticati?

"In qualunque forma si presenti non amiamo l'abbandono. L'oblio esiste. E la traccia serve a combatterlo, a rinviarlo. Quello che abbiamo fatto di importante desideriamo che resti".

Sei molto narciso?
"L'ho anche scritto".

E vanitoso?
"È un sentimento che mi infastidisce. I nostri tempi sono dominati dalla vanità, come trastullo infantile. Ma essa è anche la forma più ridicola dell'ambizione. Che invece, entro certi limiti, è un tratto sano e importante del carattere".

Importante per il successo?

"Più che per il successo tout court, per il modo in cui lo persegui e lo ottieni. E soprattutto in vista di cosa".

Il potere ha bisogno della saggezza?

"Senza un po' di saggezza si finisce dritti nella tragedia scespiriana".

E il tuo potere come lo giudichi?
"Noto in me una forte componente "paterna". Capisco che la definizione è insolita. Ma credo mi corrisponda. Del resto, è il tratto del narciso: consapevole che solo amando gli altri può essere a sua volta amato".

La tua vita è stata governata dal "due"?
"Che cosa intendi?".

È un numero che ricorre spesso: due sono i giornali che hai fondato e diretto, due figlie, due mogli, due le grandi esperienze culturali che hai condotto. Mi fermo qui.

"Molte delle cose che elenchi sono legate al caso. Però è vero, sento che un "doppio" c'è in me. Mi piace immaginarlo legato ai desideri. Essi misurano la mia vitalità".

Ma anche le tue contraddizioni?
"Indubbiamente. Si può desiderare il bene del prossimo e avere cupidigia di potere, di femmine, di ricchezza. Non è il mio caso per fortuna".

E i tuoi desideri come sono?
"I desideri sono la sola cosa che la vecchiaia non ridimensiona. Per quanto mi riguarda sono stato un uomo plurimo e i miei desideri notevoli e spesso contraddittori. Ho dovuto conciliarli tra dolori e felicità".

Il desiderio allontana la morte?

"Per il fatto stesso di impegnare il futuro l'allontana. Ma anche quello che realizzi ti distanzia da essa".

È la società con i suoi meccanismi celebrativi?

"La festa e i riconoscimenti appartengono alla nostra antropologia. Perfino i miei novant'anni non sfuggono a questo impianto".

Non temi la monumentalizzazione?
"Dici l'eccesso di retorica?".

Sì.
"Certe cose mi imbarazzano e la pomposità, francamente, non mi piace. Ma non vorrei neppure che tutto si risolva in una malinconica ballata. Se è vero che uno dei modi per esorcizzare la morte è, come ti dicevo, nella traccia che lasci, questa la trovi anche quando si celebra un anno tondo e importante come i novanta".

Ti fa paura la morte?
"No, temo la sofferenza. Ma so che la morte è il nostro orizzonte. Ogni vera storia umana dovrebbe cominciare da qui, dalla fine".


fonte: La Repubblica

L'autobiografia dell'Elefantino

Dal Foglio del 13 maggio 2003:

Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.
Vive a Mosca dal ’58 al ’61, dove il padre è corrispondente dell’Unità. Tornerà a Mosca nel 1990, a regime in dissoluzione (lui ama i regime change) e otto anni dopo essere uscito dall’apparato comunista, al seguito di una moglie americana che lavora nel cinema (una settimana di turismo). Mai stato in un paese socialista dopo il ’61 nonostante dieci anni di carriera come funzionario del Pci. Le vacanze a Capri o a Parigi, invece che da Ceausescu, sono una specie di blasone.
Ritorno da Mosca, 1961. Scuola pubblica. Primi amori. Educazione sentimentale piuttosto occidentale. Ma dalla storia di Garibaldi che gli raccontava il papà, versione allegramente frontista (Fronte vince, vota Garibaldi: cose del 1948), il fanciullo trae forte spinta ideologica comunista-nazionale. Maturità classica. Primo viaggio a New York al seguito del fratello, aiuto regista di Luca Ronconi nell’Orlando Furioso in trasferta (è il novembre del 1970, “quando morì Charles de Gaulle” è il ricordo dell’adolescente che conosce tutto Dylan a memoria e ama i politici forti).
Iscrizione all’Università di Roma, facoltà di Filosofia, una bolgia ideologica. Polemiche da destra con il compianto maestro Lucio Colletti, ancora un po’ trotzkista e sostenitore della democrazia dei Soviet. Il bamboccio impertinente ripete in polemica col maestro la lezione casalinga di Togliatti sulla “via italiana al socialismo” (la madre era una collaboratrice del tremendo ma intelligente capo del Pci e poi redattore capo della rivista ideologica del partito, Rinascita). Ne nascerà lunga e onorata amicizia con il maestro Colletti, che presto si convertirà con coraggio alla teoria della crisi del marxismo e diventerà un ex comunista liberale anticomunista un po’ pazzo, come l’allievo, ma tosto.
Primi lavori di militante alla Stampa e propaganda con Gian Carlo Pajetta, che poi lo invia a Torino, dove arriva il 5 novembre del 1973, per “andare alla scuola della classe operaia e sottrarsi alle insidie della curia romana” (parole di Pajetta). Resterà a Torino fino al settembre del 1982, gli esami di Filosofia sono fermi a undici su venti. Ricoprirà a Torino questi incarichi. Giornalista senza bollini dell’ordine e senza praticantato presso la rivista Nuovasocietà, ideata da Diego Novelli e poi a lungo diretta e rimessa all’onor del mondo da Saverio Vertone (nel ’75 Novelli diventa sindaco della città). Amicizia con Novelli, Vertone (vera amicizia, che continua nonostante le sue follie politiche oneste e deliranti), e Adalberto Minucci, supercapofunzionario. Altri incarichi.
Capo dell’organizzazione politica del Pci alla Fiat Mirafiori (che porterà a duemila iscritti, perché è un buon attivista), poi responsabile della sezione problemi dello Stato (lotta al terrorismo), della sezione culturale e del comitato cittadino (organizzazione del partito in città). Il soggetto si caratterizza, tra l’altro, per una spiccata attitudine a parlare senza eufemismi, a criticare l’inviolabile tradizione operaista torinese e la politica della Camera del lavoro che porterà gli operai torinesi a essere bastonati spietatamente da Cesare Romiti e dalla famiglia Agnelli nel novembre del 1980. Coordina riunioni politiche (ha imparato il torinese, che parla fluentemente) nella saletta del comitato federale di Torino, sotto una grande riproduzione di Guernica, con Luciano Violante e Gian Carlo Caselli: il tema è la lotta al terrorismo, Ferrara ci crede sul serio, è esperto di estremismi contigui al terrorismo, si muove in una logica emergenzialista e non garantista, assume con molti altri seri rischi personali per via della sua visibilità (pesa già centotrenta chili). Un suo articolo su Repubblica dell’epoca, dopo il varo del questionario anti terrorismo, si intitola “Diritto di delazione”. Sempre eccessivo, ma è con la delazione che le Br vengono sconfitte.
Un anno prima della sconfitta alla Fiat, nel 1979, i sindacati Fiom torinesi combattono duramente la decisione di licenziare 61 dipendenti collegati al terrorismo, che miete vittime quotidianamente in città, incendia le fabbriche e si collega con gli estremisti nel vivaio di Mirafiori, dove cortei sbandati di operai pestano i capi e li costringono a marciare alla testa della folla con la bandiera rossa. La linea di Ferrara contro un sindacato che già allora segue Dario Fo e altri pazzerelloni girotondini antemarcia è: “Siete matti, queste cose fanno vergogna e sono anche la premessa di una sconfitta del comunismo che piace a me” (si chiamava all’epoca eurocomunismo, si estrinsecava nella rivolta berlingueriana contro il partito comunista sovietico che lavorava con Cossutta per farlo fuori, e precipitava nell’assunto secondo cui i comunisti dovevano andare al governo, sacrificando ogni forma di estremismo e avviandosi verso una socialdemocrazia europea con altre forze politiche popolari, in primis la Dc, nel famoso “compromesso storico”, diciamo così bipartisan). Per affermare questa linea nel bastione operaista torinese Ferrara fa volentieri compromessi politici: appoggia per qualche tempo la parola d’ordine dell’autoriduzione delle bollette elettriche, e quando alla Fiat tutto precipita con i licenziamenti, si dà da fare ai picchetti della fabbrica e fa la sua parte lanciando uova (vecchio vizio beffardo ed estremista) agli impiegati che vogliono entrare.
Nel 1980, ma dopo aver consumato la sconfitta con i suoi compagni e aver salvato “con le mani” Pierre Carniti da un linciaggio (vecchio vizio), Ferrara si dimette spontaneamente dalla segreteria della federazione e da capo del comitato cittadino, dopo aver partecipato a due vittorie elettorali del Pci ed essere stato eletto (tredicesimo arrivato, secondo i piani, consigliere comunale). Il comunismo non gli piace più tanto. Quello di Breznev gli fa un po’ schifo (avendo egli dato del “fascista” a Breznev in un editoriale di Nuovasocietà, un incazzatissimo Pajetta gli dice, in una stanza del mitico Hotel Ligure: “Queste cose per favore le scrivi alla morosa, non su un giornale del partito”). La sua intenzione dichiarata è tornare a Roma e finire gli studi universitari interrotti. Novelli lo recupera abbisciandolo per il posto di capogruppo in Comune, perché F. può sempre servire (non è un servo?), e l’accordo (scandaloso per l’epoca) è che il funzionario, come chiede, si mette a metà tempo e metà stipendio, fa il capogruppo e riprende gli studi. Cosa che avviene sotto il magistero di Gennaro Sasso, un liberale e un grande storico delle idee e filosofo teoretico.
Si arriva al dunque nel settembre dell’82. Il Ferrara a mezzo tempo e mezzo stipendio, che ha ripreso gli studi, si arrabbia contro il maestro Luciano Berio e l’assessore alla cultura Giorgio Balmas. I due avevano organizzato un ridicolo “concerto per la pace” in Piazza San Carlo a Torino, con ridicole poesie di Edoardo Sanguineti che piovevano dal cielo. Solo che quella sera si seppe che qualche migliaio di palestinesi, nei campi profughi di Sabra e Chatila, erano stati ammazzati dai cristiani sotto i riflettori di Tsahal o comunque con la sua connivenza. A Ferrara, che non ha mai avuto posizioni filopalestinesi alla Mario Capanna e soci (perché è un cacciatore professionale di eresie estremiste) sembra tuttavia normale dedicare il concerto per la pace “ai martiri di Sabra e Chatila”. Di fronte al rifiuto del grande musicista e dell’assessore gnomo, s’incazza. Arringa in francese l’orchestra francese saltando sul palco a pochi minuti dall’inizio del concerto (vecchi amori, vecchi odi). Un impiegatuccio insolente dell’assessorato spettegola su di lui e lo insulta, la cosa gli viene riferita, Ferrara scende dal palco e lo prende a schiaffi. Crisi politica. Tutta la Torino perbene è contro Ferrara, con il Maestro Berio e con Balmas (anche il compianto Massimo Mila, che però è per la pena di morte). Ferrara disprezza moralmente Diego Novelli per il modo in cui si è comportato nell’occasione, cioè facendo lo gnorri, e lo critica sui giornali mentre fa le valigie (abitava in una casa di ex ferrovieri a Borgo San Paolo, di proprietà di un gagliardo redattore sportivo dell’Unità, Nello Pacifico) per tornarsene a Roma e lasciare quello strano Pci dove ormai era sempre in estrema minoranza: battaglia per il voto segreto e per le correnti, critiche dure all’Unione Sovietica, animosità verso gli azionisti torinesi bobbieschi che si stavano impadronendo dell’anima del partito e del sindacato mentre i loro figli un po’ violentucci e contigui al terrorismo scorrazzavano per la città, sola battaglia vinta quella per la cittadinanza onoraria di Torino all’odiato Lech Walesa.
Se ne va dapprincipio in silenzio e nel dolore, poiché sa che sta consumando un “tradimento” si appresta a farlo con onestà senza strepito. Ma un amico, Mario Missiroli, gli dice: “Ma scusa, non sei mica un ladro, perché te ne devi andare zitto zitto?”. Ferrara gli dà retta e da allora ascolta (quasi) sempre i consigli degli amici. Manda a quel paese il Pci di Torino, con una dichiarazione pubblicata sull’Espresso di Livio Zanetti, e se ne va con le sue quattro carabattole da una città che ha amato. Colletti gli dirà: “La tua uscita è indecifrabile”. Mughini gli dirà: “Ma perché sei uscito da sinistra, tu che sei di destra?”. Ferrara non pensa che la vera moralità sia di destra o di sinistra, e si scandalizza della domanda (spiega il suo scandalo indecifrabile in un articolo un po’ letterario su Nuovi Argomenti, la rivista di Moravia).
F. prende sette milioni di liquidazione per dieci anni di lavoro (niente male, ci sono funzionari del Pci che non hanno preso niente), si installa a Roma prima a casa dei suoi, che gli vogliono bene (il papà, in un libro confessione scritto con Mughini, dirà del bamboccio: “Se ha tradito, ha tradito qualcosa che doveva essere tradito”) ma giustamente lo trovano ingombrante, poi in un piccolo appartamento di trentacinque metri quadrati con balcone in Trastevere, che ha comprato sua madre e che si può vedere dalle finestre della odierna redazione romana del Foglio. Va all’istituto di Filosofia quando può, passa lunghi periodi in campagna, studia Machiavelli e Spinoza, e scopre un maestro di filosofia che si chiama Leo Strauss, che ora è detto anticipatore dei neoconservatori (ma è una lectio giornalistica piuttosto abbreviata). Lasciata la tessera del Pci, prende quella del Goethe Institut, impara il tedesco per leggere i testi giovanili di Strauss (soggiorni a Friburgo, in casa di Frau Weeck come pensionante, e a Berlino-Schoenberg in una casa di sessantottini la cui ospite si chiamava Morlind Tuemler). Ferrara è sempre accompagnato dal suo fedele cane trovatello, di nome Lupo. Mangia come un lupo. Si innamora intellettualmente della questione ebraica, che è lo sfondo del pensiero di Strauss.
Erano anni in cui fioriva il mercato del “dissenso comunista”. Ferrara non partecipa a questo mercato, e quando Novelli manda in galera i socialisti e anche i suoi più cari amici e compagni per le stecche ai partiti (e non solo ai partiti) nel Comune di Torino (1983), non accetta di fare il delatore e si sottrae alle richieste giornalistiche che gli vengono rivolte nella casa di campagna dei suoi (nonostante il vecchio “diritto alla delazione”). Chissà perché, preferisce Spinoza e l’etica della banda. C’è Scalfari nel suo destino. Il giustizialismo, e gli sgarri da capobanda del sindaco che aveva paura della competizione politica da parte dei socialisti modernizzatori, non gli piacciono. Ferrara guarda la tv e quando Berlinguer dice: “Tengo Novelli in palmo di mano, perché ha denunciato tutto alla magistratura”, trasecola. La mutazione genetica del Pci è cominciata. Sta diventando un partito ridicolo: mezzo leninista (“Vivente e valida la lezione di Lenin”, disse il secondo Berlinguer, quello che aveva abbandonato per paura riformismo e governo tutti e due in una volta) e mezzo giustizialista (la “questione morale”, la “diversità antropologica dei comunisti”). Poi Berlinguer negherà a Novelli il posto in direzione, altro che “palmo di mano”, e la Iotti gli dirà che avrebbe dovuto saper “portare la croce” invece di fare il bullo sui finanziamenti illegali ai partiti (compreso il suo) di cui ovviamente sapeva tutto, preferendogli il pragmatico “uomo Fiat” Piero Fassino. Novelli si arrabbierà molto e diventerà “retino” al seguito di Leoluca Orlando e F. non sa quante altre cazzate ha fatto nel frattempo, perché le persone che disprezza non le segue. Ferrara gioisce, come sempre quando i giustizieri vengono per così dire giustiziati (caso Di Pietro, molti anni dopo).
Come vive Ferrara in questi due anni (’83-’84)? Studia, traduce per campare la vita (un bel librone ordinato da Vittorio Sereni sulla storia della misurazione del tempo, di David Landes, tradotto in coppia con Vertone), e un giorno incontra a una fila per il “passi” per il centro storico Pietro Favari, amico di Rita Cirio, che era diventata caposervizio culturale dell’Espresso. Aveva, come tutti i nuovi capi, bisogno di nuovi collaboratori per reinventare il servizio. Pietro chiede: “Che fai?”. Risposta: “Mi arrangio”. “Ti faccio chiamare da Rita?”, dice. “Grazie”, dice Ferrara. Ecco come entra nel giornalismo “professionale” il Ferrara: con una raccomandazione di Pietro Favari, che è un insigne semiologo e un critico teatrale, autore della nostra rubrica “Attori”. Insomma, F. si era messo in coda. Poi all’Espresso Ferrara ritrova Paolo Mieli e, con l’amico comune Pigi Battista e sotto la supervisione del “primario” (chiamavamo così il vecchio espressista Mieli), cura i libretti per i trent’anni dell’Espresso, lavorando nell’archivio del giornale e facendo una sterminata quantità di fotocopie. Impara a conoscere bene l’avversario lavorando nei suoi archivi. Una spia? Sì, una spia.
Lavoretti. Poi arriva Alberto Ronchey. Sono gli anni in cui l’establishment è interessato al destino politico di Bettino Craxi, che nel frattempo è diventato a calci e spintoni presidente del Consiglio. Alberto, persona a F. carissima, è un vecchio amico di famiglia, e lo onora di attenzioni per il suo lavoro, pur non essendo un tipo che dà troppa confidenza. Al Corriere della Sera è arrivato come direttore Piero Ostellino, un liberale ma molto, molto diverso da Piero Ottone, che appoggia Craxi e sarà poi congedato per questo (e perché il Corriere perse il primato di vendite nella battaglia con Scalfari e Repubblica). Ronchey manda Saverio Vertone e F. da Ostellino. Lettera contratto per qualche articolo, pagamento a cottimo. F. diventa ufficialmente un “convertito”. E’ risentito verso il Pci e la sua linea politica. Si vuole vendicare. Non nasconde il suo risentimento. Ma è una vendetta politico-intellettuale che dura ormai da vent’anni e più, non una faida da ex. Claudio Magris lo attacca e gli dà di “Maddalena pentita” sul Corriere. Lui risponde per le rime. C’è un’aria di ostracismo intorno agli ex comunisti. Il Pci è diventato il primo partito italiano alle elezioni europee, dopo la morte tragica di Enrico Berlinguer in un comizio anticraxiano che emoziona il popolo. E l’italiano è attento a chi vince e a chi perde. Craxi sembra già bollito. F. scrive di Amendola, suo maestro nella destra comunista, e delle sue battaglie contro il terrorismo e contro la scala mobile e la demagogia sindacale (Craxi ha appena infilzato la Cgil e salvato l’economia tagliando la scala mobile). I comunisti odiano F. quasi come Craxi (si parva licet), nessuno pensa che sia un venduto per ché tutti sanno come stanno le cose, ma molti lo odiano a tal punto da suggerirlo o da dirlo (e molti però lo rispettano, ciò che basta a F.). Scalfari e i filocomunisti sono felici di trattare a pesci in faccia gli ex, e lo fanno ogni volta che possono. Ma F. non porge mai l’altra guancia.
Arriviamo al 1985. Gli ex di Lotta continua fanno un giornale con i soldi di Martelli (chiedo scusa per la citazione). F. li ama e li odia, li ha combattuti aspramente quando facevano le loro cattive campagne contro Calabresi insieme con Scalfari, con Eco e con Vattimo (scusate la citazione), ma riconosce che il gesto di sciogliere Lc senza infamie (1976) e di appartarsi è stato magnifico, utile nella battaglia contro la violenza e per la verità su quel gran troiaio liberatorio ma anche pericoloso che fu il ’68. Giampaolo Pansa va da F. e lo intervista: l’ostracizzato gli risponde, gli dice che Craxi è in grado di guidare una sinistra socialdemocratica seria, che il Pci sbaglia tutto, e che Fassino “dà ordini come un caporale e obbedisce come un soldato semplice” (battuta cattiva, ma che ripeterebbe anche ora). Scandalo. Repubblica stampa il tutto a piena pagina con il titolo (malizioso?): “Giuliano il Convertito sulla via di Bettino”. Craxi chiama F. a Palazzo Chigi il giorno stesso, telefonata dell’indimenticabile Serenella Carloni. Lo aveva incontrato di striscio nel camerino di un teatro anni prima, perché amico di famiglia, per comuni radici milanesi, di sua cognata Adriana Asti. Niente più. F., come la sventurata, rispose. Va a Palazzo e Craxi gli dice: “Sono qui a battermi contro i serpenti con un esercito di Franceschiello, mi dai una mano? Vorresti fare il capolista a Torino dei socialisti?”.
Novelli era caduto perché il diavolo fa le pentole
ma non i coperchi, nuove elezioni a Torino tre anni dopo la sua uscita dal partito. F. risponde a Craxi: “Caro Bettino, una sfida è una sfida, ma che io torni a Torino alla testa dei socialisti non è una sfida, è una provocazione. Meglio di no”. “D’accordo, dice Bettino, e che altro possiamo fare?”. F. gli dice che sta nascendo il giornale degli ex Lc, Reporter (i simpatici colleghi di Repubblica lo chiamavano Revolver, sempre raffinati), e che gli piacerebbe avere un praticantato e lavorare per un giornale, perché a forza di collaborazioni qui si rimediava poco cibo e niente pensione (aveva trentatré anni, ed era previdente). Dice Craxi che va bene e che ne parlasse con Martelli (scuse per la…). Il giorno dopo il serpente senza sonagli lo chiama: “Dobbiamo avere un banco di lavoro comune, tu stai con me e con Craxi…”, dice, e già a F. gli girano le palle. Poi aggiunge: “E se tu facessi il presidente del club dei club?”. F. subodora la bufala e insiste: “Veramente con Craxi si era parlato di Reporter”. “Ah, va bene”, sibila il piccolo cobra de’ noantri. Così l’Editore lo assume a Reporter, Carlo Panella vicedirettore lo chiama e gli fissa lo stipendio (buono, due milioni al mese). Il giornale stava per uscire, Deaglio gli diede l’incarico di fare il cronista politico del giornale, Ostellino gli impose lo pseudonimo generico di Piero Dall’Ora perché sennò gli avrebbero impedito di continuare a collaborare al Corriere. Lavorò lì per un anno (perché Reporter costava troppo e durò solo un annetto). Ma che anno. Era l’85, l’anno del referendum sulla scala mobile e di Sigonella. Si occupò molto di Craxi e dei suoi nemici, il nostro F., e poco dell’Editore. Di qui il risentimento, ma sporco, che ha portato l’Editore a mentire per la gola e per ignobile frustrazione in una recente lettera al Foglio. Ma che ci può fare F. se gli piace più il caviale del succedaneo?

Nell’85 dunque a Ferrara succedono un paio di cose: diventa un leale craxiano e un praticante giornalista (insomma un venduto alla tenera età di trentatré anni), argomenta in pubblico scrivendo le sue tesi alle quali è tanto affezionato che lì è rimasto vent’anni dopo, ed è preso da passione divorante per gli ex Lc e per Adriano Sofri. E’ il sogno di una comunità che ha molto sbagliato ma si mantiene unita senza omertà e senza complicità per buone ragioni e intorno a una linea di intervento nella realtà italiana su cui, salvo grosse differenze, il grassone col cane e gli ex Lc a quel punto degli anni Ottanta concordano (con Sofri all’ingrosso gli capita di concordare ancora sull’essenza dei problemi, per comune sventura di quelli che detestano l’uno e l’altro). Nessuno come i traditori è alla ricerca di un Ersatz, di un sostituto della lealtà e della comunità perduta.
Poi Lanfranco Vaccari, tutt’altro che craxiano e direttore dell’Europeo della Rizzoli, gli offre di fare l’editorialista, ciò che farà finché Alberto Statera, anche lui credo un non craxiano, lo soffierà al concorrente per Epoca (questione di soldi). Pare che il ciccione se la cavasse, come cronista e opinionista. Succede. E il fatto di avere la connection con Craxi, certo, lo aiutava. Aiutava lui solo, per carità. E nessuno è mai stato aiutato come lui nella politica italiana. Ma un poco F. si aiutava anche da solo. O almeno, è comprensibile che lui la pensi così.
E questa è la prima puntata di un curriculum abbastanza dettagliato scritto per il piacere dei lettori più giovani. Infatti, a forza di dire la verità ai mozzorecchi giustizialisti, e di sputtanarli, loro tentano di sputtanare l’elefante che il ciccione è diventato, e inventano balle. Le precisazioni continueranno, sempre che non annoino. Segnatevelo. Siamo al 1985. C’è ancora tanto tempo da spiegare. Come dice Paolo Franchi, il passato ce lo dobbiamo raccontare tutto.
Per un anno circa, tra la fine del 1985 e la fine del 1986, tra i tanti lavoretti fatti da F. c’è anche quello di informatore prezzolato della Cia. F. ha già spiegato ieri che nella sua bulimia passionale aveva bisogno di una nuova comunità, e che l’aveva trovata in una relazione professionale, civile e politica con gli ex di Lotta continua che facevano Reporter. Ma una comunità e un leader (Craxi era ormai entrato stabilmente nella sua vita, dopo l’outing) non gli bastavano, al bulimico, e l’ex comunista si procurò un altro Stato guida. Da eretico divenne, come nel rendiconto sublime di Isaac Deutscher, un rinnegato. O un piccolo “lupo mannaro”, così la Pravda definiva i sessantottardi come Marcuse e Cohn Bendit a cui dava di agenti della Cia venti anni prima. F. ricorda ancora gli incontri, nella stamberga di Trastevere con il giovane sveglio e simpaticissimo agente americano, una cara persona che non vede da quasi vent’anni e di cui serba un magnifico ricordo (il cui nome, naturalmente, F. non farebbe non si dica a richiesta ma nemmeno, come si dice quando si è spavaldi, sotto tortura). Qualcuno aveva corrotto F. e F. si lasciò corrompere senza troppi problemi. E che faceva questo hijo de puta? Ammazzava la gente con l’ombrello avvelenato? Trafugava documenti sulla sicurezza dello Stato approfittando della sua amicizia con Craxi? Bè, purtroppo F. non era così importante. Non era the quiet italian, non viveva in un romanzo di Greene. Si limitava a “spiegare”, cosa che ha fatto tutta la vita, dagli operai torinesi ai riveriti telespettatori. Era l’anno di Sigonella, gli americani erano avidi di sapere chi cavolo fosse questo omaccione che gli aveva mandato i carabinieri contro in una base Usa, erano interessati a capire la sua logica politica. E F. si profondeva in dettagli, analisi, interpretazioni: dalla parte di Craxi, dicendogli quanto era fico e quanto era occidentale.
Dettagli molto apprezzati. Una specie di Radio Londra dall’interno del paese più complicato del mondo. Il frisson, il brivido, c’era già a far quattro chiacchiere con l’amico americano, ma tutto cambiò, in meglio, quando cominciarono a offrire qualche dollaro, poca cosa perché mi spiegò, l’amiko, che la legge Gramm-Rundmann aveva tagliato i fondi della Cia. I dollari erano avvolti in una busta giallina, fantastica, del peso giusto. E perdere l’innocenza era meraviglioso. Qualche conversazione avveniva al Pincio, tra i riverberi della più bella luce del mondo, vicino all’orologio ad acqua, e il passaggio di mano della busta aveva qualcosa di erotico, alludeva alla colpa come nell’adulterio perfetto. Nella politica italiana, buste mai: viste tante, prese nessuna. Non piaceva a F. quell’onesto lavoro dei funzionari di partito. Era un suo difetto (detto senza l’ombra dell’ironia). E non essendo ricattabile, era amato dai compagni che sapevano il fatto loro ma trattato come un alieno, perché in politica non è la capacità di ricatto che fa le carriere ma la disponibilità ad essere ricattati. L’innocenza, si diceva. In fondo poi, per tutta la vita, F. non ha fatto che cercare di capire che cosa sia l’innocenza e quanta vita ci voglia per perderla senza rinnegare un elemento spurio di onestà che negli uomini, per il fatto di essere uomini, deve starsene appartato, riservato, sennò si diventa sciaguratamente persone perbene.
La faccenda spionistica finì alla fine del 1986, complice la televisione. F. teneva su invito di Antonio Ghirelli, che era direttore del Tg2 e gli dava di Falstaff, a F., una rubrichina notturna di politica in cui spiegava Craxi, dalla sua parte, e Andreotti e De Mita e la solita Repubblica, che combatteva apertamente, nella disperazione di Biagione Agnes, rimestando con grazia, sì con molta grazia, nei labirinti avvelenati della prima Repubblica al suo apogeo. Ma se la scrittura è compatibile con la loscaggine, diverso è per la tv. F. la tv la capiva, per così dire, nel profondo della sua coscienza intima. E l’amava come strumento di lotta politica aperta, un altro Ersatz, non era possibile stringere mani di fan e avere quel tipo di riscontro personale, che la parola scritta non conosce, e contemporaneamente continuare con gli incontri al Pincio. Non era possibile per lui. Così disse: basta. L’amico americano era molto dispiaciuto, tra l’altro cambiava l’interlocutore perché lui se ne rientrava a Langley per altre destinazioni, e tutto venne più facile. Insistettero un po’, molto garbatamente, e poi tutto tacque. Molti anni dopo, ai tempi dell’Usa Day dopo la tragedia, ma anche prima in ogni contatto con loro, gli amerikani, F. si domandava: ma lo sanno o non lo sanno che dieci anni fa ero io a confezionargli le schede della politica italiana? E da qualche sguardo birichino, così, nelle more di un cocktail, gli sembrava che sapessero quel che ufficialmente si saprà solo dopo l’apertura degli archivi. Chissà quando.
A proposito di televisione. Dopo la rubrichina, che era già un successone ma per quattro, cinquecentomila spettatori notturni, venne il botto. F. fu chiamato da Angelo Guglielmi, che era un intellettuale dell’avanguardia letteraria (gruppo ’63) e il capo della terza rete, sì, quella “dei comunisti”. Il serpente a sonagli scriveva ieri con il veleno della sua lingua biforcuta, su un giornale anch’esso ogni tanto privo di sonagli, che ha raccomandato F. anche per la Rai, bestiale bugiardo per la gola e per la frustrazione che non è altro. Invece le cose andarono così, furono “i comunisti” a fare riccastro e reuccio dello schermo il panzone. Guglielmi era un eterodosso, infatti l’Ulivo così liberal la prima cosa che fece quando prese il potere fu di ammazzarlo, televisivamente parlando, e metterlo in pensione. L’eterodosso, poi caro amico sempre rispettato, per una trasmissione azzeccata, con una faccia e un ventre riconoscibili, avrebbe fatto carte false, tale la sua passione per il linguaggio televisivo che per un esperimento ben riuscito avrebbe venduto madre, padre e tutti i parenti. Figuriamoci se si sarebbe fermato davanti al problema di dare un’occasione a un ex comunista. E così nacque Linea rovente, un programma in cui F. indossava la toga (eh, eh: la toga, avete letto bene) e “processava” Verdiglione, l’amato Pannella, un ministro socialdemocratico colpito dalle solite accuse, e tanti altri. Da Tonino e dai suoi cari F. non aveva niente da imparare. Naturalmente quello era un gioco giustizialista, molto barocco e ben gestito dal suo inventore, il vecchio e caro a F. Lio Beghin, un supercattolico veneto che la tv ce l’aveva nel sangue. E da Anna Amendola, una generosa e geniale capostruttura della Rai, calabrese permalosa e comunista, che poi l’azienda non seppe più usare come avrebbe dovuto, deludendola a buon pro di qualche smaniosa o smanioso dei soliti. Era un gioco, ma a Craxi, dicevano a F. i suoi cortigiani, gli rodeva il fegato. Aveva la vista lunga, l’amato amico di F., ormai semplicemente Bettino, e quella toga in tv gli sembrava un cattivo presagio. “Sembra una cosa alla Pecchioli”, disse una volta a F. (il compianto Ugo Pecchioli era il ministro dell’Interno del vecchio Pci, un torinese di ferro che avrebbe fatto qualsiasi cosa per sbattere in galera i nemici del partito).
Dopo un sedici, diciassette puntate,
F. fu assediato dagli Intini, dai Manca eccetera, che erano la pattuglia in battaglia televisiva nel duello tra Craxi e il vecchio regime che poi seppellirà il Psi con le sue malìe giustizialiste e le sue bugie e le sue monetine. F. doveva passare alla seconda rete, lì c’era ancora più pubblico, dicevano, tutti a sua disposizione. F., che aveva lavorato pagato un tanto a puntata, le prime assai poco ma le seconde il doppio (nel frattempo F. si era sposato con un’americana meravigliosa e pazza esattamente come lui, che sapeva come si trattano i contratti quando si diventa star o vitelli grassi), accettò di andare su Raidue per il resto della stagione, in cambio di una bella cifra tonda (un miliardo l’anno di allora) e inventò con Lino Jannuzzi, nel frattempo arrivato nel suo inimitabile stile come consigliori del consigliori, un fantastico programma, il Testimone, che faceva ascolti ultramilionari sbattendo in faccia al pubblico qualche esagerazione dietrologica sul caso Moro, tutta la verità sul caso di Tortora e dei suoi aguzzini (vecchio vizio, ma Tortora ne morì proprio in quei giorni, del vizio antigiustizialista). In giro c’era Agostino Saccà, capostruttura socialista, grande mediatore e ruffiano settecentesco, maschera indimenticabile di un certo modo di essere, insieme puttanesco e militante e competente, della vecchia Rai. Svenne quando F. e la sua banda di paese fecero sei milioni e mezzo di spettatori a metà giugno, un tempo in cui la gente la tv la trascura, del 1987.
Svenne anche qualche uomo di marketing del Cav., allora il Dottore. Fine stagione, F. doveva chiudere il contratto per l’anno successivo (siamo a giugno 1987). Il dolce Biagione Agnes, che lo stimava nonostante l’avversione politica (“Caro Ggiuliano, ce lo diche sembre a Ngiriaco: se giavesse un Verrara de’ nosctri, ce facesse nu condratte. E’ che nun g’è”), gli propose un altro miliardo. Invece il Cav. chiamò F. e lo ricevette con il vecchio Fedele Confalonieri in via dell’Anima. All’epoca ricevevano sempre in due: uno seduceva e offriva, il Cav., l’altro giudicava non visto, standosene un po’ di lato con l’occhio furbo: “Sarà affidabile?”. F. sparò due miliardi, la metà esatta di quanto estorse simpaticamente molti anni dopo al suo nuovo editore, il canale indipendente La7, per il prossimo biennio 2003-2005 (ma guarda un po’ il mercato, uno se la cava anche senza i serpenti privi di sonagli). Detto, fatto. Il contratto fu discusso con un avvocato dalla parte di F., persona competente, e dall’avvocato Dotti per la Fininvest. Non so se è vero, ma dissero in seguito a F. che lo avevano corretto e rivisto nello studio Previti, perché a Dotti gli era stata portata via tutta l’azienda, con quelle cifre e quelle norme.
F. firmò con molta allegria, e comunicò a Repubblica in un’intervista, ciò che non usava tra i giornalisti di allora e non usa tuttora, il suo stipendiuccio da calciatore. Repubblica, sempre raffinata, titolò in prima: “Berlusconi acquista Ferrara”. Non male. Però alt! F. la vuole dire tutta. Una malacosa e una buonacosa. Malacosa: il Cav. lo pregò di telefonare all’amico Bettino prima della firma, si usava così allora. Quegli stronzacci erano diffidenti e non sapevano valutare le persone: per loro i portaborse che li hanno traditi, compreso il serpente senza sonagli, e i militanti che poi si batterono, erano sullo stesso piano (almeno per certi versi).

E l’effetto di dominio di una telefonata preventiva era per loro, anche per un gigante come Craxi che adorava gli ex comunisti proprio perché avevano qualcosa di indomabile, un balsamo indispensabile. F. fece il patto col diavoletto. Telefonò, e disse a Bettino, mentre i suoi uomini Rai strepitavano per tenersi il vitello grasso: “Non rompere i coglioni, vado con Berlusconi perché mi paga il doppio di quello che mi ha offerto la Rai e da un privato, tra gli spot, mi diverto di più”. Craxi ridacchiò, disse che due miliardi erano troppo (ricordate? il favoloso Bettino faceva il populista con gli stipendi della Carrà, insomma voleva salvare la faccia, con ironia). Poi la firma, dopo questo piegamento di ginocchi di F., avido giornalista di regime. Buonacosa: F. disse chiaramente a Berlusconi, “guardi che il patto non scritto, quello che conta, è il seguente, lei mi può mandare in video anche 24 ore al giorno, ma se non c’è accordo tra noi su quel che si fa e si dice in video, insomma sui modi, io ho diritto di non andarci nemmeno per un secondo”. Il Dott. disse sì, e poi mantenne la parola. Di qui una bella amicizia. Il primo anno di F. fu infatti un fiasco e un trionfo. Trionfò Radio Londra, cinque, sette minuti prima di “Tra moglie e marito” su Canale5 alle 8 e mezzo di sera (destini), cinque milioni di spettatori dell’informazione politica in una rete abituata al quiz e senza telegiornali, e uno spazio televisivo inventato, di cui si approprierà un giornalista non di regime, e che non si fa mai pagare per il suo lavoro, di nome Enzo Biagi, che qualche anno dopo debuttò libero e indipendente nello stesso orario e con la stessa formula (bè, gli piacerebbe) su Raiuno, libera repubblica in era Moratti. Invece il Gatto, trasmissione pugnace di prima serata su Canale5, andava maluccio, il talk show in prime time non ha mai funzionato sulle commerciali (ne sa qualcosa l’eroe degli ascolti, Santoro, che fallì clamorosamente a Mediaset nonostante gli avessero dimezzato gli spot, perché lui nelle trasmissioni imbalsamate con Previti e Dell’Utri faceva servizio pubblico, lui). Ma il disastro fu politico: era il tempo in cui Confalonieri dichiarava apertamente, tra virgolette, che Fininvest avrebbe fatto un telegiornale per Craxi Andreotti e Forlani, e la tv spazzatura del maiale, tra scandali e bisbocce, travestiti e magistrati, non era il paludamento giusto per lo stile di un giornalismo ecumenico e pentapartitico. Sicché si litigò. Un corrucciato F. andò a Milano dal Cav., che stavolta era con Gianni Letta, e gli disse paro paro, sotto una tenda (chissà che manifestazione era): “Ricorda il patto? Ora lei ha dichiarato ai giornali che mi sposta su una rete minore, Italia1, senza nemmeno consultarmi. Eccole il contratto indietro, non c’è problema”. E il Cav., impressionato per tanto ardire (F. crede: impressionato favorevolmente, nonostante tutto), mantenne la parola e si tenne il servo sciocco per un anno, come voleva lui fuori dal video, a lavorare a un progetto di storia televisiva che non si fece mai (il Professore era il titolo). Accettò una punizione costosa, il Cav., un po’ perché non sa dire di no, nel bene e nel male, un po’ perché è di parola e quel patto lo ricordava.
Che ci faceva al Corrierone, intanto, l’ex comunista nel cui corpo ci sono “tonnellate di comunismo” come scriveva giusto ieri una compunta Unità, giornale liberal? Che ci faceva l’ex agente prezzolato degli americani, il convertito sulla via di Bettino, insomma un campione riciclato di questi “avanzi del totalitarismo” (come F. si definisce ogni giorno con il fascistissimo Buttafuoco e il comunista sentimentale Stefano Di Michele in redazione)? Ci faceva la nota politica, ci faceva, seduto nella vecchia sede di piazza del Parlamento a fianco di Paolo Franchi , che vuole raccontato tutto il passato, ma proprio tutto, e con il cane Lupo tra le gambe. Ostellino odiava la “nota politica” e volle un “taccuino”: la politica in pillole, blocchetto per blocchetto. Buona idea, apprezzata anche a sinistra (il politologo Gianfranco Pasquino era un ammiratore). Informazioni da Craxi poche, perché era un diffidente. Ma F. lo aveva sgamato, come si dice a Roma, sapeva le sue mosse nelle crisi arabescate della prima Repubblica perché invece si fidava del Cinghialone, pensava che avrebbe fatto quel che avrebbe fatto lui, il povero F. ovvero un réfoulé della politica, uno che per schifoso buonismo e perbenismo era capace solo di immaginare la politica degli altri. Così un bel po’ di buchi alla concorrenza, senza esagerare perché in giro c’erano altri lupi della notizia bene addestrati, il Corrierone li diede. Poi arrivò Ugo Stille dall’America, al posto di Ostellino, e De Mita nel frattempo cacciò Craxi in malomodo dal governo, non che Bettino ci stesse a modino, anche lui voleva la morte di De Mita e lo insidiava con certe pesantezze mica male. Ma la linea del Corriere cambiò, lo scontro con Repubblica finì, Misha (il vero nome di Stille) era politicamente e personalmente un uomo di mondo.
A Milano agivano Giorgio Fattori e Enzo Biagi, un clubbino che si ritrovava con Lamberto Sechi (quello dei fatti separati dalle opinioni, l’inglese): erano loro, e lo sono restati per anni, il vero potere mediatico dell’intolleranza. E volevano la pelle del ciccione, e forse anche le sue trippe. Approfittando della televisione, e spingendo sul tema dell’esclusiva professionale, volevano cacciarlo dal Corriere. Stille, con il quale F. parlava amabilmente di Leo Strauss, perché era anche una sua vecchia lettura, e che amava e stimava avendolo conosciuto anni prima con suo padre nell’appartamento di Pietro Ingrao a Monte Citorio, allora Ingrao era presidente della Camera (anni Settanta), pensò di trovare la soluzione mandando un F. craxiano che a Roma non si portava più direttamente a Mosca, come corrispondente. Decise, F., che il Corriere era meglio della tv, e si mise a ristudiare il russo con Elke Ibba, una bella donna bulgara moglie di Fausto Ibba, vecchio e stimabile comunista dell’Unità. Ma sul più bello, mentre il russo gli riveniva su e cominciava a parlottarlo e a scriverlo “con la calligrafia di un bambino moscovita di cinque anni” (precisò la Elke), tutto fallì, con grande sollievo della nuova meravigliosa moglie americana, che non diceva niente ma all’idea di essere deportata a Mosca, sia pure in tempi di perestroika, soffriva e parecchio. I soliti fienghi del cdr dissero che un praticante non poteva andare a Mosca, e salvarono Selmuschka dalla coda riformatrice del totalitarismo sovietico. Niet. Veto. “Vabbè”, disse allora Stille al suo pupillo, “dimettiti e ti riassumiamo con l’articolo 2, e fammi una bella rubrica dal titolo Bretelle Rosse, visto che le tue bretelle sono popolari”, e così cominciò quella rubrica, i cui titoli venivano messi tra virgolette dal burbero Giulio Anselmi (non bastava la fotina e la firma per far capire che quelle opinioni contropelo non erano del giornale), quando il testo non era prefato da un distico “questa non è l’opinione del Corriere” per salvare proprietà, baracca e burattini dai magistrati che nel fatale ’93 il ciccione caricava di brutto; quella rubrica che sempre nel fatale ’93, a sei anni dal suo inizio, direttore e scudo Paolo Mieli, fece qualcosa, non si dica per salvare l’onore del giornalismo italiano o del Corriere, non-lo-si-dica, ma almeno per salvare dalla galera certi serpenti senza sonagli ma col conto protezione, che sognano di aver raccomandato un bandito e spia che può sempre fargli uno scaracchio in faccia senza problemi morali.
A proposito. F. non dimentica niente. Il serpente senza sonagli attacca F. con la menzogna, epperò il suo veleno ha l’effetto squisito di convincere F. a un ragguaglio curricolare (bella l’espressione, vero?). E i ragguagli devono essere precisi, sennò il computer si annoia. Per spiegare (“spiegare”, brutto vizio) le ragioni per questa porcata inqualificabile del serpente senza sonagliera, attaccare con la menzogna uno che ti ha difeso dalla galera per anni, sapendo che in fondo proprio tu te la meritavi, deve citare, F., un dettaglio decisivo. Diceva ieri che Reporter nacque con i soldi di Martelli, aggiunge oggi che morì con i soldi di Craxi, che poi erano sempre soldi nostri, imprese che amano fare cartello e flirtare con la politica (tutte o quasi) e contribuenti che pagano le tasse (pochi, tra cui F.), perché insomma, sì, era contante che veniva dal finanziamento illegale dei partiti. F. ha alcuni ricordi. Deaglio e Panella che lo pregano di andare da Craxi e porgli il problema degli stipendi e della salvezza del giornale, perché gli amici del serpente avevano cessato di versare in un’impresa in perdita. Altro ricordo. Craxi, interpellato, che mette in imbarazzo F. dicendogli che il serpente voleva mettere su una sua “cricca” e che il giornale doveva uscire dal suo raggio di influenza, se voleva la grana (“non sono noccioline del Brasile”, aggiunse con bella rozzezza). Ecco una delle scaturigini dell’odiosa frustrazione che ha spinto il serp. s. sonagli a cercare di infangare, citando il proprio nome reso fangoso dalla brutta storia di questi anni, il nome suo.
Poi gli amici di Reporter, che fu un giornale assolutamente onesto, ve lo dice un bandito, nella cui cucina erano in pochi a guardare (F., al contrario di Giuliano Amato, ha sempre guardato nelle cucine delle case che ha frequentato) e che tutti sapevamo essere finanziato dalla politica socialista dell’epoca (Sofri si faceva il suo Finesecolo, smagliante supplemento culturale, ma a Firenze), mi informarono del fatto, gli amici di Reporter, che Cornelio Brandini, simpatico e matto mozzo di Bettino, era arrivato a chiudere qualche conto con quella che la raffinata Ilda la Rossa definirebbe “una paccata di milioni”. Ma neanche i forzieri di Craxi sarebbero bastati a salvare quell’impresa, troppi giornalisti, troppo costosa la diffusione, troppo cara la piccola officina di fotocomposizione del Testaccio, costava troppo il sistema Atex, troppo le foto, troppo il settore grafico (informazioni venute utili quando fu fondato il Foglio, undici anni dopo).
Che cosa è più scandaloso? La consulenza alla Cia?
Essere stati comunisti? Essere usciti dal comunismo ed essere diventati anticomunisti? La raccomandazione di Ronchey per il Corriere? Scrivere per il Corriere liberamente contro i disegni non condivisi di De Mita e a favore di Craxi, contro i mozzorecchi e per gli inquisiti del ’93, senza mai insultare o leccare il culo? Avere imposto uno stile non falsamente paludato al giornalismo finto dei Biagi&Fattori, una roba in cui si sa cosa pensa chi scrive o parla, si sa da che parte sta? O è più scandaloso aver fatto come Ugo La Malfa il Grande, usare soldi neri per stampare un giornale, non proprio una prima volta nella storia della libertà di stampa, e raccontarlo adesso per la verità, e con una punta di orgoglio? Che cosa conta davvero, il retrobottega o la vetrina, i mezzi o i fini? F. non lo sa, e fa questo tuffo nel passato perché sa che non lo saprà mai.

Da un fallimento all'altro

"Il successo è la capacità di passare da un fallimento all'altro senza perdere l'entusiasmo".

Winston Churchill

mercoledì 16 aprile 2014

Successi e fallimenti

Il successo non è definitivo, il fallimento non è fatale: ciò che conta è il coraggio di andare avanti. 

Wiston Churchill

martedì 15 aprile 2014

"Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii, victores nos fecit”.

Le ragioni storiche dello scontro
Dopo che il 31 maggio 1453 Maometto II aveva conquistato la città di Costantinopoli e con essa il millenario Impero cristiano d’Oriente, i turchi ottomani ritenevano imminente il giorno del loro dominio universale. Nel 1521 si erano impadroniti di Belgrado; nel 1526 avevano conquistato l’Ungheria ed erano arrivati fino alle porte di Vienna.
In Italia avevano invaso e saccheggiato tutte le coste del meridione. Tripoli era già stata tolta agli spagnoli, l’isola di Chio ai genovesi, Rodi ai cavalieri che la possedevano e la stessa isola di Malta, nuova sede dei cavalieri, sarebbe caduta nelle mani turche se Jean de La Valette, Gran Maestro dell’Ordine non l’avesse difesa e salvata con eroico valore.
Nel febbraio 1570 era giunto a Venezia un ambasciatore turco con un ultimatum della Sublime Porta: o la cessione al sultano dell’isola di Cipro o la guerra. Venezia aveva rifiutato con sdegno. Ma dopo undici mesi di assedio il 1 agosto 1571, nell’isola di Cipro era caduta la città di Famagosta. Il patto di resa garantiva la vita ai difensori superstiti, ma quando il comandante turco era penetrato a Famagosta aveva fatto scorticare vivo il comandante della piazza cristiana Marcantonio Bragadin. Il corpo era stato squartato, la pelle di Bragadin era stata quindi riempita di paglia, rivestita con la sua uniforme e trascinata per la città.
Il terrore regnava nel Mediterraneo, l’antico Mare nostrum. La sorte dei cristiani di Cipro era quella che l’Islam sembrava preparare ai cristiani di tutta Europa. Sulla cattedra di Pietro sedeva un teologo domenicano, Michele Ghislieri, salito al pontificato all’inizio del 1566 con il nome di Pio V. Egli valutò la gravità del pericolo e comprese che solo una guerra preventiva avrebbe salvato l’Occidente. Con parole gravi e commosse esortò le potenze cristiane ad unirsi contro gli aggressori e di questa difesa della cristianià fece l’asse del suo breve pontificato.
Non tutti, però, risposero all’appello. L’espansione dei turchi si sviluppava anche grazie alla complicità decisiva di paesi cristiani, come la Francia, che in nome della realpolitik, oggi diremmo dei suoi interessi geopolitici, incoraggiava e finanziava i turchi per indebolire il suo tradizionale nemico: la casa imperiale d’Austria. Tuttavia grazie alle preghiere e alle insistenze del pontefice, il 25 luglio del 1570, la Spagna, Venezia e il Papa conclusero l’alleanza contro i turchi. Subito dopo aderirono il duca di Savoia, la Repubblica di Genova e quella di Lucca, il granduca di Toscana, i duchi di Mantova, Parma, Urbino, Ferrara, l’Ordine sovrano di Malta. Si trattava di una prefigurazione dell’unità italiana su basi cristiane, la prima coalizione politica e militare italiana nella storia.
Alla testa della Lega Cristiana fu posto un giovane di 25 anni: don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V e dunque fratellastro del re di Spagna Filippo II. La flotta pontificia, costituita grazie all’aiuto decisivo dei cavalieri di Santo Stefano, era comandata da Marcantonio Colonna, duca di Paliano, a cui il Papa affidò la bandiera della Chiesa. La Santa Lega fu ufficialmente proclamata a Roma nella basilica di San Pietro. Lasciata Messina, dove si era concentrata alla fine di agosto, dopo venti giorni di navigazione con rotta verso levante, la flotta cristiana attaccò il nemico alle undici di mattina di quella domenica 7 ottobre dell’anno 1571.
Lo svolgimento della battaglia
All’alba del 7 ottobre 1571 una gigantesca flotta ottomana, la più numerosa mai schierata nel Mediterraneo, avanzava lentamente, con il vento di scirocco in poppa. Circa 270 galee e una quantità indescrivibile di legni minori formavano un semicerchio, una enorme e minacciosa mezzaluna che occupava tutte le acque che dalle coste montagnose dell’Albania, a nord, arrivano alle secche della Morea, a sud. Al centro della mezzaluna che avanzava, sulla nave ammiraglia, chiamata la Sultana, sventolava uno stendardo verde, venuto dalla Mecca, che recava ricamato in oro per 28.900 volte il nome di Allah.
Di fronte, in formazione a croce, era schierata la flotta cristiana, sulla cui ammiraglia, comandata da don Giovanni d’Austria, garriva un enorme stendardo blu con la raffigurazione del Cristo in Croce. La battaglia durò cinque ore e si decise al centro dello schieramento, dove le navi ammiraglie si speronarono l’un l’altra formando un campo di battaglia galleggiante in cui si susseguirono attacchi e contrattacchi finchè il reggimento scelto degli archibugieri di Sardegna riuscì a sferrare l’attacco decisivo. Alì Pascià fu colpito a morte e sulla Sultana fu ammainata la Mezzaluna e issato il vessillo cristiano.
Si coprirono di valore tra gli altri i Colonna e gli Orsini, sette della stessa famiglia, il conte Francesco di Savoia che cadde in battaglia, il ventitreenne Alessandro Farnese, destinato a divenire uno dei maggiori condottieri del secolo, Giulio Carafa che, preso prigioniero si liberò e si impadronì del brigantino nemico, ed i veneziani tutti che pagarono il maggior tributo di sangue.
Il provveditore veneziano Agostino Barbarigo che comandava l’ala sinistra dello schieramento cristiano, si batté, fino a che non gli mancarono le forze, con una freccia infitta nell’occhio sinistro. Sulla sua ammiraglia, Sebastiano Venier, combatté a capo scoperto e in pantofole perché, risponde a chi gliene chiede il motivo, fanno migliore presa sulla coperta. Ha settantacinque anni e imbraccia la balestra, aiutato da un marinaio per il caricamento dell’arma, un’operazione che era ormai superiore alle sue forze. Sopraffatto dal numero viene soccorso dalle galee di Giovanni Loredan e Caterino Malipiero, che trovano la morte nella lotta.
Al termine della battaglia la Lega aveva perso più di 7.000 uomini, di cui 4.800 veneziani, 2.000 spagnoli, 800 pontifici, e circa 20.000 feriti; i turchi, contarono più di 25.000 perdite e 3.000 prigionieri. Il nome di Lepanto era entrato nella storia. Per la prima volta dopo un secolo il Mediterraneo tornò libero. A partire da questo giorno iniziò il declino dell’impero ottomano.
Nel pomeriggio del 7 ottobre, Pio V che aveva moltiplicato le preghiere a Colei che sempre aveva soccorso i cristiani nelle ore drammatiche della cristianità, stava esaminando i conti con alcuni prelati. D’improvviso fu visto levarsi, avvicinarsi alla finestra fissando lo sguardo come estatico e poi, ritornando verso i prelati esclamare: “Non occupiamoci più di affari, ma andiamo a ringraziare Iddio. La flotta cristiana ha ottenuto vittoria”.
Il Pontefice attribuì il trionfo di Lepanto all’intercessione della Vergine e volle che nelle Litanie lauretane si aggiungesse l’invocazione Auxilium christianorum. Anche il Senato Veneziano che non era composto da donnicciole, ma da uomini fieri e rotti a sfidare i più gravi pericoli in mare e in terra, volle attribuire alla Santissima Vergine il merito principale della vittoria e sul quadro fatto dipingere nella sala delle sue adunanze fece scrivere queste parole: “Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii, victores nos fecit” (non il valore, non le armi, non i condottieri, ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori).

fonte:Lepanto.org

sabato 12 aprile 2014

Confedir contro Renzi

Stefano Biasoli, segretario generale Confedir:
 
Giù la maschera! Chi è un po’ scafato (e noi lo siamo, grazie ad una lunga esperienza professionale e sindacale) ha capito molto di Renzi e del renzismo.
Renzi è un berluschino, un abile venditore di pentole e di aspirapolveri, il mago Silvan della politica.
È un uomo frettoloso, che pensa e parla a 7mila giri al minuto, che cerca di incantare la gente.
Si è dato tempi molto stretti per le riforme. Nessuno di questi è stato rispettato… ma la colpa di questo non è ovviamente sua, ma degli altri.
Il putto fiorentino non accetta contraddittorio, su niente e con nessuno. Il suo “noi ” significa solo io, io, io. Un ego gigantesco, che non ha avuto pari, dai tempi di Craxi.
Craxi si era circondato da nani e ballerine; Berlusconi si è circondato di una corte di adulatori, fuggiti al primo cenno di tramonto. Bossi è finito per colpa del cerchio magico (magico o tragico?).
Renzi ha fatto una scelta diversa. Un solo amico, un lavoratore, un sindaco ex capo dell’Anci… e tante, tante giovani donne bellocce, con poca esperienza politica e tanta dipendenza dal capo.
Gioventù fru-fru, in ginocchio davanti a colui che le ha “sistemate”. Per sempre o per un po’? Secondo la moda prevalente nel nostro Paese, tutte e tutti sono balzati sul carro del vincitore, inclusa colei che – dalla piccola Vicenza – era arrivata a Roma per merito di Bersani, lei che aveva combattuto Renzi ed ora si è riciclata con il putto, per una poltroncina europea.
Allora? Allora ricordiamo a Renzi che il tempo fugge, anche per i giovani di successo. Siamo in quaresima, perciò gli consigliamo di batterei il petto e di farsi lavare i piedi dal suo parroco, il Giovedì Santo.
Come può pensare di continuare a massacrare chi lavora nelle pubblica amministrazione, dirigenti e mezze-maniche?
Come può pensare che tutti i mali di questo Paese siano solo legati alla amministrazione pubblica e non piuttosto a quella masnada di politici che, da decenni, ha preteso di violare le regole pubbliche (contrattuali e legislative) occupando – manu politica – tutti gli spazi possibili e non possibili della pubblica amministrazione per sistemare amici, conoscenti, commilitoni, parenti, portaborse, portavoti?
La spesa pubblica è esplosa per questo, per l’invasione politica degli spazi tecnici, per l’occupazione di pseudo-tecnici servi o amici del potentato di turno.
La sanità e le Regioni insegnano. Eppure, ora Renzi addita al pubblico ludibrio non i supermanager superpagati (scelti da politicanti come Renzi), non i superburocrati dai molti incarichi e superpagati, ma i dirigenti pubblici in generale.
Ossia quelli che, bene o male, costituiscono l’ossatura dello Stato e del parastato, quelli che hanno fatto carriera per meriti propri e non per “meriti politici”. Tutti costoro non rubano i loro stipendi, stipendi che sono frutto di accordi pattizi, a livello nazionale. Pacta servanda sunt! Ma non per chi, da Roma, impone oggi uno stop ai contratti pubblici per altri 6 anni (teorici, ma poi saranno sette), che si aggiungono al blocco contrattuale 2010-2014.
In definitiva, per la prima volta in Italia e nel mondo occidentale, un governo impone uno stop decennale ai contratti pubblici, rinnegando le regole liberamente sottoscritte (accordi nazionali triennali ) nell’ormai lontano 2010.
Dopo il disastro delle Legge Brunetta, che ha massacrato i “fannulloni” della p.a. imponendo testi contrattuali penosamente lesivi perché basati sulla presunzione di diffusa incapacità dei dirigenti pubblici, ora arriva il Renzi che addita alla folla i colpevoli dei disastri italiani. Non i politici, non i superburocrati brontosauri e pluri-incaricati e con pluriprebende, ma tutti i dirigenti pubblici.
Tutti, nessuno escluso. Nessuno escluso. Ebbene, dice Renzi, costoro non meritano i denari che prendono. Costoro vanno castigati, possono essere castigati impunemente, senza colpo ferire. “La gente è con me”, dice chiaramente e pensa Renzi. Ed allora, diamo addosso ai dirigenti pubblici, a quelli bravi ed a quelli meno bravi. Ed allora, bastoniamoli. Non solo bloccando i Ccnl pubblici fino al 2020, ma anche tagliando le prebende dei dirigenti, dai 70mila euro/annui lordi in su.
Bastonate su bastonate, sugli stessi asini pubblici: quelli con basto e quelli senza basto.
Nuovo Robin Hood, Renzi vuole rubare ai dipendenti pubblici per dare un po’ di euro ai “poveri”. Poveri veri e poveri falsi, dato il fisco italico. Un fisco che se la prende sempre con chi non può evadere: con i dipendenti pubblici, considerati come mucche da mungere ed asini da bastonare. Troppo facile, troppo scontato.
Purtroppo, per Renzi, a maggio si vota. Non sappiamo cosa succederà. Ma i dipendenti pubblici sono tanti, da 2.850.00 a 3.200.000, perché in Italia i numeri sono sempre “ballerini”.
Non sappiamo cosa faranno gli iscritti alla triplice, alla Cisal, alla Confsal, alla Ugl. Possiamo ipotizzarlo ma non lo sappiamo con certezza.
Ciò che sappiamo è che i tanti dirigenti della Confedir (aderenti agli undici sindacati confederali autonomi della dirigenza pubblica), questa volta non resteranno passivi. La segreteria Confedir del 17 aprile deciderà le azioni concrete, ma fin da ora possiamo dire a Renzi che 300mila dirigenti pubblici, alle europee, non voteranno secondo il loro credo ideologico, ma secondo gli interessi della bottega familiare.
Voto in libertà e voto secondo interesse.
Forse Renzi non sa che i dirigenti pubblici condizionano ben più di 300mila voti, perché non solo “hanno famiglia” ma, normalmente, sono parte di altre aggregazioni e di vari gruppi associativi.
Vedremo. Di certo, zitti, noi non ci saremo.

La peggior forma di governo

  " La democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre fino ad ora sperimentate " Winston Churchill a...