domenica 29 novembre 2015

Non pretendere che diventino cristiani migliori

LETTERA AD UN MINISTRO
[234] 1 A frate N... ministro. Il Signore ti benedica!
2 Io ti dico, come posso, per quello che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti sono di impedimento nell'amare il Signore Iddio, ed ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri anche se ti coprissero di battiture, tutto questo devi ritenere come una grazia.
3 E così tu devi volere e non diversamente. 4 E questo tieni in conto di vera obbedienza da parte del Signore Iddio e mia per te, perché io fermamente riconosco che questa è vera obbedienza. 5 E ama coloro che agiscono con te in questo modo, e non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te. 7 E in questo amali e non pretendere che diventino cristiani migliori.

[235] 3 E questo sia per te più che stare appartato in un eremo.
9 E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore ed ami me suo servo e tuo, se ti diporterai in questa maniera, e cioè: che non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato, quanto è possibile peccare, che, dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne torni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede; 10 e se non chiedesse perdono, chiedi tu a lui se vuole essere perdonato. 11 E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attrarlo al Signore; ed abbi sempre misericordia per tali fratelli.

[236] 12 E avvisa i guardiani, quando potrai, che tu sei deciso a fare così.
[237] 13 Riguardo poi a tutti i capitoli della Regola che trattano dei peccati mortali, con l'aiuto del Signore, nel Capitolo di Pentecoste, raccolto il consiglio dei frati, ne faremo un Capitolo solo in questa forma:
14 Se qualcuno dei frati, per istigazione del nemico, avrà peccato mortalmente, sia tenuto per obbedienza a ricorrere al suo guardiano, 15 E tutti i frati, che fossero a conoscenza del peccato di lui, non gli facciano vergogna né dicano male di lui, ma ne abbiano grande misericordia e tengano assai segreto il peccato del loro fratello, perché non i sani hanno bisogno del medico, ma i malati (Mt 9,12). 16 E sempre per obbedienza siamo tenuti a mandarlo con un compagno dal suo custode. 17 Lo stesso custode poi provveda misericordiosamente a lui, come vorrebbe si provvedesse a lui medesimo, se si trovasse in un caso simile.

[238] 13 E se fosse caduto in qualche peccato veniale, si confessi ad un fratello sacerdote. I9 E se in quel luogo non ci fosse un sacerdote, si confessi ad un suo fratello, fino a che possa trovare un sacerdote che lo assolva canonicamente, come è stato detto. 20 E questi non abbiano potere di imporre altra penitenza all'infuori di questa: "Va' e non peccare più!" (Cfr. Gv 8,11).
[239] 21 Questo scritto tienilo con te, affinché sia meglio osservato, fino al capitolo di Pentecoste; là sarai presente con i tuoi frati. 22 E queste e tutte le altre cose, che sono ancora poco chiare nella Regola, sarà vostra cura di completarle, con l'aiuto del Signore Iddio.

S.Francesco

giovedì 26 novembre 2015

Il suicidio del broker


Si è impiccato nella sua villa a Lurago d'Erba nel Comasco, Leonida Rossi, il broker indagato dalle procure di Milano e di Lugano nell'indagine con al centro un ammanco di quasi 50 milioni dalle casse dell'Ordine dei Frati Minori. Rossi, 78 anni, cittadinanza italiana, residenza estera in Kenya, svizzero per "sedicente" attività di fiduciario, è stato trovato giovedì mattina dai militari nel Nucleo Valutario della Finanza nella sua villa. Villa a cui ieri sono stati messi i sigilli in vista di una perquisizione.

Mercoledì le fiamme gialle hanno passato al setaccio l'ufficio e la residenza svizzere del broker e quello della società milanese Anycom, a lui riconducibile, a caccia di documenti cartacei e informatici per fare chiarezza su come siano spariti tutti quei soldi, 49 milioni e 500 mila euro, così come denunciato dalla Provincia Lombardia, dalla Casa Generalizia con sede a Roma e dalla Conferenza dei ministri di Italia e Albania, tre enti della stessa confraternita. Inoltre a Rossi, accusato di truffa dalla magistratura elvetica di truffa, e in Italia di abusiva attività finanziaria e reimpiego di proventi illeciti, sono stati sequestrati anche beni mobili e immobili per quasi 5 milioni di euro.

Oltre al broker, poi, sono stati perquisiti anche tre ex economi dell'ordine: si tratta di Giancarlo Lati, Renato Beretta e Clemente Moriggi, i quali, accusati di appropriazione indebita, non avrebbero, però, tratto beneficio personale dalla vicenda, ma avrebbero impiegato i fondi della cassa dell'Ordine secondo modalità non autorizzate.

Secondo la ricostruzione dei pm milanesi Sergio Spadaro, Adriano Scudieri e Alessia Miele, Rossi, dopo essersi guadagnato la fiducia di chi amministrava il patrimonio finanziario dell'Ordine, avrebbe ricevuto, tra il 2007 e il 2014, notevoli somme di denaro. Un mare di soldi che nel corso del tempo sarebbero stati depositati sui suoi conti bancari in Svizzera per essere investiti, "al di fuori - si legge nel decreto di perquisizione - degli scopi e delle finalità religiose proprie dell'Ente", a tassi di interesse - aveva assicurato - non inferiori al 12 per cento. Inizialmente, il "sedicente" fiduciario avrebbe corrisposto alcune somme pari agli interessi, ma in seguito - secondo la denuncia dei francescani - non avrebbe restituito né capitale, né interessi, determinando in tal modo il maxi ammanco nelle casse dei tre enti dei frati minori. In più avrebbe usato i soldi dei francescani "in attività edilizie speculative finalizzate alla costruzione di complessi alberghieri in Africa".

Dunque, per la Procura, assieme ai tre ex economi, si sarebbe reso responsabile "di gravissime irregolarità nella gestione finanziaria" dei tre enti che hanno sporto denuncia e, si ipotizza, "di altri Organismi religiosi francescani, dell'Opera Don Bosco Salesiani" e di persone ancora da individuare. Ora i pm analizzeranno la documentazione raccolta dalla guardia di finanza per ricostruire i movimenti finanziari, come e dove sono avvenuti gli investimenti, ed eventualmente recuperare i milioni sottratti all'Ordine.

In una nota congiunta l'Ordine, pur esprimendo "cordoglio per l'umana perdita" di Rossi, sostiene che la morte del broker impone di fare piena chiarezza con le indagini.

fonte: Repubblica

mercoledì 25 novembre 2015

La truffa

La polizia svizzera, per ordine della procura di Lugano, sta perquisendo in territorio elvetico abitazioni e uffici del broker finanziario Leonida Rossi, accusato di una truffa, arrivata nel tempo a 20 milioni di euro, ai danni dell' Ordine dei Frati minori francescani. Attività investigative legate alla stessa vicenda sono in corso anche in Italia da parte della Guardia di Finanza. La denuncia è stata presentata a Lugano dalla Curia Generale dei Frati minori francescani ed il procuratore federale di Lugano Noseda ha disposto le perquisizioni. Analoga denuncia è stata presentata anche a Roma e Milano.
Il broker avrebbe ricevuto, nel tempo, dall'ex economo dell'Ordine dei frati minori somme fino a 20 milioni di euro, per investirle in Svizzera a tassi di interesse - aveva assicurato - non inferiore al 12 per cento. Rossi avrebbe corrisposto inizialmente alcune somme corrispondenti agli interessi, poi - secondo la denuncia dei francescani - non avrebbe restituito né capitale, né interessi, determinando in tal modo l'ammanco nella cassa dell'Ordine dei frati minori.
Sulla vicenda indaga anche la procura di Milano che ha disposto perquisizioni presso la società Anycon, riconducibile a Rossi, e le abitazioni di alcuni frati, per ricercare documenti. Le perquisizioni sono in corso a Milano e in altre città italiane.
Tra gli indagati, Rossi per abusivo esercizio dell'attività finanziaria, e l'ex economo dell'Ordine francescano, il frate Giancarlo Lati, accusato di appropriazione indebita. Quest'ultimo, peraltro, non avrebbe tratto beneficio personale dalla vicenda, ma avrebbe impiegato i fondi della cassa dell'Ordine secondo modalità non autorizzate. 

Sulle nomine di Bologna e Palermo


"Speriamo che con Bergoglio la Madonna faccia il miracolo come aveva fatto con l' altro". Il riferimento a papa Luciani è appena velato. La frase è dell' arcivescovo di Ferrara, Luigi Negri, alto prelato in profondo disaccordo con Francesco e punto di riferimento di Comunione e Liberazione. Negri, allievo di don Giussani, è anche noto per aver contestato la magistratura quando incriminò Berlusconi per il caso Ruby. A chi allora gli fece notare che gran parte del mondo cattolico era indignato sulla vicenda delle Olgettine, rispose: "L'indignazione non è un atteggiamento cattolico".

Il motivo della sua contestazione: le recenti nomine di Papa Francesco a Bologna e Palermo, diocesi per anni in mano a Cl, dei vescovi Matteo Zuppi e Corrado Lorefice, due preti di strada. Monsignor Negri, il 28 ottobre, sul Freccia rossa partito da Roma -Termini (testimoni oculari hanno riferito l' accaduto), ha dato libero sfogo ai suoi pensieri a voce alta, come pare sia sua abitudine, incurante dei pochi presenti nella carrozza di prima classe, con il suo segretario, un giovane pretino dal look della curia che conta, doppio telefonino, pronto a filtrare le telefonate dell' arcivescovo. "Dopo le nomine di Bologna e Palermo - sbotta - posso diventa re Papa anch' io. È uno scandalo. Incredibile, sono senza parole. Non ho mai visto nulla di simile".


L' alto prelato, lasciando sbigottiti i testimoni, non si rassegna deve parlare con qualcuno, chiede al segretario di chiamare al telefono un amico di vecchia data, anche lui di Cl, Renato Farina, noto come "agente Betulla", rincarando la dose. Non ancora soddisfatto, continua con il giovane prete: "Sono nomine avvenute nel più assoluto disprezzo di tutte le regole, con un metodo che non rispetta niente e nessuno.


La nomina a Bologna è incredibile. A Caffarra (il vescovo uscente per limiti d' età) ho promesso che farò vedere i sorci verdi a quello lì (Zuppi): a ogni incontro non gliene farò passare una. L'altra nomina, quella di Palermo, è ancora più grave. Questo (Lorefice) ha scritto un libro sui poveri - che ne sa lui dei poveri - e su Lercaro e Dossetti, suoi modelli, due che hanno distrutto la chiesa italiana".

chiedere se volesse precisare le sue parole. "Sì, credo fosse su quel treno il 28 ottobre", ha spiegato il suo portavoce don Massimo Manservigi ascoltando le frasi di Negri che gli avevamo ripetuto.

"Ma adesso (ore 21:30, ndr) monsignore sta tenendo una conferenza all' università e non è possibile contattarlo". Il Fatto resta a disposizione per ascoltare eventualmente le spiegazioni del prelato. È comunque difficile credere che monsignor Negri parlasse a titolo personale e non rivelasse uno stato d' animo condiviso dalla casta vaticana. Bergoglio se vuole, come ha promesso, di portare a compimento i propositi di Giovanni XXIII "Chiesa popolo di Dio" - prima di tutto deve allontanare i mercanti dal tempio.

Loris Mazzatti per il “Fatto Quotidiano”

martedì 17 novembre 2015

Il discorso di Ratisbona

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI 
A MÜNCHEN, ALTÖTTING E REGENSBURG 
(9-14 SETTEMBRE 2006)

INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI DELLA SCIENZA 
DISCORSO DEL SANTO PADRE
Aula Magna dell'Università di Regensburg
Martedì, 12 settembre 2006

Fede, ragione e università.
Ricordi e riflessioni.


Eminenze, Magnificenze, Eccellenze,
Illustri Signori, gentili Signore!

È per me un momento emozionante trovarmi ancora una volta nell'università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l'Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all'università di Bonn. Era – nel 1959 – ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c'era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c'era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell'intera università, rendendo così possibile un'esperienza di universitas – una cosa a cui anche Lei, Magnifico Rettore, ha accennato poco fa – l'esperienza,cioè del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell'unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione – questo fatto diventava esperienza viva. L'università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch'esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del "tutto" dell'universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c'era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva – di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell'insieme dell'università, era una convinzione indiscussa.
Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d'inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue.[1] Fu poi presumibilmente l'imperatore stesso ad annotare, durante l'assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non quelli del suo interlocutore persiano.[2] Il dialogo si estende su tutto l'ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull'immagine di Dio e dell'uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le – come si diceva – tre "Leggi" o tre "ordini di vita": Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano.  Di ciò non intendo parlare ora in questa lezione; vorrei toccare solo un argomento – piuttosto marginale nella struttura dell'intero dialogo – che, nel contesto del tema "fede e ragione", mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema.
Nel settimo colloquio (διάλεξις – controversia) edito dal prof. Khoury, l'imperatore tocca il tema della jihād, della guerra santa. Sicuramente l'imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: "Nessuna costrizione nelle cose di fede". È probabilmente una delle sure del periodo iniziale, dice una parte degli esperti, in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l'imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il "Libro" e gli "increduli", egli, in modo sorprendentemente brusco, brusco al punto da essere per noi inaccettabile, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: "Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava".[3] L'imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell'anima. "Dio non si compiace del sangue - egli dice -, non agire secondo ragione, „σὺν λόγω", è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un'anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte…"[4]
L'affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio.[5] L'editore, Theodore Khoury, commenta: per l'imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest'affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza.[6] In questo contesto Khoury cita un'opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazm si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare anche l'idolatria.[7]
A questo puntosi apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell'intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: "In principio era il λόγος". È questa proprio la stessa parola che usa l'imperatore: Dio agisce „σὺν λόγω", con logosLogos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: "Passa in Macedonia e aiutaci!" (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una "condensazione" della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l'interrogarsi greco.
In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall'insieme delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo "Io sono", il suo essere, è, nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso.[8] Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all'interno dell'Antico Testamento, una nuova maturità durante l'esilio, dove il Dio d'Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una semplice formula che prolunga la parola del roveto: "Io sono". Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sarebbero soltanto opera delle mani dell'uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l'adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l'epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell'Antico Testamento, realizzata in Alessandria – la "Settanta" –, è più di una semplice (da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo.[9] Nel profondo, vi si tratta dell'incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall'intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire "con il logos" è contrario alla natura di Dio.
Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine, nei suoi successivi sviluppi, portò all'affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz'altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazm e potrebbero portare fino all'immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui – come dice il Concilio Lateranense IV nel 1215 –certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l'analogia e il suo linguaggio. Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l'amore, come dice Paolo, "sorpassa" la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l'amore del Dio-Logos, per cui il culto cristiano è, come dice ancora Paolo „λογικη λατρεία" – un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).[10]
Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell'Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente  purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della deellenizzazione del cristianesimo – una richiesta che dall'inizio dell'età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della deellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l'una dall'altra.[11]
La deellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati della Riforma del XVI secolo. Considerando la tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano di fronte ad una sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte cioè ad una determinazione della fede dall'esterno in forza di un modo di pensare che non derivava da essa. Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il sola Scriptura invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l'accesso al tutto della realtà.
La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della deellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento[12] e non intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però tentare di mettere in luce almeno brevemente la novità che caratterizzava questa seconda onda di deellenizzazione rispetto alla prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell'umanità. Gesù avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di Harnack è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso, l'esegesi storico-critica del Nuovo Testamento, nella sua visione, sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell'università: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell'insieme dell'università. Nel sottofondo c'è l'autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle "critiche" di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali. Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve, su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il successo tecnico ha confermato. Da una parte si presuppone la struttura matematica della materia, la sua per così dire razionalità intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla nella sua efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così dire, l'elemento platonico nel concetto moderno della natura. Dall'altra parte, si tratta della utilizzabilità funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la possibilità di controllare verità o falsità mediante l'esperimento fornisce la certezza decisiva. Il peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze, stare più dall'una o più dall'altra parte. Un pensatore così strettamente positivista come J. Monod si è dichiarato convinto platonico.
Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra questione. Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercavano di avvicinarsi a questo canone della scientificità. Importante per le nostre riflessioni, comunque, è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione.
Tornerò ancora su questo argomento. Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina "scientifica", del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: se la scienza nel suo insieme è soltanto questo, allora è l'uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del "da dove" e del "verso dove", gli interrogativi della religione e dell'ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla "scienza" intesa in questo modo e devono essere spostati nell'ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la "coscienza" soggettiva diventa in definitiva l'unica istanza etica. In questo modo, però, l'ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell'ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l'umanità: lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione – patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell'ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un'etica partendo dalle regole dell'evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente.
 Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della deellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell'incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l'ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell'Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.
Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l'opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell'illuminismo, rigettando le convinzioni dell'età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all'uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L'ethos della scientificità, del resto, è – Lei l'ha accennato, Magnifico Rettore – volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l'intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell'uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell'uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo delle scienze.
Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l'opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall'universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell'ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l'intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: "Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell'irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull'essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell'essere e subirebbe un grande danno".[13] L'occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. "Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio", ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all'interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell'università.


Benedetto XVI

 

[1] Dei complessivamente 26 colloqui (διάλεξις– Khoury traduce: controversia) del dialogo („Entretien"), Th. Khoury ha pubblicato la 7 ma „controversia" con delle note e un'ampia introduzione sull'origine del testo, sulla tradizione manoscritta e sulla struttura del dialogo, insieme con brevi riassunti delle „controversie" non edite; al testo greco è unita una traduzione francese: Manuel II Paléologue, Entretiens avec un Musulman. 7 e Controverse. Sources chrétiennes n. 115, Parigi 1966. Nel frattempo, Karl Förstel ha pubblicato nel Corpus Islamico-Christianum (Series Graeca. Redazione A. Th. Khoury – R. Glei) un'edizione commentata greco-tedesca del testo: Manuel II. Palaiologus, Dialoge mit einem Muslim, 3 volumi, Würzburg – Altenberge 1993 – 1996. Già nel 1966, E. Trapp aveva pubblicato il testo greco con una introduzione come vol. II dei „Wiener byzantinische Studien". Citerò in seguito secondo Khoury.
[2] Sull'origine e sulla redazione del dialogo cfr Khoury pp. 22-29; ampi commenti a questo riguardo anche nelle edizioni di Förstel e Trapp.  
[3] Controversia VII 2c: Khoury, pp. 142-143; Förstel, vol. I, VII. Dialog 1.5, pp. 240-241. Questa citazione, nel mondo musulmano, è stata presa purtroppo come espressione  della mia posizione personale, suscitando così una comprensibile indignazione. Spero che il lettore del mio testo possa capire immediatamente che questa frase non esprime la mia valutazione personale di fronte al Corano, verso il quale ho il rispetto che è dovuto al libro sacro di una grande religione. Citando il testo dell'imperatore Manuele II intendevo unicamente evidenziare il rapporto essenziale tra fede e ragione. In questo punto sono d'accordo con Manuele II, senza però far mia la sua polemica.  
[4] Controversia VII 3b – c: Khoury, pp. 144-145; Förstel Bd. I, VII. Dialog 1.6  pp. 240-243.
[5] Solamente per questa affermazione ho citato il dialogo tra Manuele e il suo interlocutore persiano. È in quest'affermazione che emerge il tema delle mie successive riflessioni.  
[6]Cfr Khoury, op. cit.,  p. 144, nota 1.
[7]R. Arnaldez, Grammaire et théologie chez Ibn Hazm de Cordoue. Parigi 1956 p. 13; cfr Khoury p. 144. Il fatto che nella teologia del tardo Medioevo esistano posizioni paragonabili apparirà nell'ulteriore sviluppo del mio discorso.
[8] Per l'interpretazione ampiamente discussa dell'episodio del roveto ardente vorrei rimandare al mio libro "Einführung in das Christentum" (Monaco 1968), pp. 84-102. Penso che le mie affermazioni in quel libro, nonostante l'ulteriore sviluppo della discussione, restino tuttora valide. 
[9]Cfr. A. Schenker, L'Écriture sainte subsiste en plusieurs formes canoniques simultanées, in: L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Atti del Simposio promosso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Città del Vaticano 2001, p. 178-186.
[10] Su questo argomento mi sono espresso più dettagliatamente nel mio libro "Der Geist der Liturgie. Eine Einführung", Friburgo 2000, pp. 38-42.
[11] Della vasta letteratura sul tema della deellenizzazione vorrei menzionare innanzitutto: A Grillmeier, Hellenisierung – Judaisierung des Christentums als Deuteprinzipien der Geschichte des kirchlichen Dogmas, in: Id., Mit ihm und in ihm. Christologische Forschungen und Perspektiven. Freiburg 1975 pp. 423-488.
[12] Nuovamente pubblicata e commentata da Heino Sonnemanns: Joseph Ratzinger – Benedikt XVI., Der Gott des Glaubens und der Gott der Philosophen. Ein Beitrag zum Problem der theologia naturalis. Johannes-Verlag Leutesdorf, 2. ergänzte Auflage 2005.
[13] 90 c-d. Per questo testo cfr anche R. Guardini, Der Tod des Sokrates. Mainz-Paderborn 1987 5, pp. 218-221.

sabato 14 novembre 2015

Il centuplo adesso




IL CENTUPLO ADESSO E LA VITA ETERNA DOPO
Il titolo della nostra riflessione è la citazione di un detto di Gesù, riferito da tutti i tre sinottici in forma sostanzialmente uguale. Lo cito nella formulazione di Marco: "In verità vi dico non c’è nessuno, che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o campi a causa mia e a causa del Vangelo, che non riceva il centuplo adesso, in questo tempo, in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, con persecuzioni, [Lc dice: che non riceva molto di più in questo tempo] e la vita eterna nel secolo che viene" [Mc 10,29-30; parall. Mt 19,28-29; Lc 18,28-30].
È necessario notare che il detto di Gesù è la risposta ad una precisa domanda di Pietro: "Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito!" [Mc 10,28; Mt aggiunge: che sarà dunque per noi?].
Il significato dunque della risposta di Gesù è chiaro. Chi segue Cristo, anche se questa sequela esige rinunce gravissime, riceve molto di più di quanto possedeva prima di quella decisione: riceve il centuplo! Ed è sul contenuto di questa risposta di Gesù che voglio questa sera riflettere con voi.
Dividerò la mia riflessione nei seguenti punti che formulo con domande: 1) che cosa significa "seguire Cristo"? 2) perché chi segue Cristo riceve il centuplo subito? Farò poi alcune riflessioni conclusive.
Che cosa significa seguire Cristo.
Inizio la mia risposta partendo dalla descrizione di due esperienze umane.
Prima esperienza: l’arrivo del primo figlio a una coppia sposata. Che cosa succede quando ad una coppia nasce il primo bambino? È sostanzialmente l’ingresso e l’instaurarsi di una nuova presenza dentro la loro vita. E’ arrivata una nuova persona! Di conseguenza la vita dei due sposi non può più essere come prima: ormai devono "fare i conti" con lui. Abitudini che forse duravano da anni dovranno essere cambiate. Il lavoro acquista un nuovo senso: lavorano soprattutto per lui, per assicurare il suo futuro. Potremmo dire che la loro giornata viene vissuta e la loro vita interpretata in larga misura alla luce della presenza del bambino.
Seconda esperienza: un giovane si innamora di una ragazza o viceversa. Che cosa succede nella vita del giovane/della giovane? Ancora una volta: una persona entra con inaspettata potenza nella vita. C’è come un "urto": i latini parlavano di "passio", di passione. E’ un avvenimento che accade e che ti colpisce: ne sei "preso". Ed in modo tale che tutte le energie – intelligenza e libertà – ne sono coinvolte, perché la persona intuisce che le si apre davanti una nuova possibilità di esistenza. E’ una presenza carica di attrattiva che la spinge ad una risposta.
Queste due esperienze così umane ci possono aiutare a capire cosa significa seguire Cristo.
Qualcuno potrebbe pensare: seguire Cristo significa vivere come Lui ci ha insegnato a vivere. Significa cambiare la propria vita in senso morale. E pensiamo alla vita immorale e sregolata di una persona che decide di … rientrare nell’ordine della legge morale. Pensare la sequela di Cristo in questi termini non è sbagliato. Anzi, come vedremo, questo modo di pensarla ne coglie un aspetto imprescindibile. Ma non è questo il nucleo centrale. Per convincervene andate a leggere con attenzione due pagine bibliche; Lc 19,1-10 [l’incontro di Gesù con Zaccheo] e Fil 3,7-14. Voi costatate un fatto un po’ singolare. E’ vero che Zaccheo cambia la sua vita dal punto di vista morale: decide non solo di non rubare più, ma restituisce il mal tolto con una misura superiore a quella richiesta dalla legge. Ma se guardiamo alla storia di Paolo, le cose non stanno proprio in questi termini. Egli, prima dell’avvenimento decisivo [quello appunto che egli descrive nella pagina citata], non teneva – a differenza di Zaccheo – condotte moralmente riprovevoli. Anzi, egli dice di se stesso che era "irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge" (Fil. 3,6b). Dunque: si può essere malfattori e ladri, come Zaccheo, e non essere ancora alla sequela di Cristo [e questo è abbastanza facile da capire]; si può essere persone oneste e molto giuste, come Paolo, e non essere ancora alla sequela di Cristo [e questo è abbastanza difficile da capire]. E non è neppure sempre vero che i secondi siano più vicini al Vangelo dei primi. Gesù una volta disse a chi era o si riteneva giusto: "i pubblicani e le prostitute vi precederanno nel Regno di Dio".
Partire dalla considerazione morale dell’esistenza non è la partenza migliore per capire la sequela di Cristo. Ed allora che cosa significa seguire Cristo?
Qualcuno a questa domanda potrebbe essere tentato di rispondere: cambiare il proprio modo di pensare, di valutare le cose cioè, e di interpretare la realtà. Ancora una volta, devo dire che sicuramente non esiste vera sequela senza questo cambiamento. Ma ancora una volta non è questo il nucleo centrale. Abbiamo anche al riguardo un esempio nella storia della Chiesa. La conversione di Agostino, come è noto a tutti, fu lunga ed assai faticosa. Egli dovette superare due enormi difficoltà [assai attuali!]: la difficoltà di una visione materialista; la difficoltà di una visione fatalista. Egli pensava che esistessero solo realtà materiali; egli pensava, da manicheo quale era, che l’uomo quando agiva male non fosse libero. Egli superò questi due formidabili errori soprattutto attraverso la lettura di libri neo-platonici. Fu la sua conversione? Non proprio. Essa può accadere quando incontra Ambrogio che, scrive egli stesso, lo "accolse come un padre e gradì il mio pellegrinaggio proprio come un vescovo" (Confessioni V, 13,23).
Ed allora che cosa significa seguire Cristo? Che cosa succede a Zaccheo di così diverso dalla sua vita ordinaria? Incontrò Cristo che chiese di entrare in casa sua. Che cosa è successo a Paolo di così straordinario che cominciò da quel momento a considerare una perdita tutto ciò che fino a quel momento poteva essere per lui un guadagno? Abbiamo due testi che in maniera molto suggestiva ce lo dicono. Il primo dice: "E Dio che disse: rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo" (2 Cor. 4,6). L’altro testo dice: "Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunciassi in mezzo ai pagani… " (Gal. 1,15-16). Ha avuto un incontro con Cristo nel quale egli, Paolo, ha visto la Presenza: la presenza stessa di Dio, colla gloria del suo amore. Il profeta (Is. 9,1) aveva preannunciato: "Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce: su coloro che abitavano in terra tenebrosa, una luce rifulse". Nella vita di Paolo questa parola si è compiuta: una luce si è accesa nella sua esistenza perché ha incontrato Cristo; ha visto in Lui la presenza stessa di Dio che si prende cura dell’uomo.
Per capire meglio che cosa significa qui la parola "incontro", è necessario tener presente che quando esso accade veramente, sono le radici stesse della nostra esistenza ad essere coinvolte. E quali sono le radici della nostra vita? Che cosa nutre il nostro quotidiano esistere? Che cosa ci fa lavorare, ci fa studiare, ci fa prendere moglie/marito, ci fa desiderare e pensare? Come ha visto bene Agostino, è il desiderio di beatitudine, di pienezza di essere. Le nostre scelte sono sempre in vista di un bene particolare; ma alla fine ciascuna di esse si inscrive e si radica nel desiderio di un bene che sia tale da dare piena soddisfazione alla nostra fame e sete di beatitudine, al nostro sconfinato desiderio di verità, di bontà, di bellezza. Solo una cultura disumana e superficiale come in larga misura è la nostra poteva tentare di estenuare nell’uomo questo suo desiderio, insegnandogli che è possibile ben navigare anche se si naviga sempre a vista senza avere nessun porto a cui dirigersi; che è possibile ben camminare anche senza sapere dove andare.
L’incontro con Cristo pesca in questa profondità dell’essere: Cristo è "sentito" come la risposta vera e totale al proprio desiderio illimitato di beatitudine: "mio Signore e mio tutto" [pregava S. Francesco]. Zaccheo ha capito che non nel denaro, ottenuto con tutti i mezzi, era la risposta al suo desiderio, ma la risposta era Lui, lo stare a tavola con Lui. Paolo ha capito che la glorificazione di Dio non consisteva in primo luogo nello sforzo morale dell’uomo, ma che tutta la sua felicità ormai era nel conoscere Lui, di essere con Lui. Pietro ha capito che non sarebbe più riuscito ad andare da nessun’altra parte, poiché sapeva che solo Lui aveva parole di vita eterna.
L’incontro con Cristo è un fatto che ha tutti i connotati propri dei fatti che accadono in questo mondo: in un tempo preciso ed in un luogo determinato; mentre Zaccheo è su una pianta, mentre Andrea e Pietro stavano pescando, mentre una donna samaritana va ad attingere acqua al pozzo, e così via. Ma nello stesso tempo è un fatto che è imprevedibile [Zaccheo mai si sarebbe aspettato!], incalcolabile [proprio nel momento in cui Paolo andava ad imprigionare i cristiani!], non programmato [la samaritana faceva ciò tutti i giorni] ma così corrispondente alle attese più profonde della persona da farle esclamare: "tardi ti ho amato, o Bellezza tanto nuova e tanto antica!".
Ed ancora. L’incontro con Cristo è improvviso perché Egli solo ne ha l’iniziativa: il primato della grazia! Ma nello stesso tempo, esso mette in movimento tutta la persona incontrata. L’apostolo Paolo lo esprime in modo stupendo: "mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo". E’ una persona protesa verso il futuro, un futuro che è la pienezza della comunione con Cristo. Ma questo movimento è la risposta ad un’esperienza che sta all’origine della corsa: è stato afferrato da Cristo.
Ecco: questa è la sequela di Cristo. E’ questo incontro con Cristo. Il non potere più vivere senza di Lui; il vivere ormai di Lui.
Il centuplo subito.
Zaccheo, Paolo, la Samaritana, Agostino hanno ricevuto il centuplo subito. Né poteva essere diversamente. Ciò che ora cercherò di mostrarvi è che la presenza di Cristo nella vita di una persona eleva la sua umanità alla centesima potenza.
La presenza di Cristo, frutto dell’incontro con Lui e della sua sequela, fa nascere in pienezza nell’uomo l’io. Nessuno può dire con la forza e la verità con cui lo dice chi segue Cristo: "io".
Tutta la dignità dell’uomo consiste nel suo essere persona. Questa dignità è propria del suo stesso essere; appartiene ad ogni uomo dal momento del suo concepimento; è uguale in tutti e ciascuno. Da questo punto di vista non ci sono "gradi".
Tuttavia la consapevolezza del proprio essere persona e quindi della propria dignità; l’intensità con cui una persona pronuncia la parola "io", ammette gradi; ammette "più o meno".
Vorrei prima di procedere farvi notare che non stiamo facendo un discorso astratto, fuori dalla vicenda propria di ciascuno di noi. La persona dice in verità la parola "io" nell’atto libero: è nella scelta e nella decisione libera che si misura la forza con cui una persona può dire "io". Persona, soggettività, libertà sono tre dimensioni che costituiscono l’esistenza umana.
Se guardiamo con attenzione alla nostra esperienza quotidiana, noi ci rendiamo conto che la nostra è una libertà "di fronte a …". Sono libero di fronte alla persona che mi chiede di aiutarla, se aiutarla o non. Sono libero di fronte alle cose di cui dispongo, se usarle o non o perfino di disfarmene. Sono libero di fronte al mondo; sono libero di fronte alle persone. La libertà dimora dentro alla relazione, al rapporto dell’io con altro/altri da sé. Essa si esercita nel confronto con altro/altri dalla persona libera.
Tuttavia a guardare le cose più in profondità, noi scopriamo una dimensione più profonda della nostra libertà. Noi siamo liberi anche, anzi soprattutto e più profondamente nel confronti di noi stessi. È mediante le mie scelte libere che io divengo me stesso; che io configuro il volto della mia esistenza; che io divengo padre-madre di me stesso. Essere liberi significa decidere di se stessi. È per questo che S. Kierkegaard definisce l’io dell’uomo nel modo seguente: "un rapporto che si mette in rapporto con se stesso e mettendosi in rapporto con se stesso si mette in rapporto con altro" [La malattia mortale. Parte prima, A/A; in Opere, ed. Sansoni, Firenze 1972, pag. 625].
Ritorniamo ora alla nostra domanda: perché l’incontro con Cristo eleva alla massima potenza l’io? Perché decidendo di seguire Cristo, la persona umana decide di se stesso in ordine al suo destino eterno. Si pone nel tempo come un io destinato all’eternità.
Possiamo comprendere tutto questo riflettendo su un dialogo fra Gesù e i discepoli avvenuto dopo la moltiplicazione del pani [cfr. Gv 6,67-70].
È un momento altamente drammatico. La folla aveva abbandonato Gesù perché non volevano un "cibo che dura per la vita eterna", ma si accontentavano dei pani che saziano per la vita terrena. Anzi, più precisamente: non accettavano che il "cibo che dura per la vita eterna" fosse la persona di Cristo, Lui in carne ed ossa.
"Disse allora Gesù ai Dodici: forse anche voi volete andarvene?". È la domanda fatta alla loro persona; è la provocazione rivolta alla loro libertà perché prenda una decisione: andarsene o rimanere. Una decisione nei confronti di Cristo, se rimanere con lui o "tirarsi indietro". Ma questa decisione da prendere nei confronti di Cristo era una decisione riguardante se stessi: la vita cambiava, il proprio io si sarebbe configurato in modo diverso a seconda della scelta di andarsene o di rimanere.
"Gli rispose Simon Pietro: Signore, da chi andremo? tu hai parole di vita eterna". La ragione della decisione di Pietro di non andarsene è motivata dal suo desiderio di "vita eterna"; dalla sua volontà di non decurtare la misura di questo desiderio, costringendo il proprio io dentro al tempo. A Pietro non bastava il pane che era stato moltiplicato così come alla Samaritana l’acqua del pozzo. L’uno e l’altro desideravano un "pane che dura per la vita eterna" e un’acqua bevendo la quale non si ha più sete. E poiché solo Cristo ha parole di vita eterna, l’io che vuole essere eterno non si tira indietro da Cristo.
Come potete osservare, nel confronto con Cristo l’io è chiamato a decidere la misura del proprio essere; è provocato a decidersi se rendersi completamente un io finito oppure se volere essere un io eterno. Ogni scelta libera è decisione circa se stessi. Posto di fronte al Cristo, l’io è chiamato a decidersi in modo supremo: se essere per sempre o essere per la morte. Ed allora dice [come Pietro]: tu hai parole di vita eterna. O come la samaritana: "dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete".
L’uomo che non vuole essere un io eterno, finisce per "passare la sua vita nella temporalità, essere l’uomo che appare, essere elogiato dagli altri, onorato e stimato, dedito a tutti gli scopi temporali. Ciò che si chiama mondanità consiste tutta in tali uomini, i quali per così dire vendono la loro anima al mondo. Essi adoperano le loro facoltà, ammassano quattrini, esercitano attività mondane, fanno calcoli prudenti e così via, sono forse nominati dalla storia; ma non sono se stessi, non hanno, in senso spirituale, nessun io per amor del quale possano arrischiare tutto, nessun io davanti a Dio" [S. Kierkegaard, ibid., pag. 637].
L’elevazione dell’io che avviene nella sequela di Cristo coinvolge i due fondamentali dinamismi dell’io stesso: la ragione e la volontà. Non posso dilungarmi. Mi limito ad alcuni accenni essenziali.
L’intelligenza e la ragione umana viene "centuplicata" perché resa capace dalla fede di comprendere in senso ultimo, il "logos" intimo di tutto ciò che esiste. La ragione senza la fede è uno strumento conoscitivo incompleto. L’incontro con Cristo genera la cultura cristiana.
La volontà viene resa capace di amare come Cristo ha amato. Acquista la libertà del dono. L’incontro con Cristo genera la carità cristiana. Dà origine ad una convivenza nuova fra le persone.
Un Padre della Chiesa ha scritto: "Che cos’è questo nuovo mistero che mi riguarda? Io sono piccolo e grande, umile ed elevato, mortale ed immortale, terreste e celeste. … Bisogna che io sia messo nel sepolcro con Cristo, che con Cristo risusciti, che sia coerede con Cristo, che divenga figlio di Dio, che io stesso venga chiamato Dio … Ecco che cosa vuol dire un Dio che si fa uomo per noi e che per noi si fa povero per risuscitare la carne e salvare l’immagine e ricreare l’uomo perché diventiamo tutti una cosa sola in Cristo" [S. Gregorio NazianzenoOrazione 7,23; in Tutte le orazioni, Bompiani ed., Milano 2000, pag. 275].
Il grande cappadoce descrive il vero dramma della libertà umana posta come è sul crinale fra mortalità ed immortalità, effimero ed eterno, il "poco" ed il "tutto". As essa è affidata la decisione se limitare l’io dentro alla prima possibilità o elevarlo alla pienezza. Gregorio descrive la sequela di Cristo nel modo più concreto: "bisogna che io sia messo…".
Nell’incontro con Cristo l’uomo riceve subito il centuplo perché, come scrive Tommaso, vive una certa "inebatio vitale aeternae"; vive in pienezza il tempo perché in esso già respira l’eterno.
Conclusione
Vorrei concludere ricordandovi come ha vissuto il bisogno di incontrare Cristo uno dei più radicali nichilisti dei nostri tempi, L. Pirandello. Egli ha scritto una novella di struggente bellezza, struggente per il bisogno dell’incontro che questa pagina esprime: Ciaula scopre la luna. La vicenda è nota: Ciaula è più un animale che un uomo, costretto come è a lavorare sempre, spesso anche di notte, nella miniera. Ma una notte, distrutto dalla fatica, era appena sbucato dal buio della miniera: "Restò - appena sbucato all’aperto - sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle… Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna… Estatico cadde a sedere sul suo carico… E Ciaula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva… per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore" [Novelle per un anno, volume secondo - tomo I, Mondatori ed. Milano 1996, pag. 463-464]. La notte piena di stupore di Pirandello ricorda l’esperienza di Paolo: "e Dio che disse: "rifulga la luce dalle tenebre"…". L’ateo Pirandello si incontra con l’apostolo Paolo nell’esperienza dello stesso Mistero, che Paolo vide in un volto umano, quello di Cristo.
Termino rivolgendomi in particolare a voi giovani: correte il rischio di immergervi dentro alla Chiesa che vi educherà alla vera libertà, perché dentro essa voi riconoscerete che Cristo è tutto ciò che voi desiderate. E la vostra notte sarà piena di stupore, perché sarà piena di grazia.
Card. Caffarra


www.caffarra.it
Collegio "Alma Mater"
della Fondazione del Centro Europeo università e ricerca (Ceur)
23 novembre 2004

sabato 7 novembre 2015

Il sugo della storia

Giovanni Fighera mi ha fatto venire in mente un’idea bislacca. I Promessi sposi bisognerebbe iniziare a leggerli dalla fine, cioè dal capitolo in cui Alessandro Manzoni rifugge l’happy end e spiega che «il sugo della storia» non è un retorico «e vissero felici e contenti» e nemmeno un generico richiamo a comportarsi con decoro onde fuggire i guai, quanto piuttosto leggere tutto in una prospettiva di fede, unico criterio per accettare ogni cosa, anche in male, in un’ottica di metànoia e redenzione.

Sano e duro realismo cristiano, insomma. Ed è interessante, come lo stesso Fighera racconta nel suo recente Il matrimonio di Renzo e Lucia. Invito alla lettura dei promessi sposi (Itaca, già al Meeting di Rimini), che nessuno conosca il finale del capolavoro manzoniano. «Sulla base della mia esperienza personale – scrive Fighera, che nella vita è insegnante – posso affermare che ancora nessuno studente sia riuscito a riferirmi con esattezza l’epilogo, quando mi accingo ad affrontare Manzoni al triennio con ragazzi che dovrebbero aver già letto I promessi sposi al biennio. Le risposte che più si sono avvicinate, per la verità, sono state queste: “Il romanzo prosegue per poco e Renzo e Lucia hanno dei figli”, oppure: “I due protagonisti non sono così contenti”. Tutto qui?».

Il nostro collaboratore e appassionato docente ha ragione: tutto qui? Se fosse solo questo, cioè la narrazione di una parabola ascetica, in cui le vicende dei protagonisti suggeriscono al lettore una conclusione “moralista” – è il rimprovero che rivolge Lucia a Renzo nelle ultime pagine – I promessi sposi perderebbero tutto il loro fascino. 

Che, invece, come nota giustamente Fighera, risiede nell’illustrare come anche il male possa essere redento attraverso la fede e il sacrificio personale. Basta così poco, basta accettare il fatto che «Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia!» (Lucia all’Innominato). Basta, insomma, convertirsi, come sottolinea a più riprese il nostro, scavando nei due episodi centrali del romanzo, quello della Monaca di Monza e dell’Innominato, appunto.

Durante l’udienza generale in piazza San Pietro il 27 maggio, papa Francesco ha invitato i fedeli a non «lasciare da parte» I promessi sposi, un «capolavoro sul fidanzamento». Ne ha consigliato la lettura «ai giovani» così da imparare «la fedeltà» del rapporto amoroso. Senza togliere nulla al richiamo papale, l’invito andrebbe esteso anche a chi è già sposato. Anche lui ha bisogno di convertirsi ogni giorno. Anche lui ha bisogno di ricordare che ogni matrimonio non si regge solo su rettitudine e coerenza, ma anche su misericordia e perdono.

Da quanto si legge nell’ultima pagina del romanzo, comprendiamo che diverso è l’atteggiamento di Renzo e Lucia nei confronti degli eventi vissuti: quest’ultima, più discreta e meno moralista, mossa da una fede e da un abbandono totale al Mistero e a Dio, custodisce e medita l’accaduto in cuor suo senza eccessivi entusiasmi, mentre lo sposo racconta a chiunque le loro esperienze soffermandosi sulle lezioni imparate:

– Ho imparato… a non mettermi nei tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardar con chi parlo: ho imparato a non alzare troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che ne possa nascere.

Insomma, Renzo fa il moralista, si pone di fronte all’accaduto con uno sguardo tutto proteso su di sé più che sul Mistero di Chi fa tutte le cose, sforzandosi di migliorare e cambiare per non ripeter più gli errori commessi. La visione di Renzo appare agli occhi di Lucia parziale, in quanto perché l’esperienza ci insegna che spesso quanto accade non è conforme ai nostri progetti e alle nostre aspettative, anche quando il nostro comportamento è stato dettato dal buon senso:

– E io – disse un giorno al suo moralista – cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercare me. Quando non voleste dire – aggiunse, soavemente sospirando, – che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi.

Ebbene i due novelli sposi si mettono a discutere su questo punto e arrivano a una conclusione che l’anonimo decide di porre come «sugo» di tutta la storia, perché estremamente giusta e ragionevole, anche se partorita da povera gente. Il sugo della storia è il senso che dà sapore e significato all’intera vicenda.

È Manzoni stesso a rivelarlo:
I guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani, e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore.





fonte:Tempi.it

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