lunedì 31 marzo 2014

Ho giurato sulla Costituzione, non su Rodotà o Zagrebelsky

"Non è che una cosa è sbagliata se non la dice Rodotà. Si può essere in disaccordo con i professoroni o presunti tali, con i professionisti dell’appello, senza diventare anticostituzionali. Perché, se uno non la pensa come loro, anziché dire “non sono d’accordo”, lo accusano di violare la Costituzione o attentare alla democrazia? Io ho giurato sulla Costituzione, non su Rodotà o Zagrebelsky» (Matteo Renzi)

domenica 30 marzo 2014

Il discorso del Papa ai Parlamentari

Le Letture che la Chiesa oggi ci offre possiamo definirle un dialogo fra i lamenti di Dio e le giustificazioni degli uomini. Dio, il Signore, si lamenta. Si lamenta di non essere stato ascoltato lungo la storia. E’ sempre lo stesso: “Ascoltate la mia voce… Io sarò il vostro Dio… Sarai felice…” – “Ma essi non ascoltarono né prestarono orecchio alla mia parola, anzi: procedettero ostinatamente secondo il loro cuore malvagio. Invece di rivolgersi verso di me, mi hanno voltato le spalle” (Ger 7,23-24).

E’ la storia dell’infedeltà del popolo di Dio. E questo lamento di Dio viene perché è stato un lavoro molto, molto grande quello del Signore per togliere dal cuore del suo popolo l’idolatria, per farlo docile alla sua Parola. Ma loro andavano su questa strada per un po’ di tempo, e poi tornavano indietro. E così per secoli e secoli, fino al momento in cui arrivò Gesù. E lo stesso è successo con il Signore, con Gesù. Alcuni dicevano: “Costui è il Figlio di Dio, è un grande Profeta!”; altri, quelli di cui parla oggi il Vangelo, dicevano: “No, è uno stregone che guarisce con il potere di Satana”. Il popolo di Dio era solo, e questa classe dirigente – i dottori della legge, i sadducei, i farisei – era chiusa nelle sue idee, nella sua pastorale, nella sua ideologia. E questa classe è quella che non ha ascoltato la Parola del Signore, e per giustificarsi dice ciò che abbiamo sentito nel Vangelo: “Quest’uomo, Gesù, scaccia i demoni con il potere di Beelzebul” (Mt 11,15).

E’ lo stesso che dire: “E’ un soldato di Beelzebul o di Satana o della cricca di Satana”, è lo stesso. Si giustificano di non aver ascoltato la chiamata del Signore. Non potevano sentirla: erano tanto, tanto chiusi, lontani dal popolo, e questo è vero. Gesù guarda il popolo e si commuove, perché lo vede come “pecore senza pastori”, così dice il Vangelo. E va dai poveri, va dagli ammalati, va da tutti, dalle vedove, dai lebbrosi a guarirli. E parla loro con una parola tale che provoca ammirazione nel popolo: “Ma questo parla come uno che ha autorità!”, parla diversamente da questa classe dirigente che si era allontanata dal popolo. Ed era soltanto con l’interesse nelle sue cose: nel suo gruppo, nel suo partito, nelle sue lotte interne. E il popolo, là… Avevano abbandonato il gregge. E questa gente era peccatrice? Sì. Sì, tutti siamo peccatori, tutti. Tutti noi che siamo qui siamo peccatori. Ma questi erano più che peccatori: il cuore di questa gente, di questo gruppetto con il tempo si era indurito tanto, tanto che era impossibile ascoltare la voce del Signore. E da peccatori, sono scivolati, sono diventati corrotti. E’ tanto difficile che un corrotto riesca a tornare indietro. Il peccatore sì, perché il Signore è misericordioso e ci aspetta tutti. Ma il corrotto è fissato nelle sue cose, e questi erano corrotti. E per questo si giustificano, perché Gesù, con la sua semplicità, ma con la sua forza di Dio, dava loro fastidio. E, passo dopo passo, finiscono per convincersi che dovevano uccidere Gesù, e uno di loro ha detto: “E’ meglio che un uomo muoia per il popolo”.
Questi hanno sbagliato strada. Hanno fatto resistenza alla salvezza di amore del Signore e così sono scivolati dalla fede, da una teologia di fede a una teologia del dovere: “Dovete fare questo, questo, questo…”. E Gesù dice loro quell’aggettivo tanto brutto: “Ipocriti! Tanti pesi opprimenti legate sulle spalle del popolo. E voi? Nemmeno con un dito li toccate! Ipocriti!”. Hanno rifiutato l’amore del Signore e questo rifiuto ha fatto sì che loro fossero su una strada che non era quella della dialettica della libertà che offriva il Signore, ma quella della logica della necessità, dove non c’è posto per il Signore. Nella dialettica della libertà c’è il Signore buono, che ci ama, ci ama tanto! Invece, nella logica della necessità non c’è posto per Dio: si deve fare, si deve fare, si deve… Sono diventati comportamentali. Uomini di buone maniere, ma di cattive abitudini. Gesù li chiama, loro, “sepolcri imbiancati”. Questo è il dolore del Signore, il dolore di Dio, il lamento di Dio. “Venite, adoriamo il Signore perché lui ci ama”. “Ritornate a me con tutto il cuore” – ci dice – “perché sono misericordioso e pietoso”.

Questi che si giustificano non capiscono la misericordia né la pietà. Invece, quel popolo che tanto amava Gesù, aveva bisogno di misericordia e pietà e andava a chiederla al Signore. In questa strada della Quaresima ci farà bene, a tutti noi, pensare a questo invito del Signore all’amore, a questa dialettica della libertà dove c’è l’amore, e domandarci, tutti: Ma io sono su questa strada? O ho il pericolo di giustificarmi e andare per un’altra strada?, una strada congiunturale, perché non porta a nessuna promessa. E preghiamo il Signore che ci dia la grazia di andare sempre per la strada della salvezza, di aprirci alla salvezza che viene soltanto da Dio, dalla fede, non da quello che proponevano questi “dottori del dovere”, che avevano perso la fede a reggevano il popolo con questa teologia pastorale del dovere. Chiediamo noi questa grazia: Dammi, Signore, la grazia di aprirmi alla tua salvezza. La Quaresima è per questo. Dio ci ama tutti: ci ama tutti! Fare lo sforzo di aprirci: soltanto questo ci chiede. “Aprimi la porta. Il resto lo faccio io”. Lasciamo che Lui entri in noi, ci accarezzi e ci dia la salvezza. Così sia.

Papa Francesco, Omelia per la Messa ai Parlamentari, 27 marzo 2014

martedì 25 marzo 2014

Leggi e salsicce

"Se ti piacciono le leggi e le salsicce, non guardare mai come vengono fatte". 

Otto von Bismarck

Tradizione 1

"La tradizione è una bellezza da conservare, non un mazzo di catene per legarci."

Ezra Pound

domenica 23 marzo 2014

Il derby

"Prenderemo in mano la riforma della P.A. per scardinarla completamente.
Lì vedremo il derby palude contro corrente, conservazione contro innovazione. Sarà durissima, la vera battaglia."

(M. Renzi, IL Messaggero, 23 marzo 2014)

L'incubo

Segnalo un punto non marginale per capir bene il personaggio Renzi. Fino a quando sembrava che il governo Letta sarebbe durato fino al 2015 e quindi sarebbe stato Letta a presiedere il semestre europeo di spettanza italiana, l'allora (e tuttora) segretario del Pd sosteneva che la presidenza europea semestrale non contava assolutamente niente. Letta diceva il contrario ma Matteo ci rideva sopra. Da quando però è arrivato a Palazzo Chigi Renzi ha immediatamente cambiato linguaggio sostenendo che quel semestre sarà fondamentale per l'Italia e per l'Europa (anche per il mondo?).

È fatto così, il Re del Pd: cambia linguaggio di continuo, secondo con chi parla; dà ragione a tutti, capisce tutti, incanta tutti (o ci prova). La sua vera natura è quella del seduttore. Da questo punto di vista somiglia molto, ma con metà degli anni, a Berlusconi.

Non entro nell'esame delle coperture, dell'accoglienza europea alle proposte renziane, ai tempi necessari per arrivare ad una svolta vera, che certo non è quella dei 10 miliardi (sette) dell'Irpef. Dico solo che sui tagli di Cottarelli bisogna stare attenti perché ci saranno anche effetti negativi sull'occupazione come conseguenza di alcuni dei tagli proposti.

Ma la considerazione con la quale concludo, molto personale, è la seguente: se è vero, ed è vero, che il seduttore Renzi è più bravo del seduttore Berlusconi, esiste l'ipotesi che l'eventuale successo di Renzi sui vari tavoli del gioco porti con sé dopo vent'anni di berlusconismo vent'anni di renzismo. Questa ipotesi la considero un incubo. Ma magari piacerà agli italiani che in certe cose sono molto strani.

Eugenio Scalfari, La Repubblica, 23 marzo 2014

lunedì 10 marzo 2014

Sul renzismo



Può succedere che, nella pausa di una lunga intervista, ti ritrovi in una cucina affacciata su un terrazzo precocemente fiorito, a far merenda con tè al gelsomino. E capita pure che l’intervistato t’interroghi all’improvviso sui romanzi dostoevskijani, l’Idiota in particolare. “A un certo punto, ricorderà, Ippolít dice a Myskin: ‘Principe, lei un giorno ha detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza’. In russo la parola mir vuol dire mondo e, allo stesso tempo, pace”. Per fortuna partecipa anche la figlia del professor Zagrebelsky, Giulia, studentessa di Lettere. “Abbiamo presente, per esempio, l’orrore in cui vivevano gl’immigrati di Rosarno? È pensabile che fossero in pace con i propri simili? Chi a Taranto è costretto tra le polveri dell’Ilva, non è nelle condizioni di spirito di chi respira aria di montagna. Chiediamoci se viviamo in un mondo bello o sempre più brutto, in ambienti disumani, dominati dalla violenza, dalla sopraffazione, dallo sfruttamento. Altro che bellezza! Che salvi il mondo, questo nostro mondo, è una frase da cioccolatino. Infatti, l’hanno ripetuta in molti, autocompiacendosi, in occasione dell’Oscar a La grande bellezza, come se fosse quella di Myskin. Oggi si parla per non dire nulla. E si è ascoltati proprio per questo. Il vuoto non disturba e, se è detto in certo modo, è anche seducente. In un “Miss Italia” di qualche anno fa, una ragazza, per presentarsi, ha pronunciato una frase memorabile: ‘Credo nei valori e mi sento vincente’. Una sintesi perfetta del grottesco che c’è nel tempo presente”.
Professore, che impressione le hanno fatto i discorsi del neo premier?

Mah! Non tutto piace a tutti allo stesso modo. In attesa di smentite, mi par di vedere, dietro una girandola di parole, il blocco d’una politica che gira a vuoto, funzionale al mantenimento dello status quo. Una volta Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani definirono ‘razza padrona’ un certo equilibrio oligarchico del potere. Oggi, piuttosto riduttivamente, la chiamiamo ‘casta’. Un’interpretazione è che un sistema di potere incartapecorito e costretto sulla difensiva, avesse bisogno di rifarsi il maquillage. Se questo è vero, è chiaro che occorrevano accessori, riverniciature: il renzismo mi pare un epifenomeno. Vorrei dire agli uomini (e alle donne) nuovi del governo: attenzione, voi stessi, a non prendere troppo sul serio la vostra novità.
Il filo rosso di queste conversazioni è come sta l’Italia. Le risposte non sono quasi mai state incoraggianti: ci siamo chiesti quali responsabilità abbia la classe dirigente.

La classe dirigente – intendo coloro che stanno nelle istituzioni, a tutti i livelli – è decaduta a un livello culturale imbarazzante. La ragione è semplice: di cultura politica, la gestione del potere per il potere non ha bisogno. Sarebbe non solo superflua, ma addirittura incompatibile, contraddittoria. Potremmo usare un’immagine: c’è una lastra di ghiaccio, sopra cui accadono le cose che contano, sulle quali però s’è persa la presa; cose rispetto a cui siamo variabili dipendenti: la concentrazione del potere economico e gli andamenti della finanza mondiale, l’impoverimento e il degrado del pianeta, le migrazioni di popolazioni, per esempio. Ne subiamo le conseguenze, senza poter agire sulle cause. Tutto ciò, sopra la lastra. Sotto sta la nostra ‘classe dirigente’ che dirige un bel niente. Non tenta di mettere la testa fuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno tentare di metterle in pratica. Che cosa resta sotto la crosta? Resta il formicolio della lotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli poteri oligarchici, un formicolio che interessa i pochi che sono in quella rete, che si rinnova per cooptazione, che allontana e disgusta la gran parte che ne è fuori. La politica si riduce alla gestione dei problemi del giorno per giorno, a fini di autoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri. Pensiamo a chi erano gli uomini che hanno guidato la ricostruzione dell’Italia dopo la guerra: Parri, Nenni, De Gasperi, Einaudi, Togliatti, per esempio. Se li mettiamo insieme, non è perché avessero le stesse idee ma perché ne avevano, e le idee davano un senso politico alla loro azione. Le cose che, oggi, vengono dette e fatte sono pezze, sono rattoppi d’emergenza, necessari per resistere, non per esistere. Non è politica. Nella migliore delle ipotesi, se non è puro ‘potere per il potere’, è gestione tecnica. La tecnica guarda indietro; la politica dovrebbe guardare avanti.
Il governo Monti qualche disastro tecnico l’ha fatto.
La tecnica come surrogato della politica è un’illusione. Se lei chiama un idraulico perché ha il lavandino otturato, si aspetta che, a lavoro ultimato, lo scarico del lavandino funzioni. Non chiede all’idraulico di cambiarle la cucina. Così, anche i tecnici in politica. Gestiscono i guasti nei dettagli. I governi tecnici per loro natura sono conservatori, devono mantenere l’esistente facendolo funzionare . Dovrebbe essere la politica a immaginare la cucina nuova. E, fuor di metafora, dovrebbe avere di fronte a sé idee di società, programmi, proposte di vita collettiva e, soprattutto nei momenti di crisi come quello che attraversiamo, perfino modelli di società.
Giovani parlamentari e governanti dovrebbero avere un’idea del mondo.
Basta essere nuovi e giovani? No. Quello che conta è la struttura dei poteri cui si fa riferimento e di cui si è espressione. Una volta si parlava di blocco sociale, pensando alle ‘masse’ organizzate in partiti di appartenenza, in sindacati d’interessi consolidati. Si pensava alle classi sociali. Oggi, siamo lontani da tutto questo, in attesa della ricomposizione di qualche struttura sociale che possa esprimere esigenze, richieste e forze propriamente politiche. In questo vuoto politico-sociale che cosa esiste e prospera? La rete degli interessi più forti. È questa rete che esprime i dirigenti attraverso cooptazioni. La democrazia resiste come forma, ma svuotata di sostanza. Se la si volesse rinvigorire, occorrerebbe una società capace di auto-organizzazione politica, ciò che una volta sapevano fare i partiti. Oggi, invece, sono diventati per l’appunto, canali di cooptazione, per di più secondo logiche di clan e di spartizione dei posti. Così, non si promuove il tanto necessario e sbandierato rinnovamento, ma si “allevano” giovani uguali ai vecchi. Ecco la parola: il rinnovamento sembra molto spesso un ‘allevamento’. Il resto è apparenza: velocità, fattività, decisionismo, giovanilismo, futurismo, creativismo ecc. Tutte cose ben note e di spiegabile successo, soprattutto in rapporto con l’arteriosclerosi politica che dominava. Ma, la novità di sostanza dov’è? La ‘rottamazione’ a che cosa si riduce? Tanto più che nelle posizioni-chiave del ‘nuovo’ troviamo continuità anche personali che provengono dal ‘vecchio’ e la soluzione di nodi che ci trasciniamo dal passato è continuamente accantonata, come il cosiddetto conflitto d’interessi.
L’impellente necessità di modificare l’assetto costituzionale è un refrain che abbiamo ascoltato da più parti, negli ultimi anni.

Sì. Le istituzioni possono sempre essere migliorate, rese più efficienti, eccetera. Ma, a me pare che esse siano diventate il capro espiatorio di colpe che stanno altrove, precisamente nelle difficoltà che incontra un aggregato di potere che sempre più difficoltosamente riesce a mediare e tenere insieme il quadro delle compatibilità, in presenza di risorse pubbliche da distribuire sempre più scarse, e in presenza per di più d’una contestazione diffusa. Anche in passato, al tempo di Berlusconi al governo, è accaduto qualcosa di simile, ma non di uguale. L’insofferenza nei confronti della Costituzione a me pare derivasse allora dalle esigenze di un potere aggressivo. Oggi,l’atteggiamento è piuttosto difensivo. I fautori delle ‘ineludibili’ modifiche costituzionali dicono: c’è bisogno di cambiamenti per governare meglio, con più efficienza. Ma lo scopo dominante sembra l’autodifesa. Si tratta di ‘blindarsi’, per usare una parola odiosa molto in voga. Il terrore delle elezioni, la vanificazione dei risultati elettorali, i ‘congelamenti’ istituzionali in funzione di salvaguardia vanno nella stessa direzione.
“Vanificazione dei risultati elettorali”: una cosuccia non da poco in una democrazia. La grande maggioranza degli elettori si è espressa a favore della fine del berlusconismo. Invece è stato ricreato un assetto governativo-parlamentare nel quale un cemento tiene insieme tutto quel che avrebbe dovuto essere separato. Il Parlamento attuale, sebbene non possa considerarsi decaduto per effetto della legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Consulta, dovrebbe considerarsi gravemente privato di legittimazione democratica. Ma si fa ormai finta di niente. Non bisognerebbe far di tutto per rimettere le cose a posto? Larghe intese versus Grillo.
Le larghe intese sono la negazione della dimensione politica. Sono il regime della paralisi, della stasi. Platone paragona il buon politico al buon tessitore, al buon nocchiero, al buon medico. Nei suoi dialoghi, non è mai detto che il politico è colui che s’immagina come debba essere la convivenza nella polis: non si aveva nell’antichità l’idea che la politica fosse fatta di contrapposizione di modelli. L’idea della politica come scelta è una novità moderna. Oggi sembra che si viva in un eterno presente, in cui una posta di natura politica non esiste. Se non ci sono scelte, non c’è politica, e se non c’è politica non c’è democrazia, ma solo conflitti personali, di gruppo o di clan per posti, favori e, nel caso peggiore, garanzie d’immunità.
Quindi siamo senza futuro.
Finché la palude non viene smossa. Perché i cittadini vanno sempre meno a votare? Una volta si diceva ‘son tutti uguali’, intendendo ‘sono tutti corrotti’. Ma oggi è peggio, si pensa: ‘tanto non cambia nulla’. È un effetto della stasi politica. Il Movimento 5 Stelle è nato col dichiarato intento di smuovere la palude, addirittura di investirla con una burrasca che rovesci tutto. Una negazione, dunque. Ma, la politica deve contenere anche un intento costruttivo. Questo, finora, non è visibile o, almeno, non è percepito. Non che sia molto diverso, presso gli altri partiti, solo che questi sono già radicati e godono perciò del plusvalore che viene dall’insediamento istituzionale. Per chi si affaccia, un’idea chiara e forte del ‘chi siamo’ e ‘per cosa ci siamo’ è indispensabile. La tabula rasa e la rete non sono programmi. Non lo è nemmeno la lotta alla corruzione che, di per sé, rischia d’essere solo una competizione per la sostituzione d’una oligarchia nuova a una vecchia. Oltretutto, la storia e la stessa ‘materia del potere’ mostrano che nella politica la lotta contro la corruzione è senza prospettiva. Contro la corruzione devono valere le istituzioni di controllo e l’intransigenza dei cittadini. La politica è intrinsecamente debole. La ragione sta in quella che, all’inizio del secolo scorso, è stata definita la ‘ferrea legge delle oligarchie’, il che significa che i grandi numeri, per essere governati, hanno bisogno dei piccoli. I piccoli – e l’osservazione vale per tutti, anche per i 5 Stelle – prima o poi si chiudono in se stessi e si alimentano con la corruzione, alimentandola a propria volta. In difetto di politica, alla corruzione non c’è limite perché essa, nei regimi autoreferenziali, non è la patologia, ma la fisiologia del potere. Se si vuole: è la fisiologia dentro una patologia.
Senza speranza, dunque?
Siamo di fronte a un bivio. Da una parte c’è il progressivo arroccamento che, prima di implodere, passerebbe attraverso misure, dirette o indirette, contro la democrazia e la Costituzione. Dall’altra, la rianimazione della politica e la riapertura dei canali della partecipazione, che dovrebbe portare al rafforzamento della democrazia e della Costituzione. La prima strada è pericolosa anche per chi volesse percorrerla, perché l’inquietudine sociale, prima o poi, esploderebbe con esiti che non vorremmo nemmeno immaginare. La seconda è difficile perché la politica non s’inventa a tavolino scrivendo documenti, ma si costruisce quotidianamente nel rapporto con i bisogni, le aspirazioni, le difficoltà e i dolori dei cittadini.
Cosa pensa della decisione di non chiedere un passo indietro ai sottosegretari indagati?
La giovane ministra per i rapporti col Parlamento ha detto che non si chiede a qualcuno di dimettersi solo perché inquisito. Giusto. Altrimenti, la politica sarebbe in balia non solo, o non tanto, della discrezionalità dei giudici, ma soprattutto di denunce pretestuose o calunniose, alle quali il magistrato deve dare corso. La questione però sta in quel “solo”. Politica e giustizia hanno logiche diverse. Nulla vieta al governo di difendere – fino a un certo punto – i suoi inquisiti con le ragioni che gli sono proprie, cioè con ragioni politiche. Ma deve spiegare perché lo fa, pur in presenza di motivi di sospetto; deve assumersene la responsabilità; deve giustificare perché abbandona uno e protegge un altro. Non basta dire che si tratta ‘solo’ di procedimenti penali avviati e non conclusi (con una condanna). La presunzione d’innocenza non c’entra nulla con la dignità della politica.
Lei è mai stato tentato dalla politica?
Ciò cui mi sento più adatto è l’insegnamento. Per la politica, soprattutto per la politica, occorrerebbe una vera vocazione. Ricorda la conferenza di Max Weber intitolata, per l’appunto, la politica come professione-vocazione? Ecco: non sento la vocazione. C’è poi una considerazione che riguarda un potenziale conflitto d’interesse. Chi si occupa di attività intellettuali deve essere disinteressato personalmente. Ancora citando Weber: non deve cedere alla tentazione di mettere se stesso, e i suoi interessi, davanti all’oggetto dei suoi studi. Potrebbe esserci la tentazione di dire cose e sostenere tesi non per amore della verità (la piccola verità che si può andar cercando), ma per ingraziarsi questo o quel potente che ti può offrire, arruolandoti, una carriera politica.
Perché la politica non attrae più i migliori?
Una volta avere in famiglia un deputato o un senatore era come avere un cardinale. Oggi, talora, ci si vergogna perfino. Ha visto quanti ‘rifiuti eccellenti’, opposti alla seduzione di un posto al governo? Se la politica non ha prospettive ma è semplicemente un girone d’affari, non servono politici, servono affaristi.
Vota?
Ho sempre votato, malgrado tutto. C’è una pagina di Non c’è futuro senza perdono del premio Nobel per la Pace e arcivescovo di Città del Capo, Desmond Tutu, in cui si descrive la coda al seggio dei neri del suo Paese che, acquistati i diritti politici dopo l’apartheid, per la prima volta vanno a votare, piangendo. Attenzione a dire che il voto è un orpello.
Cosa pensa dell’Italicum nato dall’accordo tra il Pd  e Forza Italia?
Non so che cosa ne verrà fuori. Mi colpisce, comunque, che la legge elettorale sia decisa dagli accordi d’interesse di tre persone (Berlusconi, Renzi, Alfano), invece che dalle ragioni della democrazia, cioè dalle ragioni di tutti i cittadini elettori. Mi colpisce tanta arroganza, mentre con un Parlamento delegittimato come l’attuale, si tratterebbe di fare la legge più neutrale possibile. Mi colpisce che si pensi a una legge che, contro un’indicazione precisa della Corte costituzionale, creerebbe una profonda disomogeneità politica tra le due Camere. Mi colpisce che si dica con tanta leggerezza che non importa, perché il Senato sarà abolito. Mi colpisce che nel frattempo, comunque, si sospenderà il diritto alle elezioni, perché la contraddizione tra le due Camere impedirà di scioglierle. Mi colpisce che non ci siano reazioni adeguate a questa passeggiata sulle istituzioni.
E l’idea di “diminuire” il Senato?
Vedremo la proposta. Fin da ora, vorrei dire che piuttosto che un pasticcio – interessi frammentati di politici locali con una spruzzata di cultura –, piuttosto che una cosa indefinita, senza una funzione, una propria ragion d’essere stabile e continuativa, meglio l’abolizione radicale. Meglio il nulla, piuttosto che l’umiliazione. Esistono già commissioni paritetiche, per la bisogna. Si cerchi di non trattare le istituzioni come merce vile che si vende al qualunquismo antiparlamentare al prezzo di qualche piccolo risparmio sul ‘costo della politica’. I Senati, o ‘seconde Camere’, o ‘Camere alte’ hanno profonde ragioni d’esistenza. Le loro funzioni, quali che esse specificamente siano, si giustificano con l’esigenza di introdurre nei tempi brevi della democrazia rappresentativa la considerazione d’interessi di più lunga durata, che riguardano – come si dice – le generazioni future. Sono assemblee moderatrici rispetto all’incalzare del consenso elettorale che deve essere incassato a intervalli brevi dall’altra assemblea. La prima Camera è necessariamente miope; la seconda Camera deve essere presbite. Deve far valere le ragioni della durata su quelle dell’immediatezza. La sua composizione e le sue funzioni dovrebbero tener conto di questa vocazione, essenziale affinché la democrazia rappresentativa non dilapidi in tempo breve le risorse di tutti, nell’interesse elettorale di qualcuno. Mi pare che i discorsi dei nostri riformatori restino molto in superficie, rispetto alla profondità della questione.
Non è un bel momento, anche per le istituzioni di garanzia.
Le istituzioni di garanzia sono la magistratura, dunque anche la corte costituzionale, e il presidente della Repubblica. Poi c’è la libera stampa, che dovrebbe vigilare nell’esercizio della sua funzione al servizio della pubblica opinione. Siccome nelle oligarchie, come si è detto, le segrete cose – trattative, patti non dichiarati e dichiarabili, corruzione delle funzioni pubbliche – sono fisiologiche, le istituzioni di garanzia e libera stampa dovrebbero fare da contraltare quando occorre. In ogni caso, non mescolarsi e non omologarsi.
Il sistema italiano è perfettamente riassunto dal  rapporto tra Rai e politica: è una commissione parlamentare che vigila sul servizio pubblico – e sull’informazione che produce – e non il contrario. Ben più che un paradosso.
È uno dei grandi rovesciamenti che ci tocca osservare in questi tempi. Non l’unico. Pensiamo ad esempio al sistema elettorale. Dovrebbe garantire che la base della vita politica stia presso i cittadini elettori. La logica della legge che abbiamo avuto fino a ora e, con ogni probabilità, di quella che avremo se la riforma andrà in porto, è invece quella della nomina dall’alto (delle segreterie dei partiti), con ratifica degli elettori. Uno dei principi del Fascismo era: ‘il potere procede dall’alto ed è acconsentito dal basso’.
Torniamo a Weber: cosa può indurre uno studioso a rinunciare a un bene sommo quale l’autonomia?  Le risposte più banali sono la seduzione del potere, la carriera. C’è però, credo, la tentazione dell’apprendista stregone o della ‘mosca cocchiera’: pensare di guidare la politica. Quando Carl Schmitt è stato processato a Norimberga, ha osato dire: ‘Non sono io a essere stato nazista, era il nazismo a essere schmittiano’. Il pericolo non è essere costretti a sostenere certe tesi a tutti i costi?
Se si riferisce all’atteggiamento di molti costituzionalisti nei confronti dell’ultima fase della presidenza di Giorgio Napolitano, direi che è prevalsa l’idea che il presidente della Repubblica fosse l’ultimo baluardo, al di là del quale il caos, il disastro, il fallimento. Ciò ha portato a giustificare l’assunzione di compiti e il compimento di atti che nella storia costituzionale repubblicana, non si erano mai incontrati. Al punto che si parla ormai come cosa ovvia, non problematica, d’una repubblica presidenziale che ha preso il posto del sistema parlamentare. Tutto ciò si è manifestato in un attivismo finora sconosciuto. Ma è stato un attivismo orientato a quella che si dice essere la stabilità e la continuità, e che si traduce in conservazione. Mi pare che si possa dire che è prevalsa la paura del nuovo, il pessimismo politico. Solo apparentemente per paradosso, l’attivismo costituzionale è coinciso con il conservatorismo politico. La Costituzione, prevedendo un ruolo neutrale e super partes, del presidente della Repubblica, dà, mi pare, un’indicazione opposta: l’imparzialità costituzionale per consentire le innovazioni politiche, il rinnovamento della vita politica. Ottimismo politico.


9 marzo 2014 

Silvia Truzzi per il Fatto Quotidiano


La data

"La data è la differenza tra il sogno e il progetto" 
Walt Disney (citato da Matteo Renzi)

sabato 8 marzo 2014

Oculatezza e trasparenza

(ANSA) - CITTA' DEL VATICANO, 8 MAR - Occorre vigilare attentamente affinché i beni degli Istituti religiosi "siano amministrati con oculatezza e trasparenza" e perché siano ancora oggi, per la Chiesa e il mondo, gli avamposti dell'attenzione a tutti i poveri e a tutte le miserie, materiali, morali e spirituali": così il Papa nel messaggio per il Simposio Internazionale organizzato a Roma dalla Congregazione per la Vita consacrata, sulla gestione dei beni ecclesiastici degli ordini religiosi.

La peggior forma di governo

  " La democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre fino ad ora sperimentate " Winston Churchill a...