domenica 31 agosto 2014

L'abilissimo pifferaio

Il mondo è sconvolto, non riesce a trovare un asse intorno al quale si possa organizzare una convivenza accettabile. L'Europa è sconvolta per le stesse ragioni; in un mondo multipolare ogni area continentale deve avere i propri punti di riferimento che contribuiscono all'equilibrio generale, ma in Europa quei punti di riferimento mancano, ogni nazione fa da sé e per sé e la multipolarità diventa a questo punto ragione di conflitto e di guerre.
Può sembrare assai strano a dirsi, ma l'Europa fotografata ieri, 30 agosto 2014, sembra il Paese dove l'equilibrio c'è o almeno è maggiore che altrove. Prevale il renzismo che, allo stato dei fatti, non ha alternative. Una società senza alternative è al tempo stesso fragile e robusta; fragile nella essenza, robusta nell'apparenza. La durata di questa situazione sarà l'elemento decisivo: una durata lunga rafforza l'apparenza fino a trasformarla in sostanza. Renzi lo sa e da questa sua consapevolezza è nato il programma dei mille giorni che finiscono più o meno alla metà del 2017. Solo allora si vedrà se gli annunci sui quali il renzismo è nato circa un anno fa daranno i loro frutti.

Attenzione però: il cambiamento affidato al maturare di quei frutti può essere di buona o di cattiva qualità dal punto di vista della democrazia. Può spodestare il popolo sovrano e sostituirlo con un sovrano individuale assistito da una corte o un'oligarchia. Sono due schemi molto diversi che hanno costellato l'intera storia del nostro Paese, dall'Unità fino ad oggi.

La destra storica che fondò e amministrò nei primi sedici anni lo Stato italiano, fu un'oligarchia. Giolitti fu a mezza strada tra l'oligarchia e la corte. La Democrazia cristiana, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, fu una serie di emirati in competizione tra loro ma uniti per mantenere il potere nelle mani della confraternita.

Mussolini fu una dittatura personale, non ci fu né corte né oligarchia, faceva tutto da solo e da solo fu punito insieme alla povera Claretta Petacci.
Una corte l'ebbe a suo modo Bettino Craxi. Voleva creare l'alternativa alla Dc; ma non riuscendovi cambiò l'antropologia del suo partito e ne fece una banda, cioè una corte retribuita.

Gli italiani, nella loro ampia maggioranza, si rifugiano nell'indifferenza, gli piace avere un sovrano purché gli lasci piena libertà privata. Da questo punto di vista il loro ideale è stato Silvio Berlusconi, un sovrano che meglio di tutti i suoi predecessori ha rappresentato le tendenze profonde del Paese, confiscando nelle sue mani il potere politico, tutelando i propri interessi aziendali, rispettando gli interessi dei suoi governati, dando libero sfogo ai suoi privati piaceri, coltivando il proprio narciso come a tutti piacerebbe quando si fanno vincere dal proprio io senza porvi alcuna limitazione.

Questo è stato il berlusconismo. E Renzi?

Non è come lui anche se per alcuni aspetti le somiglianze sono notevoli. Solo che Berlusconi ha governato quando la crisi economica mondiale non era ancora esplosa, perciò dell'Europa poteva infischiarsene.

Berlusconi però non è ancora uscito di scena. Non è più il protagonista ma un comprimario, questo sì e Renzi lo sa. In realtà lo sanno tutti, dal Capo dello Stato ai vari partiti e movimenti che operano nella politica, alla classe dirigente economica, ai "media", alle parti sociali. Questa situazione mette Renzi in una tenaglia: Berlusconi da una parte, l'Europa dall'altra. Con in più un terzo elemento non trascurabile: i cittadini consapevoli che vorrebbero ripristinare la democrazia restituendo al popolo quella sovranità che gli viene riconosciuta in apparenza ma gli è stata confiscata nella sostanza.

Questa è la fotografia del 30 agosto, mentre era riunito il Consiglio europeo.

Ha scritto venerdì sul nostro giornale Federico Fubini: "Viviamo un tempo di deflazione del denaro e inflazione di parola. Impossibile tenere il conto di quante volte al giorno la classe politica parla di "fiducia" e di "riforme". Il governo Renzi rischia di trovare la sua sindrome nella serie di annunci ai quali non seguono i fatti". Segue un lungo elenco che tra ieri e oggi si è fortemente arricchito. Il provvedimento concernente la scuola, la sua modernizzazione e l'assunzione di centomila precari entro il 2015, cui altri ne seguiranno, è stato rinviato a data da destinarsi per mancanza di copertura e dispute sull'assegnazione delle cattedre.

La giustizia penale è stata trasferita da decretazione d'urgenza a legge-delega che funzionerà quando e come funzionerà. Nel frattempo Alfano ha ottenuto l'accettazione di due principi che la destra ha sempre sostenuto sulle intercettazioni e sulla giurisdizione.

La giustizia civile è stata sottoposta a una cura dimagrante per smaltire rapidamente (così si spera) 5 milioni di processi arretrati, affidando all'avvocatura un anno di tempo per una conciliazione con la controparte di fronte ad un giudice che assiste le parti e convalida il loro accordo. Funzionerà? Gli avvocati hanno forti dubbi e la loro collaborazione non sarà entusiastica. Del resto ogni anno nuovi processi vengono aperti per una cifra molto prossima allo stock da smaltire, sicché il numero delle liti in corso non sarà affatto diminuito.

Infine per quanto riguarda la giustizia penale c'è la norma (annunciata ma non ancora approvata) che se l'esito del processo sarà il medesimo nei primi due gradi di giudizio, il ricorso in Cassazione sarà abolito.

C'era poi l'annuncio di un vasto programma di lavori, cantieri di opere, nuovi investimenti spesso a livello comunale ma non escluse alcune grandi opere (tra le quali la linea ferroviaria ad alta velocità Bari-Napoli, già programmata e avviata da Fabrizio Barca quando era ministro della Coesione territoriale nel governo Monti).

Questi programmi sono stati preparati dai due precedenti governi Monti e Letta e i fondi di copertura in gran parte già contabilizzati nelle relative leggi di stabilità. Gli ostacoli alla loro realizzazione sono in gran parte causati dal patto di stabilità imposto ai Comuni. Quello è stato uno dei tanti buchi neri che solo con fatica si sta risolvendo. Le coperture ci sono ma il contrasto Stato-Comuni è solo parzialmente risolto. Ciò avveniva con Monti e Letta ma è stato ancora un ostacolo per Renzi. Insomma niente di nuovo sotto il sole, anzi sotto la nebbia della deflazione che sta impoverendo il Paese.

Il venerdì del 29 agosto, che avrebbe dovuto essere per il governo una sorta di marcia trionfale dell'Aida, è stato invece un venerdì nero perché mentre Renzi cercava di nascondere la necessaria ritirata verso il programma dei mille giorni molto favorito dal ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, che rinvia l'attuazione degli annunci al 2017, l'Istat forniva le cifre di una stagnazione estremamente preoccupante dell'economia italiana in tutti i suoi vari "fondamentali": il Pil, la domanda, i consumi, il dissesto delle aziende, il bilancio strutturale, l'ammontare del debito. Una deflazione selvaggia che ha toccato una cifra identica a quella egualmente elevata del 1959, ma con una differenza fondamentale rispetto ad allora: nel '59 si stava preparando quello che fu chiamato "il miracolo italiano" e che cominciò nel 1960 e durò fino all'inizio degli anni Settanta. Si realizzò la piena occupazione, le imprese lanciarono nuovi prodotti, a cominciare dall'auto Fiat "Seicento"; il reddito e la domanda complessiva in pochi mesi fecero un salto verso l'alto che durò almeno dieci anni. Il pilota? Il governatore della Banca d'Italia, Guido Carli.

Mi permettano i lettori di ricordare che nacque allora la mia amicizia con Carli, che durò poi per tutta la vita e si estese poco dopo a quella con Carlo Ciampi. È per dire che quegli anni io li ho vissuti e sono quindi in grado di distinguerli da quelli di oggi.


Tralascio ulteriori osservazioni sul venerdì nero dell'altro ieri, salvo una: la norma che abolisce ogni intervento della Cassazione nel caso in cui l'esito dei processi nei due precedenti gradi di giudizio sia conforme. Questo obiettivo (naturalmente annunciato ma non ancora raggiunto) è motivato dalla necessità di abbreviare la durata dei processi e di smaltire le ampie giacenze processuali ancora pendenti presso la Suprema Corte.

Io penso che si tratti di un obiettivo del tutto sbagliato; somiglia terribilmente all'abolizione del Senato come effettiva Camera legislativa; la filosofia è la stessa: diminuire e indebolire lo Stato di diritto, cioè il preliminare indispensabile d'ogni democrazia che non sia una favola per bambini il cui protagonista è il Pifferaio di Hamelin.

Nel caso del terzo grado di giudizio spettante alla Cassazione il codice di procedura stabilisce che la Cassazione non si occupa dei fatti accertati nei primi due gradi di giurisdizione. Nel caso di sentenze conformi nei primi due gradi, i fatti sono accertati senza più ombra di dubbio e le modalità dell'illecito o del reato coincidono.

La Cassazione si occupa di altro e cioè della legalità delle precedenti sentenze. La Corte d'Appello può aver applicato malamente la procedura ai fatti accertati. Abolendo l'intervento della Suprema Corte si diminuisce, anzi si abolisce il controllo di legalità. È mai possibile un provvedimento di questo genere? Una lesione così palese dello Stato di diritto?

Sicuramente ci sarà un magistrato - se il provvedimento sarà approvato - che solleverà il caso dinanzi alla Corte costituzionale. Personalmente mi aspetto che lo stesso Presidente della Repubblica eccepisca la lesione che così si arreca allo Stato di diritto. Ho fatto un parallelo sulla riforma del Senato che lo declassa dal potere legislativo. Sono tutte démarches che indeboliscono fortemente lo Stato di diritto e come tali dovrebbero essere respinte.

Concludo con poche considerazioni sugli appuntamenti europei del nostro Pifferaio. Ieri si sono discusse le nomine e la Mogherini è stata nominata Alta autorità europea degli Esteri e della Difesa. Ho già scritto più volte che questa nomina non ha alcun contenuto di sostanza. Lo avrebbe - e sarebbe anzi positivo - se ci fosse preliminarmente una cessione di sovranità degli Stati nazionali all'Ue, della politica estera e di quella della difesa. Senza quelle cessioni Mogherini può esercitarsi nell'emettere pareri e via col vento.

Mi domando perché, sapendo perfettamente tutto questo, Renzi abbia puntato su quella carica e non su altre ben più consistenti: gli affari economici, la concorrenza, l'eurozona, la gestione del bilancio comunitario, l'assistenza dell'Unione alle zone economicamente depresse e tante altre mansioni che la Commissione esercita.

La risposta è semplice: dopo aver ottenuto la carica suddetta, il nostro Pifferaio la sventolerà come una bandiera di successo mentre è soltanto un segno di debolezza.

Molti anni fa scrissi sull'Espresso un articolo su Gianni Agnelli del quale ero buon amico e tornai ad esserlo dopo un anno di gelo che seguì a quanto avevo scritto su di lui e al titolo che suonava così: "L'Avvocato di panna montata" un po' lo era, il suo narciso non conosceva limiti. Le sue ricchezze, le sue aziende, il suo charme, la sua notorietà nazionale e internazionale glielo consentivano.

Oggi ci troviamo di fronte ad un abilissimo Pifferaio e ad una deflazione dalla quale solo Draghi potrà salvarci. La frase per definire il crollo della domanda, usata nei circoli finanziari è: il cavallo non beve, ed è appunto quanto sta accadendo.

Perciò non vi stupirete se quest'articolo, accoppiando due immagini fortemente connesse con la realtà che scorre sotto i nostri occhi, è titolato: "Il cavallo è assetato, ma non beve panna montata". Spero che sia chiaro il suo significato.
 
fonte: Eugenio Scalfari, La Repubblica, 31 agosto 2014

sabato 23 agosto 2014

Inesperienza

Stavolta non è bastata neppure Medjugorje. Il ministro Marianna Madia ci ha provato: da una settimana campeggia in copertina sui settimanali e sulle pagine di tutti giornali, mentre confessa che la vacanza della sua vita non è stata al mare o in montagna o un viaggio a New York,come per tutti gli altri. Macché: la vacanza della sua vita è stata quando è andata lì, nel luogo dove appare la Madonna.




A Medjugorje, ha raccontato, ci è tornata quattro volte prima di entrare nel governo. Tenetelo presente: pur non essendo ancora dimostrata ufficialmente una relazione tra i due fatti, anche questa potrebbe essere portata come prova ufficiale di un miracolo avvenuto nel santuario bosniaco. E forse proprio perché ha avuto dimostrazione così grande dell’aiuto del cielo, Marianna s’è illusa di poter puntare ancora più in alto: se sono riuscita a diventare ministro, forse riuscirò anche a farlo, deve aver pensato, gettando la sua fede oltre l’ostacolo.




Forse ha osato troppo, però: finora, infatti, il secondo miracolo non è avvenuto. Finora, infatti, non soltanto Marianna Madia non ha dato prova di essere un ministro, ma ieri è svanita nel nulla mentre il governo era costretto ad una clamorosa retromarcia sulla riforma della Pubblica Amministrazione. Niente quota 96 per gli insegnanti, niente soglia dei 68 anni per i pensionamenti di medici e docenti universitari: i conti non lo consentono. Che avesse ragione l’odiato contabile Cottarelli? I numeri sono numeri. E con buona pace dei renziani non si modificano con le copertine dei giornali.



Neppure quelle che strizzano l’occhio a Medjugorje con dichiarazioni avventate del tipo: «Alle 17 c’è un’apparizione, alle 19 si cena: ti offrono un pasto e ti indicano il cammino per assistere a un miracolo...» (Madia dixit: forse confonde la Madonna con gli orari della burocrazia ministeriale?). Del resto anche quella di Marianna al governo è stata, in qualche modo, un’apparizione. «Non me l’aspettavo, stavo guardando Peppa Pig con mio figlio», disse il giorno del giuramento. Poi aggiunse: «Porterò come contributo la mia inesperienza».



Sia Peppa Pig che l’inesperienza sono due ottime consigliere, si capisce. Ma per riformare la Pubblica Amministrazione forse ci vorrebbe qualcosa di più: mai provato con Ernesto Sparalesto, Mototopo o Magilla Gorilla? O magari Ughetto Cane Perfetto? «È brava, studia», dicono tutti di lei. Perfetto, no? Se dovessimo dare l’esame di laurea avremmo trovato la persona giusta. Purtroppo c’è da riforma lo Stato, che non è roba da studenti.




Peccato perché lei secchiona lo è sempre stata.Ha frequentato le scuole francesi, il Lycée Chateaubriand, roba très chic dove naturalmente era prima della classe. Poi si è laureata in Scienze politiche. Il padre era consigliere comunale del Pds, il nonno materno, decano dei giornalisti parlamentari, era legatissimo alla Dc che lo fece anche presidente Efim. Marianna, però, è arrivata al ministero non per tradizioni familiari e neppure per raccomandazioni. Ci è arrivata, ovviamente, per caso.



«La carriera politica è arrivata, non l’ho cercata», ha raccontato a Vanity Fair. E proprio perché non la cercava, appena laureata, è entrata nell’Arel di Enrico Letta, poi si è fidanzata con il figlio di Giorgio Napolitano, poi si è fatta eleggere alla Camera da Veltroni, poi a Montecitorio si è appiccicata a D’Alema, poi ha sostenuto Bersani, poi ha frequentato Pippo Civati e infine è salita sul carro di Renzi.




Praticamente ha fatto il giro completo di tutti i dirigenti del Pd. Sempre tutto per caso. Quasi un miracolo, come a Medjugorje quando «ti offrono un pasto e ti indicano il cammino...». Marianna è diventata ministro mentre aspettava la sua seconda figlia, Margherita, che è nata il 7 aprile. Naturalmente dopo poche settimane ministro e bimba campeggiavano sulle pagine di un settimanale in bella posa. Lei è fatta così: non cerca di apparire con la stessa convinzione con cui non cerca di fare politica. Le capita sempre tutto per magia, che in fondo fa rima con Madia.



Per esempio pochi mesi prima di entrare nel governo Renzi era casualmente entrata anche in una scena del film «Pazze di me» del regista Fausto Brizzi, re della commedia all’italiana e casualmente sostenitore di Renzi. Casualmente, per altro, il marito della Madia era il produttore del film che ha casualmente incassato pure un contributo di 300mila euro dalla Regione Lazio. A Marianna è causalmente toccato un cammeo. Solo una battuta: «Tanto tornano, tornano tutte ».




Se fosse stato autobiografico, sarebbe apparsa quasi una minaccia. Comunque,dopo il 7 aprile, quando la mamma ministro è tornata al ministero con la neonata Margherita, i cantori del renzismo si sono prodigati per incensarla. L’hanno descritta così: «Tutto è stato organizzato in modo da poter sottoporre alla Madia ogni passaggio della riforma della Pubblica Amministrazione: tutto ruota attorno a sua figlia Margherita, al fatto che dorma o meno la notte, che sia o meno tranquilla, e che i suoi ritmi si concilino con i vertici fra la mamma e il premier: un’altra generazione di ministri (e di mamme) è possibile ».




L’autrice di questa soave prosa, Marianna Aprile, è stata fortunata: ha avuto un contratto in Rai come conduttrice di una trasmissione su Raitre. La riforma della Pubblica Amministrazione, purtroppo, ha avuto meno fortuna.Per il momento infatti vaga nel nulla, e ieri con la retromarcia del governo ha subito un contraccolpo mica da ridere. Sarà che Margherita (attorno a cui tutto ruota) non aveva fatto il ruttino?Oppure ha avuto una colica intestinale? Chi lo sa.



Intanto,mentre il Paese s’interroga, il ministro Madia che quella riforma dovrebbe sostenere con convinzione sembra sparita nel nulla. Ma noi, che crediamo ai miracoli, pensiamo che sia concentrata sulla soluzione dei problemi della macchina statale. Magari sta organizzando un’altra bella vacanza della vita. Nel caso, questa volta proveremmo con Lourdes.

Mario Giordano per “Libero Quotidiano
 5 agosto 2016

Il vaniloquio

Oggi l’editoriale di prima pagina del Giornale (“Non possiamo dialogare con tutti”) porta la firma di monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara-Comacchio che nei giorni scorsi ha esposto sull’arcivescovado il simbolo dei cristiani perseguitati iracheni.
«È un fatto enorme – scrive Negri – questo gigantesco esodo di massa di cristiani espulsi dai luoghi dove da millenni era radicata la presenza cristiana, esclusivamente perché cristiani. Quindi per quello che la tradizione cristiana chiama l’odio della fede. E questo deve essere detto esplicitamente: non sono soltanto buttati fuori dalle loro case, privati di tutti i loro beni, privati di tutti i loro diritti e quindi della possibilità di sussistenza; ma la ragione di tutto questo è la fede». E questo, scrive l’arcivescovo, «i cristiani, la Chiesa, non possono non sentirlo come un evento terribile e insieme grandioso, perché è l’evento del martirio».
DENUNCIA ESPLICITA. Negri riprende le parole di papa Francesco e l’intervento sull’Osservatore Romano del cardinale Kurt Koch per osservare che «non si capisce perché alcune cose vengano chiamate Shoah e per questo non venga usato lo stesso termine, che dice di una spaventosa e dissennata ideologica violenza contro l’altro semplicemente perché ha una posizione religiosa diversa dalla propria». Il problema, dice Negri, «è che c’è una grande difficoltà a una denuncia esplicita. (…) Dovremmo essere più coraggiosi nella denuncia. Il coraggio è un aspetto della testimonianza cristiana, è un aspetto fondamentale dell’impatto con la realtà del mondo e degli uomini che ci vivono. Queste responsabilità dunque devono essere dette e proclamate, altrimenti anche le denunce e la volontà di condividere la situazione tremenda di tanti nostri fratelli rischiano di essere parziali».
DIALOGO SENZA VERITA’. Gli occidentali, osserva l’arcivescovo, rischiano di «nascondere o quanto meno di ridurre l’impatto con questo mondo islamico che, ci piaccia o no, ha la responsabilità storica di questi eventi oggi come lungo i secoli che hanno preceduto questo ultimo. Forse c’è una prevalenza della volontà di dialogo a ogni costo che deprime la verità. E un dialogo senza la verità o che non parta dalla verità non è un dialogo: è un compromesso, è una connivenza, è un’ignavia». Per questo, conclude Negri, l’Occidente non deve ricadere nell’errore che commise «nei confronti della terribile vicenda hitleriana. (…) Non avere il coraggio di questa denuncia è esattamente nella misura della debolezza della fede. Il resto finisce per essere solo vaniloquio. La Chiesa non ha bisogno di vaniloqui e, per quel che mi risulti, neanche Dio».

fonte: Tempi-it

lunedì 4 agosto 2014

Odio gli indifferenti

Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

Antonio Gramsci 11 febbraio 1917

domenica 3 agosto 2014

Il comma anti-Prodi

Il Senato che muore già è infestato dai fantasmi. Due spettri in carne e ossa, tetro ossimoro del renzusconismo segreto, che c’è ma non si vede, che si aggirano a Palazzo Madama quando il voto segreto affossa solo per un istante il fatidico patto Bierre del Nazareno

Da un lato ritornano dall’oltretomba bersaniano (in senso politico, ovviamente) i Centouno che tradirono Romano Prodi per la successione di Giorgio Napolitano. Dall’altro c’è lo stesso Renzi che più va giù e più sventola e agita il patto, come ha fatto ieri nella direzione del Pdr, il Partito democratico renziano, sfidando il ridicolo e l’evidenza: “Quando leggo: che cosa c’è scritto nel patto del Nazareno? È un atto parlamentare, può piacere o no ma è un atto parlamentare. Quando vedo anche alcuni nostri dirigenti che dicono: chissà cosa c’è sotto? Questo è il governo che ha declassificato il segreto di Stato, figuriamoci… Quello che mi preoccupa è la forma mentis, questa idea che i politici mascherino sempre le cose. Evitiamo di giocare alla meno”. Chiosa un notissimo esponente berlusconiano: “Più Renzi perde pezzi e più il patto con Berlusconi si rinforza”. Che tradotto vuol dire: resteranno loro due contro tutti.

Nella tela segreta del Nazareno, il premier sta ricamando la nuova versione della legge elettorale come via d’uscita, spera lui, dall’infernale pantano del Senato. L’accordo prevede il Toscanum, non più l’Italicum, l’introduzione delle preferenze e la nuova intesa dovrebbe essere siglata la prossima settimana, forse martedì, tra i due contraenti, lo Spregiudicato e il Pregiudicato. A quattr’occhi, però, “Matteo” e “Silvio” rinnoveranno pure un’altra clausola del loro patto segreto, che comprende, sulla carta, riforme, legge elettorale e giustizia. È il comma anti-Prodi, come viene chiamato nella ristretta cerchia che custodisce il sacro testo (oltre B. e Renzi: Verdini, Gianni Letta e il sottosegretario Luca Lotti).

Il patto del Nazareno contiene infatti anche un protocollo tra il premier e il Condannato sulla “condivisione” del nome del prossimo presidente della Repubblica. Fantasma dei Centouno a parte, il tema della successione a Napolitano sta tornando sempre più attuale e tutto fa pensare che il 2015, al massimo a luglio, sarà l’anno che chiuderà il regno novennale del primo ex comunista salito al Quirinale. Così chi conosce tutti i dettagli e le clausole del patto segreto rivela che l’ex Cavaliere ha chiesto e ottenuto una precisa garanzia da Renzi: “In nessun caso, durante le trattative, dovrà essere fatto il nome di Romano Prodi”. Il Fatto ha interpellato alcuni parlamentari forzisti per chiedere una conferma ufficiale della pregiudiziale anti-Prodi ma tutti, pur confermando, non hanno voluto rilasciare dichiarazioni in questa fase. Dicono a taccuino chiuso: “È certo che i due si sono accordati per un nome condiviso e questo nome non potrà mai essere Prodi”. L’antiprodismo di B. è storico: il Professore è il suo vero incubo, come dimostra la storia dell’aprile del 2013: “Meglio D’Alema di lui”, disse. Senza dimenticare che un’opzione renziana per Prodi significherebbe un’apertura ai grillini.

Senato non elettivo, abolizione del bicameralismo, riforma della giustizia, accordo sul Quirinale in funzione anti-prodiana, salvaguardia del colossale conflitto d’interessi del Condannato. Il patto del Nazareno è questo e il dibattito di questi convulsi giorni a Palazzo Madama ha una fine nota e segnata, a favore dell’accordo tra B. e Renzi. Come ha detto il leghista Centinaio, accusando Grasso: “Abbiamo eletto lei presidente del Senato e non Zanda o Verdini e dovrebbe condurre i lavori indipendentemente da quello che le dicono i partiti del patto del Nazareno”.

Da Il Fatto Quotidiano dell’1 agosto 2014

“Non sono sorpreso dalla clausola anti-Prodi del Patto del Nazareno”. Non si aspettava altro Romano Prodi. Sconta il peccato originale di esser stato l’unico candidato alla presidenza del Consiglio ad aver battuto Silvio Berlusconi. Prima i due governi auto-affossati dal centrosinistra (1998 e 2008), poi i 101 voti mancanti del Pd, l’orribile scherzetto parlamentare che chiuse al Professore le porte del Quirinale (2013) aprendo quelle delle larghe intese. Ma non basta, perché come rivelato dal Fatto Quotidiano, e confermato dalla pasdaran berlusconiana Mariarosaria Rossi sull’huffingtonpost.it, proprio nel “papello” del Nazareno, uno dei punti fermi riguarda ancora l’incubo dell’ex Cavaliere. Così recita il Patto: “In nessun caso, durante le trattative per l’elezione del prossimo presidente della Repubblica, potrà essere fatto il nome di Romano Prodi”. Il Professore ripete da ormai più di un anno, proprio dallo scherzetto dei 101, che per lui i giochi sono finiti: “Game over, non andrò mai al Colle”. Pretattica? Un modo per non bruciare la possibilità di ritornare in corsa al momento opportuno? Può darsi, molti osservatori lo hanno pensato. Ma ieri mattina per Prodi quella che poteva essere un’intuizione è diventata certezza di fronte alla prima pagina del Fatto: “Ultimo segreto del Nazareno: Prodi mai sul Colle”. Quando il Professore risponde al telefono, nel primo pomeriggio di ieri, ha già sfogliato il Fatto da diverse ore. E si aspetta questa chiamata. “Pronto, eccovi”.

Buongiorno Presidente, ha letto della clausola anti-Prodi del Patto del Nazareno, sul Fatto?Come no? Certo che ho letto.
Ed è sorpreso?No. Non sono sorpreso per niente. Non parlo. Non dico nulla. Anzi, una cosa la dico…
Prego.È l’unica buona notizia politica delle ultime settimane. Vi ringrazio. Adesso basta, però.
Ma c’è qualcosa di positivo in questo Patto del Nazareno, a parte la clausola anti-Prodi?Faccia conto che io sia in viaggio nel deserto o sulla luna, senza portatile.
No, mi scusi posso farle ancora una domanda Presidente? Una sola.No.
Lei avrebbe mai stretto un accordo con Berlusconi per riformare la Costituzione?Può chiedermi come mi chiamo al massimo, le rispondo: Romano Prodi.
È il 18 gennaio 2014, il premier e segretario del Pd Matteo Renzi incontra il padrone di Forza Italia Silvio Berlusconi. Immaginate la scena, Berlusconi che fissa questo preciso punto: “Il prossimo presidente della Repubblica lo scegliamo insieme . E l’unico nome che non si potrà fare sarà quello di… Romano Prodi”. Renzi, che ha provato fin da quell’aprile 2013 ad allontanare, a parole, dai suoi fedelissimi l’onta dell’agguato al Professore, alza lo sguardo verso l’ex Cavaliere, si protende per stringergli la mano e dice: “Sì, eleggeremo insieme il capo dello Stato e non sarà Prodi”. Ci pensa la senatrice Mariarosaria Rossi – tesoriere di Forza Italia, fedelissima di Berlusconi e amica intima della fidanzata Francesca Pascale – a confermare tutto: “Sarà naturale per voi eleggere insieme al Pd il successore di Napolitano?”, le chiede Alessandro De Angelis dell’huffingtonpost.it. “Non sbaglia”, risponde lei sicura. Game over.

Da Il Fatto Quotidiano del 2 agosto 2014

La sequenza sbagliata

Nei primi mesi del suo governo, Matteo Renzi si è impegnato su due fronti. Il primo, le riforme istituzionali; l’altro, una discussione con l’Europa sulle regole di bilancio. Evidentemente queste erano, nella sua strategia, le condizioni necessarie per iniziare l’annunciata «mini rivoluzione» economica basata su meno tasse, più flessibilità, piu concorrenza, meno spesa pubblica.

Le due fondamenta della sua strategia stanno però franando. Nonostante i primi risultati sul Senato, in tema di riforme l’atmosfera resta tesa e la strada ancora lunga. E sull’Europa? Da queste colonne si è ripetuto spesso che quel che l’Italia avrebbe dovuto fare da tempo era presentarsi a Bruxelles con un piano preciso di riforme economiche che includessero tagli di imposte sul lavoro con una riforma strutturale del mercato sempre del lavoro, accompagnato da riduzioni di spesa. L’Europa avrebbe potuto concedere un po’ più di flessibilità sui vincoli. Invece di far questo, Renzi ha cercato con la sua simpatia di «ingraziarsi» i partner del Nord Europa promettendo di rispettare i vincoli. Ma ancora non ha ottenuto quanto voleva.

Purtroppo l’economia non aspetta. Il Prodotto interno lordo (Pil) crescerà di qualche decimale dopo aver perso quasi il 10 per cento negli ultimi anni e la disoccupazione giovanile sale.

Renzi ha sbagliato la sequenza delle sue mosse. Doveva partire approfittando della luna di miele della vittoria elettorale alle Europee per presentare un coraggioso piano economico, farlo approvare a colpi di voti di fiducia e poi approdare a Bruxelles forte di questo e, dati alla mano, discutere di vincoli. Con qualche concessione dall’Europa e qualche risultato sull’economia, avrebbe poi potuto affrontare le riforme istituzionali da una posizione di forza.


In ottobre dovremo presentare i conti all’Unione europea. Sarà difficile rimanere sotto il 3 per cento nel rapporto deficit/Pil, con la crescita che è di poco sopra lo zero. Si mormora quindi di un’ulteriore manovra in autunno. Dato che chi doveva occuparsi di tagli alla spesa (Carlo Cottarelli) pare stia per dimettersi perché nessuno lo ascolta, questa manovra, se sarà necessaria, dovrà basarsi su nuove imposte, con effetti negativi per la crescita.

Renzi può quindi presentarsi a Bruxelles in queste condizioni e discutere di cifre decimali del rapporto deficit/Pil (si salveranno i famosi 80 euro?); oppure sfondare il tetto aprendo le procedure del caso e ottenere uno «sconto» dall’Europa. Ma per riuscirci senza spaventare i mercati e i partner Ue, il premier deve far partire qualche riforma. Per esempio quella del lavoro, dando a tutti il segnale che la politica economica italiana sta cambiando marcia.


Certo, tutto ciò è facile a dirsi ma difficile a farsi; anche se, per esempio, la Spagna si è comportata meglio di noi sulla strada e sui tempi delle riforme.
Insomma, l’economia procede a ritmi molto più veloci delle riforme costituzionali e quando un Paese naviga sull’orlo di una crisi da debito, con mercati nervosi, la velocità degli eventi si impone all’economia. Bisogna accelerare. Il tempo non è scaduto ma Renzi deve rivedere l’ordine delle sue priorità.

fonte: Alberto Alesina per il Corriere della Sera del 2 agosto 2014

La peggior forma di governo

  " La democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre fino ad ora sperimentate " Winston Churchill a...