sabato 27 febbraio 2016

Stupefacente

Voglio dirvi qualcosa che è la più difficile da esprimere a parole, qualcosa che è più privato della vita privata. È il fatto che siamo vivi, e che la vita è la cosa di gran lunga più  di qualsiasi gioia o sofferenza che può capitarci durante la vita.

Gilbert Keith Chesterton, Radio Chesterton

martedì 23 febbraio 2016

Un senso di vertigine



La lettura del libro biblico di Qoelet (in latino “Ecclesiaste”, cioè “colui che parla all’assemblea”), libro tanto breve quanto intenso, può provocare un senso di vertigine. Nessun altro scritto (biblico o extrabiblico) eguaglia infatti Qoelet nella sua impietosa descrizione della condizione umana, nella concezione della storia quale “teatro dell’assurdo”, quale luogo del non-senso in cui tutto si ripete uguale, senza un direzione, senza una meta finale. Da questo punto di vista, Qoelet è molto vicino alla sensibilità moderna: il pessimismo che attraversa l’opera è analogo a quello delle moderne correnti esistenzialiste; anzi, per certi aspetti, il pessimismo di Qoelet è ancor più radicale. Tutto il libro è attraversato da un ritornello che si ripete dall’inizio alla fine con insistenza: “Vanità delle vanità, tutto è vanità”: questa è la conclusione a cui il sapiente inevitabilmente perviene ogni volta che si accinge a riflettere sulla realtà umana. Nella prospettiva di Qoelet non sembra esserci spazio per la speranza, l’orizzonte è chiuso nella realtà terrena e tutto pare profondamente insignificante, un enorme vuoto, uno spaventoso nulla a cui non c’è rimedio. “Vanità” (così solitamente traduciamo il termine ebraico “havel”) può essere reso in italiano anche come “nulla”: in ebraico, infatti, non esiste una parola corrispondente al nostro “nulla”; per esprimere il concetto del “nulla” alla letteratura ebraica non rimaneva allora che utilizzare immagini “positive” e concrete, e l’immagine prediletta dall’autore biblico per rappresentare il vuoto e l’inconsistenza della vita è quella dell’“havel”, ossia del vento, della brezza mattutina, della schiuma bianca che lasciano le imbarcazioni quando solcano il mare.

Tutto è vanità, tutto inconsistenza, tutte le occupazioni umane sono un inseguire il vento. “Quale profitto per l’uomo in tutta la sua fatica e in tutto l’affanno con cui si affatica sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e preoccupazioni penose; il suo cuore non riposa neppure di notte” (2, 22-23). Neanche la sapienza, a cui Qoelet ha dedicato l’intera sua esistenza, costituisce un rimedio per l’uomo, anch’essa è vanità ed è come inseguire il vento, perché “molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere, aumenta il dolore” (1, 18). La sapienza, per l’autore biblico, è fonte di sofferenza, poiché mostra l’assurdità del vivere, eliminando quelle illusioni che rendono all’ignorante più sopportabile il peso della vita. Allora tanto vale darsi al divertimento, al godimento – pensa per un momento Qoelet - ma anche questo alla fine si rivela vano, insignificante. Dopo aver tutto sperimentato nella vita (la fatica del lavoro, i piaceri della casa, il lusso, le donne, la sapienza e la follia), ecco il risultato: “Ho preso in odio la vita, perché mi è sgradito quanto si fa sotto il sole” (2, 17). 

La condizione dell’uomo è addirittura peggiore rispetto a quella delle bestie: queste, infatti, muoiono come quello, senza tuttavia rendersi conto dell’assurdità della vita. “Non esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità. Tutti sono diretti verso la medesima dimora. Chi sa se il soffio vitale dell’uomo salga in alto e se quello della bestia scenda in basso nella terra?” (3, 19-21). Tutto l’orizzonte umano si esaurisce così nella prospettiva di questo mondo; per Qoelet non c’è aldilà e quindi non c’è neanche retribuzione per le opere buone o cattive commesse in vita. Lo stolto e il saggio condividono la stessa sorte (“Anche a me toccherà la sorte dello stolto! Allora perché ho cercato d’esser saggio? Dov’è il vantaggio?”) né c’è giustizia o consolazione per i poveri e gli oppressi. Dio è lontano, non può venir in aiuto alle nostre pene, “perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra” (5, 1). Non si giunge dunque alla negazione di Dio, ma solo alla conclusione che l’uomo deve cavarsela da solo, non potendo contare su Dio per risolvere i suoi problemi. Anche da questo punto di vista Qoelet è molto “moderno”: la stragrande maggioranza delle persone oggi afferma di credere in Dio, eppure vive come se Dio non esistesse; ripudia cioè l’ateismo “teorico” ma non quello “pratico”.

Da dove potrà venire allora la salvezza? Dal denaro? “Chi ama il denaro, mai si sazia di denaro e chi ama la ricchezza non ne trae profitto. Anche questo è vanità” (5, 9). Tentazione del denaro è l’avarizia e l’avidità. Inoltre il ricco, quando muore, “dalle sue fatiche non ricaverà nulla da portar con sé” (5, 14). Forse che la salvezza può venire dalla politica? No davvero. La politica, per Qoelet, è una grande menzogna: si presenta agli uomini ammantata di alte idealità, ma nella sostanza si riduce a vile gioco di potere, a sistema di sopraffazione in cui l’autorità superiore sfrutta quella inferiore e questa a sua volta opprime il popolo. Questo mostro che è la politica si nutre altresì dell’idealismo degli ingenui, ragion per cui Qoelet mette in guardia gli sprovveduti dall’andare appresso ai sogni, perché “dai molti sogni provengono molte delusioni e molte parole” (5, 6). Occorre infine star molto attenti alle lusinghe dei “giovani” che si affacciano sulla scena politica, facendosi portatori di cambiamento e di novità: questi – ammonisce Qoelet – una volta al potere si comporteranno come o addirittura peggio dei loro predecessori. Ad occupare i posti di potere sono infatti sempre i peggiori, mentre il consiglio del saggio non viene mai ascoltato dai potenti. Nella sua radicale antipolitica Qoelet è più moderno di quanto forse fino ancora a qualche decennio fa avremmo potuto immaginare.

Cosa rimane allora all’uomo, dove riporrà la sua speranza? Quale ragione per vivere? Sconcertante la risposta di Qoelet: “Allora ho proclamato più felici i morti, ormai trapassati, dei viventi che sono ancora in vita; ma ancora più felici degli uni e degli altri chi ancora non è” (4, 2). Il nichilismo più completo, che vede nella vita una sciagura e nella morte o addirittura nel non essere mai nati la più grande delle benedizioni. Altro che la vita come dono di Dio! Eppure, queste parole così dure sono presentate ai credenti dalla religione ebraica prima e cristiana poi come parola di Dio (d’altro canto la canonicità dell’Ecclesiaste, a differenza di altri testi biblici, non è stata mai messa in discussione, né dagli ebrei né dai cristiani). Quale insegnamento potremmo dunque trarne in una prospettiva di fede? Sicuramente gli insegnamenti di Qoelet rappresentano uno stimolo a porci le domande “vere”, a coltivare una fede profonda, che non si accontenta di risposte facili e dal sapore consolatorio. Ma c’è di più: l’analisi impietosa condotta da Qoelet si pone in più punti in antitesi alla sapienza “classica” di Israele, evidenziandone i limiti e le contraddizioni. Qoelet è un libro sapienziale che paradossalmente conduce una critica serrata a tutta la sapienza vetero-testamentaria. Sembra quasi che l’Antico Testamento contenga in sé i germi del suo superamento. Il sapere antico ha dei limiti evidenti, non riesce a spiegare in profondità i misteri e a rispondere pienamente alle attese del cuore umano. Qoelet, senza saperlo, guarda già a Gesù Cristo: con la sua Resurrezione tutti gli interrogativi posti da questo libro troveranno risposta, tutte le inquietudini del saggio avranno soluzione. Senza Cristo, invece, si riprende a girare a vuoto, come torna a fare il mondo moderno nel suo ossessivo rifiuto del cristianesimo. Sarà per questo che Qoelet, agli occhi dei moderni, è così attuale?

fonte: La Perfetta Letizia, Bartolo Salone, 2012

domenica 21 febbraio 2016

Denti

«I denti sono il più evidente strumento di potere che gli uomini portano in sé»

Elias Canetti in Massa e potere

martedì 16 febbraio 2016

Moka funeraria



Era il «re della caffettiera» Renato Bialetti e al suo funerale, sopra a un piccolo altare, è stata esposta una grossa moka con il disegno dell’omino coi baffi e, all’interno, le ceneri del corpo. Un particolare non comune alle cerimonie funebri, che però non ha stupito la piccola e composta folla di residenti, ex operai e imprenditori del Verbano che ha partecipato alla messa nella chiesetta di Montebuglio, di Casale Corte Cerro. Il paese d’orgine di Bialetti, che si è spento a 93 anni. «In fondo ce l’aspettavamo che arrivasse in una caffettiera» racconta Saverio De Biasio, necroforo del cimitero di Omegna, nonché ex dipendente della fabbrica che fino ad alcuni anni fa produceva fino a un milione di pezzi all'anno. «D’altronde – aggiunge - la moka è nata con lui, lo rappresentava.È stato un uomo che ha fatto la storia di un marchio. Né io né i miei colleghi siamo rimasti sorpresi quando in chiesa i tre figli hanno portato davanti all’altare la moka. Penso se lo aspettassero un po’ tutti. Era una sua volontà».

fonte: Corriere.it

sabato 13 febbraio 2016

Il club degli ex Presidenti


La scena che vi stiamo per descrivere si ripete ormai da un po' di settimane con una certa continuità. E da quando i mercati hanno deciso di punire con decisione le Borse europee, e soprattutto quella italiana, facendo registrare delle brusche oscillazioni sui titoli bancari (ieri Milano ha chiuso a meno 5,63 per cento) e rimettendo in movimento lo spread tra titoli di stato italiani e titoli di stato tedeschi (spread che ieri ha superato i 150 punti base), capita sempre più spesso che i collaboratori più stretti del presidente del Consiglio si ritrovino a rispondere a domande brusche come quelle ricevute in queste ore, a Roma, da diversi ambasciatori.


Il tema è il seguente e la domanda è stata rivolta ancora una volta ieri, da parte di un importante ambasciatore, a un esponente del Pd vicino al premier: "Ci risulta ci sia un piano per far cadere questo governo. Siete sicuri che il presidente del Consiglio non faccia la fine che ha fatto Berlusconi nel 2011?". Il collaboratore di Renzi anche in questa occasione ha risposto con un sorriso e ha argomentato l' inesistenza di questa eventualità. La scena si ripete ormai da settimane con vari pezzi più o meno pregiati della diplomazia straniera.

Ma al contrario di quello che si potrebbe credere, la ragione per cui si è diffusa, anche in molte ambasciate romane, la voce che ci sia qualcuno che stia provando a lavorare ai fianchi il presidente del Consiglio non è legata a un' invenzione di qualche malelingua diplomatica. E' legata, piuttosto, alla presenza sulla scena internazionale di un pezzo di establishment italiano, un po' sgangherato, che da alcune settimane tende a sponsorizzare la tesi, esplicita, che ci sia una connessione precisa tra lo stato di salute delle Borse italiane e lo stato di salute del governo.

Un pezzo di establishment, dicevamo, guidato da uno speciale club con ottimi contatti in Europa formato da ex presidenti del Consiglio (Enrico Letta, Massimo D' Alema, Romano Prodi) che da tempo, a vario titolo, sostiene, in modo più o meno implicito, che - per salvare l' Italia e non condannare il nostro paese a una nuova recessione e a un imminente collasso economico - sia necessario, urgentissimo, preparare la strada a un' alternativa all' attuale presidente del Consiglio.


Commissariare, adesso. L' idea che D' Alema, Letta e Prodi - spalleggiati da un establishment in movimento e in leggero riposizionamento che si riconosce negli editoriali di Eugenio Scalfari e in molti fondi del Corriere della Sera improvvisamente critici con il governo - possano ambire a innescare una scintilla capace di far saltare Renzi può apparire goffa e sconclusionata anche perché i tre ex presidenti del Consiglio si trovano ormai distanti anni luce dal Parlamento e dai giochi di palazzo e difficilmente sarebbe sufficiente una raffica di interviste o una mitragliata di dichiarazioni sulle agenzie, come quelle registrate negli ultimi giorni, per far cambiare il volto di un governo (anche se Enrico Letta, per esempio, mantiene da tempo ottimi rapporti con il Mef, dove si trovano diversi tecnici che Letta aveva a Palazzo Chigi, e con lo stato maggiore del Quirinale).


Eppure, a credere alla possibilità di uno switch off, non sono soltanto gli amici del club degli ex premier e alcuni ambasciatori ma è anche un personaggio particolare, un tecnico di lusso con il profilo da perfetto politico, che da mesi prova ad accreditarsi, anche con il Quirinale, come il sostituto naturale di Matteo Renzi in caso di improvviso collasso di questo governo. Come se fosse lui, in un certo senso, il Mario Monti del 2016.

Il nome del tecnico è quello dell' attuale presidente dell' Inps Tito Boeri, economista di fama internazionale, professore ordinario di Economia del lavoro all' Università Bocconi, già consulente del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale, della Commissione europea, già senior economist all' Ocse dal 1987 al 1996, già direttore della Fondazione Rodolfo Debenedetti, ottimi rapporti con il mondo Rep. e ottimi legami con la sinistra non solo del Pd (ai tempi della riforma del mercato del lavoro, la proposta alternativa al Jobs Act, la legge Boeri -Garibaldi, fu sponsorizzata non solo dalla sinistra del Pd ma persino dalla sinistra a sinistra del Pd, fronte Pippo Civati).


Nonostante sia stato proprio Renzi a nominarlo a capo dell' Inps - anche se la decisione è stata presa più sulla base della rinuncia degli altri candidati che su quella di un investimento specifico di Palazzo Chigi - dal giorno del suo insediamento all' Istituto nazionale della previdenza sociale Boeri ha scelto di muoversi con un passo non da tecnico puro ma da tecnico politico.

Già pochi mesi dopo la sua nomina (24 dicembre 2014) ha cominciato a intestarsi alcune battaglie squisitamente politiche: lotta ai vitalizi ("Dimezziamo quelli sopra gli 80 mila euro"), lotta alle pensioni d' oro ("Ricalcoliamo tutte le pensioni retributive o miste con il solo calcolo contributivo"), lotta a favore dell' introduzione del reddito minimo ("Andrebbe introdotto un reddito minimo garantito per gli over 55").


Al di là delle dichiarazioni, che quasi somigliano comunque a una bozza di agenda di governo, la tentazione di Boeri (fratello di Stefano, architetto, ex assessore della giunta Pisapia) di svestire i panni del tecnico per indossare gli abiti del politico era già emersa esattamente due anni fa, quando il fondatore del sito Lavoce.info si illuse che le voci che lo davano come prossimo ministro del Lavoro del governo Renzi fossero vere - Boeri digerì a fatica la scelta fatta dal segretario del Pd di affidare invece quel ruolo a Giuliano Poletti.

Oggi Tito Boeri coltiva una nuova illusione. E se da un lato il club delle prime mogli (D' Alema, Letta, Prodi) probabilmente non crede fino in fondo alla possibilità di spodestare Renzi da Palazzo Chigi (anche perché il presidente della Bce Mario Draghi, pur mantenendo alcune riserve nei confronti dell' atteggiamento del governo in Europa, non ha alcuna intenzione di triangolare neanche lontanamente con il partito della zizzania), dall' altro lato si può dire che il bocconiano Boeri sogna ormai da tempo di poter essere un giorno la guida di un governo alternativo a quello attuale (e poi chissà).

Oggi i renziani sorridono, e sorridiamo anche noi. Ma se un domani dovesse esserci un qualche cortocircuito al governo il partito trasversale di Tito Boeri proverà in tutti i modi a trasformare il presidente dell' Inps nel Monti del 2016. Auguri, e figli spread.

fonte: Il Foglio

lunedì 8 febbraio 2016

"Non si tratta solo di guardare alla carità, ma anche alla ragione"

La Conferenza episcopale tedesca prende posizione sull’emergenza migratoria, che da mesi – in particolare dopo le aperture estive di Angela Merkel, che garantì piena disponibilità all’accoglienza dei profughi in fuga dalla Siria, senza fissare limiti o quote – ha visto arrivare in Germania centinaia di migliaia di richiedenti asilo (più di un milione nel 2015, e le previsioni per l’anno corrente sono simili, come più volte sottolineato dal ministro dell’Interno, Thomas de Maizière, allarmato dal constatare che tra i profughi non vi sono solo individui che scappano da paesi in guerra). E’ stato il cardinale Reinhard Marx, presidente dell’organismo che riunisce i presuli locali nonché arcivescovo di Monaco e Frisinga e ascoltato collaboratore del Papa (è membro della speciale consulta incaricata di riformare la curia romana e coordinatore del Consiglio per l’economia della Santa Sede), a dire che “è necessaria una riduzione del numero di rifugiati”. Lo ha fatto in un’ampia intervista concessa al Passauer Neue Presse, dalle cui colonne ha osservato che “la Germania non può farsi carico di tutti i bisognosi del mondo”. Il punto centrale è che “non si tratta solo di guardare alla carità, ma anche alla ragione. La politica deve essere sempre concentrata su ciò che è possibile fare” e nel caso specifico “ci sono sicuramente dei limiti”. La ricetta proposta da Marx – che ribadisce “il massimo rispetto per la signora Merkel e le sue politiche” anche se sembra appoggiare implicitamente le tesi della Csu bavarese – è quella di “aiutare i profughi nei loro paesi d’origine, in Africa e nel medio oriente”.


Di certo, la soluzione non può essere quella prospettata dall’Alternativa per la Germania (Afd), il partito populista ed euroscettico – dato in costante crescita nei sondaggi – che ritiene legittimo sparare contro i migranti che tentano di entrare in territorio tedesco: “Purtroppo qui l’estremismo di destra e il razzismo hanno sempre avuto un certo potenziale per esprimersi, ed evidentemente questa ideologia si è ulteriormente consolidata. Questa violenza e la propaganda contro i rifugiati mi spaventano molto, stiamo assistendo anche in ambienti borghesi all’incitamento contro gli stranieri”. La presa di posizione della Conferenza episcopale tedesca non è il primo segnale del genere che giunge dall’Europa. In estate, mentre Francesco nei suoi Angelus ribadiva la necessità di accogliere chi fugge dalle guerre (l’ha ribadito anche domenica scorsa, riferendosi al conflitto intestino che da quasi cinque anni lacera la Siria), furono diversi vescovi ungheresi – con il distinguo dell’arcivescovo di Budapest, il cardinale Péter Erdo – a plaudire la scelta del primo ministro Viktor Orbán di costruire un muro per prevenire gli afflussi dalla vicina Serbia: “Papa Francesco ha torto e i rifugiati ci invadono”, diceva mons. László Kiss-Rigo, in un’intervista al Washington Post, bollando come “invasione” i tentativi dei migranti di passare le frontiere dell’Unione europea: “Vengono qui al grido di Allahu Akbar, ci vogliono conquistare. Sono totalmente d’accordo con il primo ministro”, i rifugiati minacciano i “valori universali, cristiani” dell’Europa.


Sulla stessa linea anche il vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Budapest, monsignor János Székely: “Con una difesa fisica il processo d’immigrazione illegale si ferma. E’ una soluzione forte ma efficace”. In una successiva dichiarazione pubblicata a inizio settembre, i vescovi magiari si dicevano sì interessati a “conoscere le sorti dei cristiani in medio oriente”, ma allo stesso tempo chiarivano come pendesse sugli stati “il diritto e il dovere di proteggere i propri cittadini”.

fonte: Il Foglio

sabato 6 febbraio 2016

Renzi e Andreotti

"Renzi sta procedendo a una restaurazione che ha il tratto di un certo andreottismo: potere per il potere senza un disegno. A differenza di Andreotti che aveva due forni, lui ne ha quattro: Verdini per le riforme, Ncd per governare, il M5s per le unioni civili, lo stesso Berlusconi per l’Italicum.

Renzi pensa sempre di non pagare un prezzo per la sua spregiudicatezza. E sta facendo un errore di fondo. Lui sta imbarcando solo ceto politico di destra, non voti. Non è un’operazione vincente, a fronte di tutti gli elettori di sinistra che se ne vanno, un’autentica scissione silenziosa".

Miguel Gotor, Il Fatto Quotidiano, 6 febbraio 2016

La peggior forma di governo

  " La democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre fino ad ora sperimentate " Winston Churchill a...