domenica 30 agosto 2015

Schiere di angeli per Papa Francesco

Nelle prossime settimane papa Francesco andrà a Cuba, poi a Filadelfia e infine a Washington dove incontrerà Obama e parlerà al Congresso degli Stati Uniti e a New York dove parlerà all'Assemblea dell'Onu e alle grandi potenze del Consiglio di sicurezza. Sappiamo già quale sarà - al Congresso Usa e all'Assemblea Onu - il tema fondamentale di Francesco: quello dei migranti. 

Lui li chiama così ed è perfettamente corretto dal suo punto di vista; per alcuni Paesi sono persone che vogliono emigrare e lo fanno a prezzo della vita; per altri Paesi sono immigranti che vengono in certi casi accolti, in altri respinti per mancanza dei requisiti richiesti. Ma per Francesco la parola giusta è quella che Lui usa sempre più spesso: migranti. Sono popoli che per una quantità di ragioni si trasferiscono da un continente all'altro, quasi sempre in condizioni di schiavitù imposte da trafficanti di persone. Popoli che, solo pensando all'Africa 
sub-sahariana dal Ciad alla Somalia, dalla Nigeria al Sudan, ammontano a cinque milioni per il 2015-16, ma a 50 milioni entro i prossimi trent'anni. Ma non è solo in Africa che avviene questo fenomeno: sta sconvolgendo tutto il Medio Oriente, i Balcani, la Turchia, la Siria, gran parte dell'Indonesia e delle Filippine. Insomma mezzo mondo è in movimento, individui, comunità e interi popoli. Le migrazioni non sono un fenomeno nuovo ma nella società globale il fenomeno coinvolge masse imponenti come non era mai accaduto prima.
Venerdì scorso ho avuto un lungo colloquio telefonico con papa Francesco, che ha toccato vari temi, ma soprattutto quello delle migrazioni. Non starò a raccontare ciò che ci siamo detti su altri argomenti ma su questo sì, penso e desidero farlo perché è dominante nella coscienza del Papa e perché comunque sarà tra pochi giorni direttamente affrontato in due sedi della massima importanza.  

Francesco sa benissimo che le immigrazioni dirette verso continenti di antica opulenza e di antico colonialismo, anche se riconoscono alcuni diritti di asilo con più ampia tolleranza di quanto finora non sia avvenuto, saranno comunque limitate. Ma il suo appello al Congresso americano e a tutte le potenze che rappresentano il cardine dell'Onu e quindi del mondo intero, verterà necessariamente su un altro aspetto fondamentale delle migrazioni: una conquista di libertà dei migranti che avviene, per cominciare, nei luoghi stessi dove ancora risiedono e dai quali vorrebbero fuggire. È lì, proprio in quei luoghi, che il diritto di libertà va riconosciuto, oppure nelle loro adiacenze, creando se necessario libere comunità da installare in aggregati che esse stesse avranno costruito e amministreranno con l'aiuto di centinaia o migliaia di volontari che le assisteranno con una serie di servizi e con un'educazione allo stesso tempo civica e professionale. Questo è il progetto che papa Francesco sta coltivando e che ovviamente ha bisogno del sostegno delle grandi potenze indipendentemente dalla loro civiltà, storia, religione.
La Chiesa missionaria di Francesco sarà naturalmente presente in tutti i luoghi dove le sarà possibile, ma i volontari da mobilitare non saranno ovviamente tutti cristiani. Saranno però soprattutto i giovani ai quali fare appello. I giovani d'oggi hanno una gran voglia di fare che a volte si identifica addirittura alla violenza e al terrorismo. Ma non è il male la radice più naturale. Francesco crede e spera che la radice più diffusa sia quella del fare e dell'aiutare il bene degli altri. Per questo prega e questo pensa e di questo parlerà nel prossimo viaggio. Riuscirà ad ottenere la sponsorizzazione dei Grandi del mondo? Riuscirà a mobilitare al massimo le Chiese missionarie cattoliche e cristiane in un'impresa di questa levatura? 

Collaboreranno nei loro modi anche le altre grandi religioni del mondo, non inquinate da germi fondamentalisti che portano al terrorismo e alla strage? Una cosa è certa, almeno per me ma credo per immense moltitudini di persone: non c'è che papa Francesco che sia in grado di tentare una simile iniziativa. Ascoltando il suo linguaggio direi che chieda il soccorso di migliaia e migliaia di angeli custodi, in tutte le parti del mondo, ispirati dal Dio che è uno soltanto, quali che siano le forme, le liturgie e le scritture con le quali è venerato.

Eugenio Scalfari, La Repubblica, 30 agosto 2015

domenica 23 agosto 2015

L'uso del tempo

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni 5,15-20

Fratelli, fate molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da saggi, facendo buon uso del tempo, perché i giorni sono cattivi. Non siate perciò sconsiderati, ma sappiate comprendere qual è la volontà del Signore. 

E non ubriacatevi di vino, che fa perdere il controllo di sé; siate invece ricolmi dello Spirito, intrattenendovi fra voi con salmi, inni, canti ispirati, cantando e inneggiando al Signore con il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo.

sabato 22 agosto 2015

«It's your CV that counts, not nationality»

 
Come spesso succede nel nostro amato Paese, il dibattito ha immediatamente preso la peggiore delle pieghe: quella del surreale scontro sugli 'stranieri'. Colpa della Lega, di Maurizio Gasparri, e anche del Movimento 5 Stelle che hanno sfoderato una penosa, e incomprensibile, retorica nazionalista: al (patetico) grido di «L'Italia agli italiani».

A onor del vero anche i commenti di alcuni degli esclusi hanno, poco decorosamente, cavalcato questa risibile tigre. Il direttore degli Uffizi Antonio Natali ha ironizzato in questi termini: «I knew I would not win the bid for the Uffizi when the government statistics office told me I could not change my name to Anthony Christmas». E il direttore dell'Accademia Angelo Tartuferi ha parlato di «sconfitta del nostro Paese», aggiungendo: «abbiamo inventato in Italia la tutela dei beni culturali e schiere di tedeschi sono venuti a studiarla da noi... Senza risentimento, ma mi pare che questi colleghi non siano idonei a colmare questo presunto vuoto».

A questo punto, osservatori come Roberto Saviano e Michele Serra hanno preso la parola per dire l'unica cosa sensata: e cioè che non c'è nulla di strano, né tantomeno di sbagliato, in un tedesco che dirige gli Uffizi. Sbagliato e strano è, anzi, trovarlo sbagliato o strano.

Tuttavia anche queste ovvie considerazioni sono state subito travisate, strumentalizzandole fino a leggerle come un endorsement alle scelte di Franceschini. Ma dire che è normale nominare un non italiano, non significa dire che la nomina di quel non italiano sia giusta a prescindere: altrimenti si cade nell'errore speculare. Perché esiste il provincialismo xenofobo di Gasparri, ma esiste anche il provincialismo esterofilo di chi pensa che basti non essere italiani per essere 'nuovi', o perfetti per la parte. Mentre il ministro Franceschini ha giustamente detto al New York Times che «it's your CV that counts, not nationality».

Ma il punto, larghissimamente eluso dai commentatori, è proprio questo: le nomine sono o non sono giustificate dai curricula dei candidati? Perché il problema non sono gli stranieri: ma semmai gli estranei, e cioè coloro che non hanno nulla che a fare (culturalmente e scientificamente) con i musei che andranno a dirigere.

Lo stesso ministro Franceschini ha scritto, in un editoriale sulla prima pagina dell'Unità renziana, che «Con queste 20 nomine di così grande levatura scientifica internazionale il sistema museale italiano volta pagina e recupera un ritardo di decenni. La commissione di selezione ha fatto un grande lavoro ed ha offerto al Direttore Generale dei Musei del Mibact, Ugo Soragni, e a me la possibilità di scegliere in terne di assoluto valore. I nuovi direttori sono sia stranieri che italiani e alcuni di questi ultimi tornano nel nostro Paese dopo esperienze di direzione all’estero».

Sul presunto ritardo tornerò nel terzo e ultimo punto di questo post. Qui vorrei notare che, per poter vendere il proprio compitino, il ministro è costretto a dire il falso, sbandierando una «grande levatura scientifica internazionale» che semplicemente non esiste. Idem per il «valore assoluto»: che manca.
 
Attenzione: non voglio dire che tra i direttori non ci siano ottimi storici dell'arte e bravi curatori. Ma – come in queste ore stanno notando in molti (come la Associazione Bianchi Bandinelli o la Uil) – in quasi tutti i casi si tratta di curatori di sezioni di musei, e solo in pochissimi di direttori di (piccoli) musei (provinciali): nemmeno uno ha avuto esperienze nemmeno lontanamente comparabili alle responsabilità che si accinge ad assumere. 

Con questa selezione, insomma, lo Stato italiano ha fatto una scommessa, scegliendo di affidare direzioni a persone non ritenute mature per una direzione nelle stesse istituzioni in cui finora lavoravano. È giusto, sensato, prudente scommettere contemporaneamente sui nostri venti più importanti musei? Quante possibilità ci sono che ci vada bene in tutti e venti i casi? E cosa staremmo rischiando, se andasse male?

E qui cominciano i dubbi – gravi dubbi – sulla procedura. È responsabile fondare una simile scommessa su un colloquio di quindici minuti, e sulla lettura di un curriculum?

Un elemento di comparazione: per scegliere l'ex direttore della Galleria Estense Davide Gasparotto come curatore della collezione di dipinti, il Getty Museum di Los Angeles ha ritenuto necessari un'intervista skype di 2 ore, un colloquio privato col direttore di 2 ore, due visite di tre giorni durante le quali il candidato ha trascorso molto tempo col direttore e il vicedirettore, e poi un lungo colloquio col presidente dei Trustee. E in questo caso era un direttore di museo che diventava curatore di sezione: mentre noi abbiamo fatto il contrario in soli 15 minuti!

Sarebbe imbarazzante discutere i singoli nomi dei nuovi direttori: ma è impossibile non notare che nella stragrande maggioranza dei casi (prescindendo dal valore scientifico dei candidati) non c'è alcuna competenza specifica sul museo e sulle collezioni che andranno a dirigere. E se la nazionalità non è un argomento, forse la competenza dovrebbe esserlo.

Infine: la commissione non ha scelto i direttori, ma ha presentato rose di tre nomi al ministro e al direttore generale dei musei. Il primo ha scelto i direttori dei sette musei più grandi e importanti il secondo quello degli altri tredici. Domanda: è possibile leggere i nomi che componevano queste terne? Sarebbe fondamentale poterle conoscere, se vogliamo provare a capire in base a quali criteri Dario Franceschini e Ugo Soragni hanno usato un potere incredibilmente discrezionale. Un potere che, nel caso del ministro, sostanzia in modo clamoroso, e per me clamorosamente sbagliato, un'ingerenza politica diretta nella vita dei più grandi musei della nazione.


Una finestra aperta da cui entra finalmente aria nuova. Un gesto di rottura. Un bel segnale. Un sasso nello stagno. Sono queste le metafore che hanno incarnato il giudizio di chi si è espresso a favore delle nomine: come Gian Antonio Stella sul Corriere e Francesco Bonami sulla StampaÈ un modo di pensare molto diffuso nell'Italia di oggi, e non solo a proposito dei musei: è questo l'unico vero 'argomento' a favore di Matteo Renzi, e del suo governo. Sarebbe meglio qualunque scuola di questa scuola, e meglio qualunque Senato di questo Senato: e così via. Un simile modo di guardare al potere e ai suoi atti non è, tuttavia, una novità: semmai una costante nella nostra storia. Piero Calamandrei annota nel suo diario che perfino il grande filologo Giorgio Pasquali pensava e diceva: «Il fascismo sarà aria buona, sarà aria cattiva, ma insomma è aria».

Invece io non credo che gli atti di governo si possano giudicare sul piano simbolico, o metaforico. Siamo allo storytelling del governo senza il governo. Al racconto delle riforme senza le riforme. Ma la bontà di un metodo (di un gesto, di una finestra aperta, di una ventata d'aria...) va giudicata sulla base dei  risultati che produce, non su quello degli effetti mediatici che suscita.

In questi giorni, tuttavia, anche molti colleghi e amici mi hanno detto che tutto quello che ho appena scritto è verissimo, ma che la situazione dei musei era così compromessa che qualunque 'novità' era comunque preferibile al 'vecchio'. Insomma, Franceschini avrebbe fatto bene a comportarsi, rispetto al nostro patrimonio, come l'amante descritto da una splendida canzone di Fabrizio De André: «E sarà la prima che incontri per strada / che tu coprirai d'oro per un bacio mai dato, /per un amore nuovo».

Io non sono d'accordo. Riconosco – e credo di averlo scritto più di tutti – le infinite, gravissime insufficienze, e perfino i veri e propri tradimenti, di molti dei funzionari delle soprintendenze a cui erano affidati quei musei. Ma credo che la strada imboccata da Franceschini aggiungerà danno a danno, stortura a stortura, errore ad errore. O davvero pensiamo che affidare la Reggia di Caserta a un esperto di marketing e il Museo Archeologico di Napoli a un funzionario comunale  (per approfondimenti rinvio ad un mio articolo uscito oggi sulla cronaca napoletana di Repubblica) sia la soluzione? O anche solo che sia meglio del 'vecchio'?
Quando, nella Commissione Bray per la riforma del Mibact, cominciammo a discutere dell'autonomia di alcuni grandi musei italiani, pensammo e dicemmo che l'autonomia doveva essere funzionale a rendere questi musei dei veri centri di ricerca, capaci di tornare a produrre, e quindi a redistribuire, conoscenza. Tutto questo non è avvenuto: come ammette Paolo Baratta, che sedeva in quella commissione e oggi ha presieduto quella per la scelta dei direttori. Oggi l'Archeologico di Napoli ha 6 archeologi e Capodimonte 5 storici dell'arte, Brera 4, la Galleria Estense di Modena 2 e la Galleria Borghese 3: di quali supermusei stiamo parlando? E di quale rivoluzione culturale? Qua nemmeno un direttore come Roberto Longhi potrebbe fare qualcosa di serio!

Infine, quando pensavo che i musei sarebbero potuti ritornare ad essere luoghi civici e centri di umanizzazione, avevo in mente la triste sorte degli Uffizi, asserviti alle più spietate logiche del mercato. In questi anni ho più volte scritto che l'enorme responsabilità di questa mutazione era anche da ascrivere al tradimento di chi ha governato negli ultimi decenni la Soprintendenza di Firenze: e ho deplorato il fatto che le encomiabili resistenze del direttore degli Uffizi non avessero mai trovato la forza, né peraltro avessero gli strumenti di autonomia, per emergere esplicitamente ed efficacemente.
 
Ebbene, la prime dichiarazioni del nuovo direttore Eike Schmidt non hanno riguardato la ricerca o l'accesso dei cittadini alla conoscenza, ma – suscitando il giusto sdegno di Jean Clair – la sua determinazione ad affittare ai privati le sale del museo per eventi commerciali e convention di imprese. Evidentemente, Franceschini ha dunque raggiunto il suo scopo: eliminare anche quell'ultimo residuo di timide resistenze alla completa mercificazione del nostro patrimonio. Ecco qual era il famoso ritardo finalmente recuperato.

Spero di sbagliarmi: magari – nonostante la loro diretta nomina ministeriale – i nuovi direttori saranno più liberi, coraggiosi e forti dei loro predecessori. Forse si getteranno in quelle battaglie che sono state disertate dai loro predecessori. Lo spero davvero. Ma per ora non riesco a vedere nessuna novità, nessuna rivoluzione culturale. Vedo solo che il lungo smantellamento del progetto della Costituzione sul nostro patrimonio culturale conosce in questi giorni un nuovo, deprimente traguardo.
 
fonte: Tomaso Montanari, La Repubblica

Il nuovo potere della finanza



Qualche mese prima che la depressione lo strappasse alla vita per consegnarlo, esattamente cinque anni fa, alla morte, Francesco Cossiga si abbandonò a una previsione esatta. Eravamo seduti nello studio del suo appartamento romano, appartamento medio borghese del borghese quartiere Prati. Era autunno, fuori pioveva, dentro faceva caldo. Il Presidente indossava una veste da camera e tutto in lui aveva il passo lungo della Storia. Era come gravato da un peso, Cossiga. E da quel peso sapeva che non si sarebbe mai liberato. Portava in spalla il cadavere della Politica e come Tantalo non poteva sfamarsi al magro desco apparecchiato allora dai partiti. Era molto tempo che Cossiga, palato raffinato abituato a gusti più decisi di quelli che ormai passava il convento, non si nutriva dell’alimento per lui vitale.  

Era molto tempo che a suo dire la Politica era morta e di quel forzoso digiuno un poco per volta stava morendo anche lui. Rinunciare era impossibile – non c’è vita, per il politico, fuori dalla politica – illudersi anche. Non gli restava che il ruolo del profeta: profeta di sventure, visti i tempi.

Dopo aver vaticinato la rapida e ingloriosa fine del berlusconismo e la nascita di un leader «inutilmente moderno» a sinistra, quel pomeriggio d’autunno il Presidente interruppe bruscamente il discorso, ormai mestamente scivolato sull’evergreen delle riforme istituzionali, fece una lunga pausa (cosa insolita, per lui) e senza distogliere lo sguardo dal vuoto scandì: «Ma queste, in fondo, sono tutte cazzate. È la schiuma della Storia. Il tema, oggi, è la fine del potere, ormai sottratto sia agli Stati sia alla politica per essere trasferito alla finanza e alle tecnostrutture globali.
La vera partita è vedere come l’Unione europea, cioè la più ottusa e antidemocratica delle creature ‘politiche’, sceglierà di distruggersi e l’effetto che produrrà sugli Stati ormai esangui la gigantesca ondata migratoria che travolgerà l’Occidente». La sovranità, dunque, e l’identità: le due questioni vitali e preliminari. I presupposti di ogni politica, l’essenza di ogni democrazia.
Fuori pioveva, dentro faceva caldo. Cinque anni fa la Politica – «con la ‘p’ maiuscola» come piaceva dire a lui – ha perso il suo ultimo, grande interprete e con Francesco Cossiga si è spenta una fiamma antica. Ricomincia dalla questione democratica (chi siamo, chi comanda e chi legittima chi comanda) un nuovo ciclo politico dai contorni ancora a dir poco oscuri.

Andrea Cangini

"Viviamo nel tempo dell’arte cloaca"

fonte: La Repubblica, 21. agosto 2015

In questi giorni Jean Clair è a Venezia, in giro con la moglie per calli e mostre. Vent’anni fa curò una Biennale dedicata al volto e al corpo umano, ma oggi è deluso. Non gli piacciono le esposizioni affollate di turisti e quando gli si chiede di commentare la nuova riforma dei musei, all’inizio sembra possibilista, ma poi di fronte all’idea di una nuova figura di direttore-manager si accalora: «Un direttore di un museo non deve fare grandi mostre, ma far conoscere il patrimonio spirituale di una nazione. È la fine. L’arte ha perso ogni significato».

L’argomento lo appassiona. Risale ormai a qualche anno fa un suo saggio intitolato La crisi dei musei, mentre nel più recente L’inverno della cultura ha disseminato pagine durissime contro i musei-luna park ridotti a magazzini di opere preziose. Per il grande critico e storico dell’arte, il sistema museale è ormai asservito alla logica mercantile, come qualsiasi altro prodotto. Nel suo ultimo libro, intitolato Hybris. La fabbrica del mostro nell’arte moderna ( Johan & Levy), studia la morfologia dell’arte moderna, le sue deformazioni morbose, il suo progressivo allontanamento dalla bellezza. Il fatto che Jean Clair sia stato anche direttore del Centre Pompidou e del museo Picasso, lo spinge a guardare con curiosità a quanto sta accadendo nel nostro paese.
Che cosa non la convince nella riforma italiana dei musei?
«Prima di tutto ho paura che non si rispetti l’identità di un museo, la specificità della cultura locale che vi è custodita e che va tutelata».

Un direttore straniero potrebbe essere inadatto a questo compito?
«Un direttore di un museo deve per prima cosa essere un critico e uno storico dell’arte. Da questo punto di vista, scorrendo la lista dei nomi selezionati, mi pare che ci siano professionalità di rilievo. Conosco Sylvain Bellenger, che a Capodimonte farà un ottimo lavoro. Ma il problema è un altro. È un problema spirituale e culturale più ampio. Si stanno trasformando i musei in fondi bancari, in macchine finanziarie, hedge fund specializzati in speculazioni. Non abbiamo più idea di che cosa sia l’arte, di quale sia il suo compito».

Non pensa sia anacronistico tentare di arginare l’internazionalizzazione della cultura?
«Sono curioso di vedere cosa accadrà in Italia. Il fatto che molti dei prescelti siano stranieri è in sé un fatto positivo, se non fosse che dovranno operare dentro musei ridotti a macchine per incassare soldi. Io stesso prima di essere nominato al Beaubourg e al museo Picasso ho studiato in America. Ricordo il sorriso del direttore del Louvre quando decisi di partire. Mi disse: “Che vai a fare in America?” Non lo ascoltai. Sono rimasto ad Harvard tre anni. Era il 1966. Da lì sono poi andato in Canada, al museo nazionale».

Nei suoi scritti ha però attaccato più volte il sistema museale contemporaneo. Mercato e cultura sono forze antagoniste?
«Molti musei sono in mano a mercanti senza cultura. Il compito di un museo dovrebbe invece essere educare e dilettare. Il direttore dovrebbe preoccuparsi di tutelare il patrimonio d’arte che gli è affidato senza venderlo. Prenda l’idea di portare il Louvre ad Abu Dhabi. Una follia».

Crede si arriverà a questo anche in Italia?
«Ho l’impressione che tra un po’ di tempo ci sarà l’esigenza di mettere sul mercato qualche opera per rimpinguare le casse della macchina-museo. Nel 2006, Françoise Cachin, che è stata la prima donna a essere eletta direttrice dei musei di Francia, scrisse un articolo contro l’idea di vendere i musei e venne allontanata dal suo incarico. Invece aveva ragione. Le opere d’arte sono ormai ridotte a merce senza qualità, senza identità».

Immagino che l’idea di affittare un museo per eventi privati non le piaccia affatto…
«L’idea del neo direttore tedesco degli Uffizi, Eike Schmidt, di dare in affitto delle stanze della galleria segna l’inizio della fine. O piuttosto la continuazione di una decadenza della quale lui stesso sarà il responsabile finale».

Lei ha guidato grandi musei. Ora ai direttori si richiede di essere anche dei manager. Quali possono essere dal suo punto di vista le conseguenze di un tale cambiamento?
«Guardi cosa succede al Centre Pompidou, dove si è chiusa da poco una retrospettiva dedicata a Jeff Koons. La mostra è stata appaltata a privati. Duemila metri quadrati di esposizione per mettere in scena una buffoneria. Una buffoneria che prende però autorevolezza dalle collezioni del Beaubourg, che sono il vero patrimonio del museo, come l’oro conservato nei caveau delle banche. Sono Cézanne e Picasso a dare valore a Koons. I musei sono utilizzati come riserve auree per dar credito a operazioni di manipolazione finanziaria, forniscono quel deposito che dà pregio alle proposte del mercato privato. Quella di Koons è chiaramente un’operazione fraudolenta, un falso, una bolla speculativa. È quanto accade quando si preferiscono direttori manager. Come nel caso di Alain Seban, alla guida del Pompidou».

Ma per far funzionare il sistema museale servono soldi, dove trovarli?
«Il costo per mantenere un museo è ridicolo rispetto a quello della sanità o dei trasporti».

Al centro della riforma c’è l’idea di “valorizzazione”? Le piace?
«È un termine delle banche. Si valorizzano i soldi non le opere d’arte. Leggo che nei musei si apriranno ristoranti e bookshop. C’è bisogno di un manager per aprire un ristorante?»

Ha visitato la Biennale Arte?
«Tantissimi padiglioni da tutto il mondo, tutti uguali. Sono a Venezia da qualche settimana e quello che vedo mi spaventa. I musei sono molto frequentati, come le spiagge, ma non sono più frequentabili».

Come ridare significato all’arte?
«L’opera d’arte non significa più nulla, è autoreferenziale, un selfie perpetuo. I jihadisti dell’Is hanno decapitato l’archeologo Khaled Asaad. Da una parte abbiamo paesi che credono nell’arte al punto da uccidere e dall’altra pure operazioni di mercato».

Meglio tornare al passato?
«Non è possibile. Viviamo nel tempo dell’arte cloaca. Il museo è il punto finale di un’evoluzione sociale e culturale. È una catastrofe senza precedenti. Il crollo della nostra civiltà».

mercoledì 19 agosto 2015

Il Vescovo Galantino ricorda de Gasperi


La "ricostruzione" italiana. Il modello e l'esempio di Alcide De Gasperi
(Pieve Tesino, 18 agosto 2015)

Porgo un saluto sincero a tutti voi, che avete voluto impreziosire quest’appuntamento annuale con la vostra presenza: saluto i familiari di Alcide De Gasperi, i numerosi cittadini, i rappresentanti delle Istituzioni – le Amministrazioni, la Provincia di Trento e il Parlamento – e il caro Arcivescovo di questa Chiesa.

Quando, a nome della Fondazione Trentina Alcide De Gasperi, il prof. Giuseppe Tognon mi ha proposto la Lectio su De Gasperi sono subito stato tentato di rispondere di no; mi ha trattenuto dal rifiutare il pensiero che non è mai giusto sprecare occasioni di confronto e di riflessione, specie in un tempo come il nostro, tutt’altro che incline al confronto e alla riflessione; non mi dispiaceva nemmeno il desiderio di poter rendere onore, come figlio di un antico militante democristiano nella terra di Giuseppe Di Vittorio e come Vescovo, a un cristiano così libero e coraggioso come è stato Alcide De Gasperi.

Se potete dunque perdonare la mia audacia, a maggior ragione vi chiedo di accogliere con benevolenza, sotto il nome di De Gasperi, le cose che porto nel cuore e che spero possano aiutarci a recuperare fiducia nella fede e nella politica, che è quello di cui parlerò oggi. Abbiamo bisogno di entrambe, sempre di più. Senza politica si muore. Le società si disgregherebbero e la prepotenza umana dilagherebbe. Nessuno ha inventato ancora un sostituto delle istituzioni politiche, del diritto, della democrazia. Le società hanno bisogno di essere governate; da cristiani e da cittadini consapevoli, dobbiamo aggiungere che dovrebbero essere governate prima di tutto secondo giustizia. 

1. Le virtù personali e le virtù politiche di De Gasperi 
L’esempio di De Gasperi è sotto quest’aspetto unico, dalle radici profonde. Sulla sua spiritualità ho letto nel testo di Maurizio Gentilini l’ampio saggio di don Giulio Delugan, storico direttore di Vita trentina, che fu legato allo Statista da uno stretto e duraturo rapporto di amicizia. Emerge, in seguito all’avvento del fascismo, il lungo “periodo di umiliazione e di tribolazione” a cui De Gasperi fu costretto, periodo che “in certi momenti raggiunse dei toni veramente drammatici”. Proprio di quel periodo Delugan può scrivere: “Ho sempre trovato e ammirato in De Gasperi – e lo dico non per sciocca adulazione postuma, ma per rendere omaggio alla pura verità oggettiva – il cattolico guidato da una fede granitica, coerente, cristallina, di una condotta pratica esemplare e a volte veramente ammirabile”. E ancora: “Non ho mai notato neppure l’ombra del così detto sdoppiamento di coscienza, per cui nella vita privata si seguono certe norme di condotta e nella vita pubblica se ne seguono altre…”. A ben vedere, ogni commento è superfluo… Si capisce, invece, come De Gasperi abbia potuto attraversare alcuni tra i più difficili passaggi della storia contemporanea conservando una straordinaria serenità d’animo. Le sue virtù personali sono state anche le sue virtù politiche. Ha avuto il dono di una coerenza invidiabile: “La fede e la condotta religiosa di De Gasperi – è ancora Delugan che scrive – non è stata una bella facciata, che nasconde il vuoto come certe facciate di palazzi in città bombardate durante la guerra; non è stata un abito da cerimonia per certe solenni occasioni, o una luce tardiva sorta nel suo spirito solo negli ultimi anni, ma qualche cosa di intimo, di profondo, di incarnato nella sua anima, di sostanziale e di genuino, che ha informato, plasmato e guidato il suo spirito fin dai suoi giovani anni e l’ha poi accompagnato ispirandone parole e azioni per tutta la vita”.

La professione politica ha quindi condotto De Gasperi là dove non avrebbe mai pensato di arrivare. Prima suddito ai margini di un Impero, poi di un Regno che lo ha imprigionato e quindi finalmente cittadino di una Repubblica che egli ha contribuito in maniera decisiva a costruire e che, invece, non ne ha sempre riconosciuto i meriti. 

2. La “Ricostruzione italiana”: la complessa esperienza degasperiana
De Gasperi non è solo un esempio, ma è un modello che merita di essere studiato come elemento centrale di una storia collettiva esemplare. L’esperienza degasperiana della Ricostruzione italiana è una cosa diversa e ben più complessa della formula del Centrismo con cui gli storici definiscono gli anni dal 1948 al 1954. Essa è un’esperienza popolare che va oltre le vicende politiche nazionali: è una forma alta di partecipazione e insieme una dimostrazione di ciò che si può realizzare quando la si assume davvero come una missione di servizio. Si può discutere se la Ricostruzione sia stata il compimento del Risorgimento -, ma non si può negare che ha costituito il passaggio storico in cui le donne e gli uomini italiani, popolo e Chiesa, hanno dimostrato una straordinaria capacità di resilienza, una autentica conversione alla forma democratica, a dimostrazione che la democrazia richiede sempre anche virtù eroiche perché non è mai un regime di comodo. 

Durante la seconda guerra mondiale, la Chiesa, soprattutto il basso clero, ebbe la forza di schierarsi dalla parte del popolo e riuscì a non pagare prezzi troppo alti alla sua compromissione con il regime fascista. In cambio di questa benevolenza popolare (una fiducia antica che come Chiesa dobbiamo sempre nuovamente meritare) ha potuto chiamare alla politica un’intera generazione di giovani, la generazione di Moro e di Fanfani, e tenere unito il mondo cattolico. Ma questa nuova leva di deputati e senatori e quest’unità politica che abbracciava sindacati, associazionismo, organizzazioni religiose, e che qualcuno nella Chiesa pensava di poter manovrare a piacimento, non avrebbero avuto il loro successo se non avessero incontrato un capo come De Gasperi, uomo dell’Ottocento, certo, ma un maestro, esigente, lungimirante, libero. Nel 1954 il ventre della DC e i giovani leoni, impazienti, vollero scrollarsi di dosso l’ingombrante leader: credettero di poter fare meglio e in alcuni casi, forse, vi riuscirono, ma con la fine politica di De Gasperi si chiuse davvero un’epoca che ritorna attuale oggi. 

Noi siamo in pieno nel passaggio verso una nuova intelligenza civile: il mondo è cambiato, nulla sembra uguale a prima, e la memoria di maestri come De Gasperi diventa ancora più attuale. Egli non volle mai essere seguace di dottrine sterili o antiliberali ed ebbe sempre la preoccupazione che i cattolici non apparissero coloro che operavano per la conservazione di una struttura sociale e statale non voluta, solo ereditata, e in molte parti ormai marcia. 

I dieci anni che vanno dalla Liberazione alla morte dello statista, nel 1954, sono stati il decennio più eroico della storia politica italiana. Un decennio non idilliaco, pieno di problemi, di opere incompiute e anche di cose storte. La strategia politica degasperiana può apparire a qualcuno quasi scontata, vista la divisione del mondo in blocchi, ma non si tiene conto che nulla allora per l’Italia era scontato, che il Paese era radicalmente ignorante di democrazia e, soprattutto, che il blocco moderato era profondamente conservatore. Portare i cattolici verso una democrazia governante in una alleanza strategica tra classe operaia e ceto medio è stato per De Gasperi come una traversata del deserto o del Mar Rosso. Fu un decennio di scelte decisive, sbagliando le quali si sarebbe potuto rovinare tutto.

L’Italia che era entrata in guerra non esisteva più. L’Italia che avrebbe dovuto essere, nessuno ne conosceva con esattezza l’identità: il fascismo aveva in qualche modo corrotto l’anima di un intero Paese e le classi dirigenti antifasciste erano state messe all’angolo, se non al confino. Dal 1946 si navigò invece in mare aperto, con grandi partiti di massa che erano come delle grandi navi, potenti ma zavorrate da tante attese e da correnti, e che per entrare nel porto della democrazia domandavano piloti abili e coraggiosi. 

3. I cardini della “Ricostruzione” degasperiana

La Ricostruzione degasperiana rimane un modello perché De Gasperi l’ha ancorata intorno a tre cardini, che restano solidi e che hanno consentito che si aprisse la porta ad una nuova Italia. 

3.1. Rispetto delle istituzioni ed esercizio di democrazia
Il primo cardine è il rispetto delle Istituzioni e, in particolare, del Parlamento. Basterebbe riprendere in mano quanto disse in questa stessa circostanza ormai dieci anni fa Leopoldo Elia, intervenendo su Alcide De Gasperi e l’Assemblea Costituente, per trovarvi spunti ed elementi al riguardo. De Gasperi fu segretario di partito e poi presidente del Consiglio per otto anni, ma tutte le scelte fondamentali della sua politica interna e internazionale sono state elaborate dai partiti all’interno del Parlamento, nel rispetto più assoluto delle regole e con un faticoso quanto meticoloso lavoro politico svolto in profondità. Ciò ha comportato non poche difficoltà nel gestire sia le coalizioni di governo sia le diverse e vitali correnti di partito, ma mai De Gasperi ha ceduto alla tentazione di coartare il Parlamento, che era la sede in cui egli pretendeva il rispetto e in cui poteva riconoscere alle opposizioni il ruolo che meritavano. Quando nel 1953, preoccupato degli scricchiolii della propria maggioranza, propose una nuova legge elettorale maggioritaria, contro cui si scatenò una pesante campagna denigratoria, il suo premio di maggioranza sarebbe comunque scattato solo se la coalizione avesse raggiunto la maggioranza dei voti, il 50%!

Il Parlamento era la sede della legittimazione della volontà popolare, il luogo nel quale, soprattutto, si costruivano le riforme sociali, l’anima autentica di ogni democrazia, che non può ridursi a semplice politica fiscale e tanto meno a una politica economica meccanica. De Gasperi aveva ben chiaro che una crisi come quella del secondo dopoguerra non poteva essere vinta con la leva dei soli strumenti economici: era necessario che una rigorosa politica di bilancio fosse inserita in una visione politica internazionale ed europea e venisse sostenuta – vorrei dire incarnata – da una ferrea tempra morale. Nella relazione politica al Congresso nazionale della DC del novembre 1952 De Gasperi disse:
“Lo Stato democratico deve essere forte. La forza è prima interiore, nella giustizia della legge, e poi esteriore e strumentale, nell’autorità di imporre la legge e di punire i trasgressori. La forza dello Stato è nel suo diritto, nella legittimità del potere, nella razionalità delle disposizioni, nella precisione dell’ordine. Lo Stato è forte se il legislativo è illuminato e se è stabile e forte l’esecutivo, anche per realizzare una politica di riforme sociali”.
Oggi siamo più vicini di quanto crediamo alle sfide che De Gasperi dovette affrontare, anche se esse a molti non appaiono oggi così drammatiche. Siamo di fronte alla necessità non solo di una nuova forma di convivenza fra i popoli, ma anche di un nuovo modello macro-economico, di una nuova politica industriale, di una politica dei diritti sociali più completa. Chi pensa, chi adotta, chi realizza queste riforme? Esse richiedono una democrazia costruita con un di più di ascolto, un di più di precisione e di attenzione ai dettagli, per adattare i grandi principi dell’uguaglianza e della solidarietà a regole sempre nuove di giustizia, che non può rimanere una questione confinata nelle aule dei tribunali. 

De Gasperi è un modello. I modelli di un sarto o i prototipi di un’officina sono i materiali più preziosi di ogni impresa, sono semi d’intelligenza e d’esperienza, ed è su di essi che si fonda l’innovazione. Una politica senza memoria, che pretenda di ricominciare da zero, non ha futuro e rischia, nel migliore dei casi, di essere velleitaria. La politica, come le Istituzioni che ne sono il fondamento, ha bisogno di tempi e di spazi di manovra, soprattutto in democrazia, dove l’equilibrio tra i poteri non può ridursi al rispetto formale di regole. La democrazia non è soltanto una forma di governo, ma la condizione necessaria per esercitare in positivo le libertà individuali, civili e sociali. La democrazia è un metodo di vita, un’aspirazione al riconoscimento della dignità delle persone e dei popoli.

3.2. Il bene comune : ispirazione della politica e della religione
Il secondo cardine della Ricostruzione degasperiana è quello dell’ispirazione ideale della politica e della religione al bene comune. Oggi ci appare una cosa lontana, ma la politica che De Gasperi ha praticato era ben lontana dalla presunzione che la politica fosse tutto e che ad essa potesse essere chiesto ciò che invece non può dare: forza interiore, resistenza al male, disposizione interiore alla solidarietà. “Dirsi cristiani nel settore dell’attività politica – disse De Gasperi nel 1950 – non significa aver diritto di menar vanto di privilegi in confronto di altri, ma implica il dovere di sentirsi vincolati in modo più particolare da un profondo senso di fraternità civica, di moralità e di giustizia verso i deboli e i più poveri”.

Il progetto attuale di un umanesimo autosufficiente e di una società senza regole e senza limiti non appartiene alla visione degasperiana. L’umanesimo presuntuoso e insieme superficiale che ben conosciamo è fallito o, meglio, sopravvive in una meccanica politica che non si preoccupa di distinguere tra ciò che ha un’anima e ciò che non ce l’ha e non sa riconoscere dove c’è ancora vitalità. Certo, non è ancora tempo di cure palliative - l’uomo e il creato non sono moribondi - ma nemmeno è tempo di cullarsi in false illusioni. 

Recuperare la passione per la Ricostruzione di un popolo e di un mondo non è impresa facile, anche se necessaria. Pascal – ma lo farà in maniera illuminata anche Rosmini - in uno dei suoi frammenti più belli ha descritto un terzo ordine della realtà, quello della carità, che rispetto a quello dell’intelletto e delle cose materiali o dei corpi, ha una potenza soprannaturale che non conosce eguali. 

“Gesù Cristo – scrisse Pascal – senza ricchezza e senza nessuna ostentazione esteriore di scienza, sta nel proprio ordine di santità. Non ha fatto invenzioni, non ha regnato; ma è stato umile, paziente, santo a Dio, terribile per i demoni, senza alcun peccato. […] Tutti i corpi insieme e tutti gli spiriti insieme, tutte le loro produzioni, non valgono il minimo moto di carità. Questo è un ordine infinitamente più elevato. Da tutti i corpi insieme non si potrebbe far scaturire un piccolo pensiero: ciò è impossibile, è di un altro ordine. Da tutti i corpi e gli spiriti insieme, non sarebbe possibile trarre un moto di vera carità: ciò è impossibile perché è di un altro ordine, di un ordine soprannaturale”.

Questo terzo «ordine della carità» non è effimero o invisibile perché anima ogni fibra del creato. E la politica può esserne la più alta traduzione nelle cose degli uomini. La politica come ordine supremo della carità: questa io credo dovrebbe essere la grande avventura per chi ne sente la missione. A questo penso si riferisse Paolo VI quando parlava della politica come della “forma più alta della carità”.

Credetemi, è questo che mi ha spinto a essere fin troppo chiaro (qualcuno ha scritto “rude”) negli interventi di questi ultimi giorni – almeno quelli non inventati - sui drammi dei profughi e dei rifugiati: nessun politico dovrebbe mai cercare voti sulla pelle degli altri e nessun problema sociale di mancanza di lavoro e di paura per il futuro può far venir meno la pietà, la carità e la pazienza. L’Europa che De Gasperi ha contribuito a fondare era più generosa di quella di oggi e i suoi capi politici farebbero bene a ricordarsi da dove gli europei sono venuti e dopo quali terribili prove. L’Europa non può diventare una maledizione; è un progetto politico indispensabile per il mondo, a cui la Chiesa guarda con trepidazione, come un esempio, un dono del Signore.

Rispetto all’ordine politico della carità o, se volete, del bene comune, è chiaro che il riformismo – di cui tanto si parla anche in questo tempo – non basta, o, almeno, non può essere fine a se stesso, quasi potesse risolversi in un esempio di movimento per il movimento. Esso è sempre necessario, è cura del quotidiano o pena per il presente, ma appartiene, come categoria, a una stagione della politica che è ormai superata, nella quale si avevano troppe speranze di progresso e si dava importanza ai ruoli, anche tra il clero. 

Ricostruire, invece, è cosa diversa. E’ un evento che si realizza sulla spinta di una concentrazione di virtù, di passioni e di intelligenza che va preparata e che si manifesta solo a certe condizioni. Soprattutto è un passaggio che richiede sempre grandi uomini, figure capaci di interpretare il proprio tempo con quella tenacia che non proviene dall’aver frequentato le migliori scuole, le migliori sagrestie o dall’aver imparato tutte le astuzie della politica nelle segreterie dei partiti. Ci vuole altro… La politica come ordine della carità è un’impresa difficile eppure necessaria, un’esperienza del limite che il cristiano può comprendere come anticamera della salvezza. Ho letto nel testamento spirituale di uno storico importante, Pietro Scoppola, il primo dei miei illustri predecessori in questa tribuna degasperiana, una definizione della politica che a mio parere è molto degasperiana: “La politica mi ha appassionato, non strumentalmente come mezzo per un fine diverso dalla politica stessa, ma come politica in sé, come disegno per il futuro, come valutazione razionale del possibile, e come sofferenza per l’impossibile, come chiamata ideale dei cittadini a nuovi traguardi, come aspirazione a un’uguaglianza irrealizzabile che è tuttavia il tormento della storia umana. Mi ha interessato la politica per quello che non riesce a essere molto di più che per quello che è”. 

3.3. Una sana laicità… oltre il fanatismo e lo smarrimento dei valori 
Il terzo cardine della ricostruzione degasperiana è quello della laicità, tema che ancora infiamma il dibattito in Europa e nei Paesi democratici, alle prese da un lato con fenomeni terribili di fanatismo e d’intolleranza – ne sono stato testimone diretto nei giorni scorsi, durante una visita compiuta in alcuni campi di profughi iracheni – e, dall’altro, con uno smarrimento generale di valori, una mancanza di virtù che è più insidiosa di ogni laicismo. 

L’Italia degasperiana è stata un’Italia diversa anche sul piano dell’esperienza religiosa. De Gasperi ha dato una dignità diversa al laicato cattolico – lo ha reso adulto, protagonista – e, pur rispettando la Chiesa e il papato, ha capito di che cosa era capace il popolo italiano e in particolare i laici cattolici. «Il credente - disse il 20 marzo 1954 - agisce come cittadino nello spirito e nella lettera della Costituzione e impegna se stesso, la sua categoria, la sua classe, il suo partito, non la chiesa». Pio XII fu molto scontento di quel discorso e ordinò alla «Civiltà cattolica» di criticare e correggere De Gasperi, che per l’ennesima volta soffrì in silenzio. D’altra parte due anni prima Nenni aveva annotato nel diario queste parole di De Gasperi: «Sono il Primo Presidente del Consiglio cattolico. Credo di aver fatto verso la chiesa tutto il mio dovere. Eppure sono appena tollerato».

E’ giusto dire ad alta voce, almeno oggi, come è stato fatto con Rosmini, che De Gasperi non è stato del tutto compreso dalla Chiesa e che ha patito più di quanto avrebbe dovuto. Nessuno è profeta in patria, e a De Gasperi, che tra i politici cattolici dell’Occidente è stato forse il più capace, ma che ha dovuto subire il condizionamento pesante da parte dei conservatorismi politici ed ecclesiastici, è toccato il destino di aver ragione anche davanti al sospetto e, per certi versi, alla resistenza di Papa Pio XII e di molti suoi consiglieri. Aveva ragione De Gasperi. La sua pazienza e il suo coraggio nella ricostruzione politica, economica e civile dell’Italia sconfitta fu il miglior regalo alla storia del cattolicesimo politico italiano: portare la Chiesa a confrontarsi con la democrazia e fare dei cattolici italiani il pilastro di quest’ultima. L’Italia, con De Gasperi, passò da essere «il giardino del papa» a uno dei Paesi fondatori dell’Europa unita. Non è poco, anche se a noi oggi appare quasi scontato.

4. De Gasperi: punti fermi contro altari vuoti e poteri assoluti
De Gasperi veniva da lontano. Aveva vissuto in prima linea il risveglio del cattolicesimo sociale e la stagione delle opere. Veniva da un Trentino che era stato un laboratorio per l’intera Europa di operosità cattolica, ma anche del rinnovamento della coscienza cattolica che, come in De Gasperi, si costruì intorno a pochi punti fermi: la preghiera personale, la Bibbia, la comunità. De Gasperi fu un uomo dai rapporti umani corti, cioè vicini alla realtà quotidiana, ma dai rapporti politici lunghi, proiettati su una scala e su un tempo che appartengono alla grande Storia. Realismo e prossimità da un lato, visione e disegno cristiani dall’altro. Al centro un’interiorità solida e fiduciosa. La laicità non è libertà individuale di fare ciò che si vuole, non concerne leggi che devono assecondare i desideri di ciascuno, e non è nemmeno una semplice morale laica, da piccoli borghesi garantiti dal benessere: in positivo, la laicità è un progetto di vita fondato sul rispetto della complessità dell’uomo, sulla tradizione storica e sulla fiducia nella capacità della politica di trovare un punto di mediazione che non sia la rinuncia a ciò che si crede. La laicità della politica è anche saper perdere con dignità per preparare tempi migliori; è anche comprendere che è sempre meglio lottare per convincere che protestare per sdegnarsi; da cristiano e da vescovo dico che laicità è anche fare chiarezza in mezzo al popolo e poi rispettarne la volontà. Gli esempi, legati alla cronaca di questa stagione, non mancano. 

De Gasperi è un trentino come lo è stato Antonio Rosmini, che amo e che ho studiato con passione. I due personaggi hanno molto in comune: sono stati dei riformatori della società e della Chiesa, ciascuno nel proprio ambito, ed hanno patito entrambi l’ostracismo di tutti coloro che non concepivano che la storia fosse importante e decisiva anche nella Chiesa, perché solo la realtà vivente è capace di lottare contro altari vuoti e poteri assoluti. La storia non è monarchica o teocratica, come non può esserlo la coscienza, che è quell’abito interiore che ci richiama sempre alla nudità e alla mendicanza davanti al Signore, ma anche davanti ai fratelli, ai compagni del genere umano.

Va anche aggiunto che, grazie a De Gasperi e alla Democrazia cristiana, i cattolici italiani hanno avuto anche il merito storico di riconciliare la fede con la storia – uno degli esiti più alti del Concilio Vaticano II, che De Gasperi avrebbe vissuto certamente con grande gioia e trepidazione accanto a Montini, il futuro papa che gli era stato amico e consigliere e che in qualche modo ne prese l’eredità dopo la sua morte. 

La ricostruzione italiana, compreso il capolavoro degasperiano e togliattiano di concedere al Concordato del 1921 di essere riconosciuto nella nuova Carta costituzionale, va ben oltre la riaffermazione del potere temporale della Chiesa. Con i Patti lateranensi la «questione romana» si era chiusa ancora all’insegna del potere temporale del papato e se non ci fossero stati uomini come Sturzo e De Gasperi, con i molti loro amici, per il cattolicesimo italiano le cose avrebbero potuto mettersi molto male. Invece, la lotta politica e la libertà di giudizio di laici come De Gasperi hanno fatto in modo che non fosse quello il piccolo Stato a cui guardare, lo Stato oltre Tevere, ma piuttosto la Repubblica degli italiani, uno Stato democratico nuovo, costituzionale, di pace, di sviluppo. L’Italia repubblicana è stata davvero un caso di successo a livello mondiale: lo era stata già al momento dell’unificazione cento anni prima che De Gasperi fondasse la Democrazia cristiana, ma con la Costituzione e con la Ricostruzione degasperiane, lo divenne su scala europea ed entrò così, con la sua grandezza e i suoi limiti, tra le nazioni a cui guardare con rispetto ed interesse. 

Su questo principio della laicità e della religiosità della politica De Gasperi ha molto da insegnarci. La sua santità sta nella fecondità di ciò che ha fatto in una lunga e operosa vita politica. E a noi oggi appare più chiaro ciò che voleva dirci. Lo Stato vaticano dovrebbe essere come un’oasi, di pace e di accoglienza, dove tutti coloro che hanno problemi possano venire per farsi ascoltare e confortare. La Chiesa cattolica non ha bisogno di mura respingenti, di eserciti agguerriti o di burocrazie mortificanti. La Chiesa ha bisogno di donne e uomini agili e curiosi, rapidi nel comprendere e nel dimenticare le offese, forti nell’amare, ambiziosi nell’intelletto, coraggiosi nello sperare. Pensiamo spesso che il buon cattolico sia un uomo a metà, una via di mezzo tra gli ambiziosi e i disperati e non è vero. Pensiamo che un cattolico sia un uomo con il freno a mano, che non possa godere del successo della scienza o dei frutti della ricchezza, ma sono bestemmie perché non c’è nessun motivo che ci spinga a rinunciare ad offrire al Signore il meglio dell’intelligenza e dello sviluppo economico e tecnologico. Il cristiano è solamente colui che, anche in questi campi, mette tutto se stesso al servizio degli altri e nelle mani del Signore. E De Gasperi ha avuto il dono di comprendere che nella società contemporanea non c‘era e non c’è nulla di altrettanto potente e forte di una politica ispirata da valori universali, da cui dipendiamo tutti e a cui tutti dobbiamo rispetto. Certo, la politica non è forse quella che siamo stati abituati a vedere oggi, vale a dire un puzzle di ambizioni personali all’interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi. La politica è ben altro, ma per comprenderlo è inutile prodursi in interminabili analisi sociologiche o in lamentazioni, quando è possibile guardare a esempi come quello degasperiano. I veri politici segnano la storia ed è con la storia che vanno giudicati, perché solo da quella prospettiva che non è mai comoda, si possono percepire grandezze e miserie dell’umanità. Il Signore è risorto in terra di Israele, tra il suo popolo, ma per l’intera umanità. 

La Chiesa inoltre non ha bisogno di grandi organizzazioni materiali perché ha a disposizione la parola di Dio e l’intera fraternità umana; non ha bisogno di diplomazie esclusive, ma di uno spirito evangelico, come papa Francesco non si stanca di ricordarci. 

Ma ciò che forse può valere per la Chiesa, seme nel mondo, non può valere per le società contemporanee che hanno sempre più bisogno di competenze politiche e d’intelligenze morali. Che cosa saremmo noi vescovi italiani senza l’Italia? La nostra missione non può essere disgiunta dal destino di questo nostro Paese, a cui siamo non solo fedeli, ma servitori. 

Ciò significa allora che il papa, i vescovi e i presbiteri hanno bisogno di essere inseriti a loro volta in una comunità impegnata e solida che li ascolti, certo, ma anche che li aiuti e li sostenga. 

5. Una eredità … oltre gli individui
“Chi sono oggi gli eredi di De Gasperi?”. Un anno fa, a Trento per ricevere il premio internazionale De Gasperi, Romano Prodi rispose in questo modo che faccio mio: “La risposta non va cercata solo in un singolo individuo – disse – ma nella forza delle idee. Alle quali si deve aggiungere la particolare capacità che un politico per essere qualificato come statista deve possedere: dire la verità alla propria gente; avere una visione coerente e competente della realtà; avere il senso supremo della responsabilità, al di là della propria convenienza di parte e della propria prospettiva personale; non vivere per se stesso, ma per una prospettiva comune». 

Un popolo non è soltanto un gregge, da guidare e da tosare: il popolo è il soggetto più nobile della democrazia e va servito con intelligenza e impegno, perché ha bisogno di riconoscersi in una guida. Da solo sbanda e i populismi sono un crimine di lesa maestà di pochi capi spregiudicati nei confronti di un popolo che freme e che chiede di essere portato a comprendere meglio la complessità dei passaggi della storia. Il significato della guida in politica non è tramontato dietro la cortina fumogena di leadership mediatiche o dietro le oligarchie segrete dei soliti poteri. La politica ha bisogno di capi, così come la Chiesa ha bisogno di vescovi che, come ha detto Papa Giovanni siano «una fontana pubblica, a cui tutti possono dissetarsi». Tra le luci della ribalta e il buio delle mafie e delle camorre non c’è solo il deserto: la nostra terra di mezzo è un’alta vita civile, che è la nostra patria di uomini liberi e che, come tale, attende il nostro contributo appassionato e solidale.

Nunzio Galantino
Vescovo emerito di Cassano all’Jonio 
Segretario generale della CEI

La peggior forma di governo

  " La democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre fino ad ora sperimentate " Winston Churchill a...