domenica 31 gennaio 2016

Family day after


Vent’anni dopo

Vent’anni dopo che cosa è cambiato? Vent’anni dopo che cosa è rimasto? Vent’anni dopo qual è l’eredità politica di Silvio Berlusconi? Incontriamo Silvio Berlusconi nel pomeriggio di ieri a Roma, alla sede del Foglio, il giorno prima del compleanno del nostro giornale, che oggi festeggia i suoi primi vent’anni (cin cin), e cogliamo l’occasione dei brindisi per il nostro ventennio per riavvolgere il nastro con l’ex presidente del Consiglio e provare a capire, a poco più di vent’anni dalla sua discesa in campo, cosa è cambiato nel nostro paese e cosa avrebbe l’occasione di fare, in questa fase storica delicata, quello che a noi sembra (ma non a Berlusconi) un possibile e naturale erede del berlusconismo: il Royal Baby, Matteo Renzi.

Cominciamo dall’inizio, cominciamo da lì. Presidente. Sono passati ventidue anni da quel 26 gennaio 1994 in cui lei ha annunciato la sua discesa in campo. Se dovesse fare oggi un altro video di nove minuti per spiegare cinque cose in cui è cambiata l’Italia e cinque cose in cui non è cambiata rispetto a quel giorno che cosa direbbe? “Una domanda troppo difficile. L’Italia del 1994, quando mi rivolsi agli italiani con quel messaggio, era un paese in profonda crisi, non solo economica ma anche politica, di fronte alla scomparsa – anzi all’eliminazione violenta – dei partiti democratici da parte della magistratura. Sull’onda del consenso, effimero ma diffuso, intorno all’operazione Mani pulite, la sinistra post comunista sembrava avere il potere a portata di mano. Oggi quella sinistra non esiste quasi più, e credo sia merito nostro. La maggioranza naturale degli italiani si è potuta riunire in un centrodestra di governo, parola questa che per tutta la Prima repubblica era stata impronunciabile. E questo è il secondo cambiamento. Il terzo è che gli italiani hanno scoperto il bipolarismo e l’alternanza di governo, sia pure imperfetta. Il quarto è che – almeno a parole – i valori liberali, allora sostenuti solo da una piccola minoranza, sono condivisi da tutti. E tutti oggi – così siamo arrivati a cinque – sostengono la necessità di fare quelle riforme delle quali allora parlavamo soltanto noi. Insomma, abbiamo ottenuto non poco, ma naturalmente c’è il rovescio della medaglia. C’è sempre una magistratura di sinistra che condiziona pesantemente la politica, c’è il livello della tassazione, già altissimo e cresciuto ancora, nonostante i miei governi lo abbiano contenuto in ogni modo possibile. Il conformismo dei mezzi di comunicazione non è cambiato, salvo poche ammirevoli eccezioni la prima delle quali è rappresentata dal giornale che oggi festeggiamo, la burocrazia è inefficiente e pervasiva come allora, l’Italia è tornata a essere irrilevante sul piano internazionale, dopo aver svolto, negli anni in cui abbiamo governato, un ruolo di primo piano. E’, insomma, un bilancio dolceamaro”.

Ventidue anni dopo al governo c’è un leader di un partito avverso al suo che su molte battaglie si ispira chiaramente al primo programma elettorale di Forza Italia. Che cos’è che Matteo Renzi ha provato a riproporre delle vostre idee? E cosa invece non riuscirà mai a fare, di quelle idee, essendo un leader di un partito di sinistra? “Sento dire spesso che Renzi si ispirerebbe in qualche modo a Forza Italia. Se questo è vero, allora devo dire che l’imitazione non gli è riuscita bene. Renzi con noi non ha nulla in comune, se non una cosa: la consapevolezza che il vecchio linguaggio della politica ha stancato gli italiani. Ma di fronte a questo noi abbiamo scelto la strada della concretezza, della chiarezza, della realtà. Lui, quella delle battute, dell’arroganza, degli annunci. Per il resto, Renzi è un democristiano di sinistra nell’accezione peggiore del termine: somiglia più a Ciriaco De Mita che ad Aldo Moro. La sua è la versione 2.0 della vecchia teoria enunciata nel ‘Gattopardo’: bisogna che tutto cambi affinché non cambi nulla. Questo vale per la riforma costituzionale, studiata per consolidare il suo potere, come per i provvedimenti più pubblicizzati, dall’inefficace Jobs Act alla riforma della Pubblica amministrazione, al mai realizzato taglio delle tasse”. 

Se Matteo Renzi, come dice lei, non avesse “tradito” il patto del Nazareno, secondo lei sarebbe stato possibile immaginare nel futuro la nascita di un movimento unico capace di aggregare le forze moderate del centrodestra e del centrosinistra? “Non abbiamo mai pensato al patto del Nazareno in questa chiave. L’idea nella quale abbiamo creduto era solo quella di lavorare insieme per modernizzare il paese attraverso riforme condivise. Purtroppo, ci siamo resi conto che ci avevamo creduto solo noi”.

Ventidue anni dopo, anche la sinistra ha scoperto che una parte della magistratura italiana agisce con finalità politica e che non è un’eresia criticare le procure che si muovono con tempistiche sospette. Quali sono secondo lei le principali riforme che in questi vent’anni, anche nei vostri governi, non sono state fatte e che avrebbero potuto riequilibrare tutti gli squilibri che esistono nella magistratura italiana? “C’è una riforma-simbolo, quella che Fini e Casini ci hanno sempre impedito di realizzare: la separazione delle carriere. Come avviene in tutti i paesi civili, in tutto l’occidente, chi rappresenta l’accusa dev’essere del tutto distinto e distante rispetto a chi deve giudicare. Il pubblico ministero per parlare con il giudice deve mettersi in coda davanti alla sua porta esattamente come l’avvocato difensore. Fini e Casini più volte minacciarono di far cadere il governo se avessi portato sul tavolo del Consiglio dei ministri anche solo questa riforma. Per loro era indispensabile contare sulla protezione dell’Associazione nazionale magistrati. Immaginatevi quale sarebbe stata la loro reazione se avessi tentato di far approvare dal Parlamento una vera riforma della magistratura, da quella del Csm fino alla non appellabilità delle sentenze di assoluzione!”.

Ventidue anni dopo, la politica si ritrova oggi a dover fare i conti con – diciamo così – il “fenomeno Grillo”. Su quali basi culturali secondo lei nasce il grillismo? Non pensa che sia responsabilità della sinistra la nascita di questo movimento? E non pensa che sia un errore, per il centrodestra, essere percepito come una forza politica che su alcune battaglie fa un’opposizione non così diversa da quella di Beppe Grillo?

“Grillo nasce dalla pericolosa sintesi di stati d’animo diversi: i rimasugli della sinistra ‘antisistema’, l’invidia per chi ha avuto successo nella vita e la ricorrente voglia di jacquerie, di rivolta contro tutto e contro tutti, senza un obiettivo chiaro che non sia la distruzione. Da questo cocktail di ideologia, di giustizialismo e di ribellismo sono nati nel Ventesimo secolo movimenti pericolosissimi. Quando ho spiegato che Grillo ripeteva molte parole d’ordine di Adolf Hitler, non era affatto un’esagerazione polemica, era una constatazione tecnica. Il fatto che poi i grillini nelle istituzioni si siano rivelati inconcludenti, contraddittori e del tutto incapaci non deve tranquillizzare. Aumenta il pericolo, non lo diminuisce. Quanto al fatto che accada a Forza Italia di votare nello stesso modo dei grillini, certamente succede, essendo entrambi all’opposizione. Ma credo che nessuno possa confondere il nostro modo e le nostre ragioni di opposizione con quelle dei grillini. Siamo all’opposto, sia nei contenuti che nello stile. E il centro-destra, per essere vincente, deve rimanere se stesso”.

Proviamo a giocare. Ci dice cinque caratteristiche che dovrà avere un buon leader del centrodestra per essere competitivo quando si andrà a confrontare alle elezioni con Matteo Renzi? “E’ facile… Deve aver ottenuto una laurea con il massimo dei voti portando una tesi sulla pubblicità, deve aver costruito alcuni quartieri modello alla periferia di una grande città, deve aver fondato almeno tre televisioni commerciali, deve avere vinto almeno 3 Champions League, deve aver ottenuto decine di milioni di voti dagli italiani… Uno con queste caratteristiche lo conoscevo, solo che, per non correre rischi, i signori della sinistra con l’aiuto dei loro amici magistrati lo hanno reso incandidabile”. Presidente, in che cosa secondo lei il berlusconismo ha cambiato l’Italia? E quali sono a suo avviso le battaglie che avrebbe voluto e dovuto vincere e che invece, in questi anni, non è riuscito a portare a termine? “In questi vent’anni io ho una colpa della quale non mi do pace: non sono riuscito a convincere gli italiani a darmi il 51 per cento dei voti. Questo non mi ha permesso, in tante occasioni, di realizzare quella rivoluzione liberale che avevo chiarissima nella mente e nel cuore, e che rimane ancora oggi un mio obiettivo. Sottolineo, la rivoluzione liberale, non il ‘berlusconismo’ che è un termine che non mi piace e un concetto che non esiste. Abbiamo fatto tante riforme importanti, dalla scuola al lavoro, dal fisco alle infrastrutture, all’Alta velocità che ha ravvicinato il nord al sud. Abbiamo dato un ruolo internazionale all’Italia non sbagliando alcunché, abbiamo posto fine alla Guerra fredda, abbiamo sventato il pericolo comunista. Ma tutto questo non basta. Abbiamo cambiato l’agenda della politica, questo sì. Oggi i diritti dell’individuo, le sue libertà, i valori dell’impresa e del lavoro, la questione decisiva delle garanzie, sono tutti percepiti come fondamentali. I cittadini sono ben più consapevoli che nel passato dell’importanza di queste cose. Ma da qui a vederle realizzate, ce ne corre”.

Secondo lei perché, in tutta Europa, quando la sinistra va al governo capita spesso che sia costretta a fare politiche che la stessa sinistra fino a un secondo prima considerava di “destra”? “Perché è costretta a fare i conti con la realtà, e al tempo stesso non è vittima dell’aggressione conformistica del politicamente corretto, di solito sostenuta dai grandi mezzi di informazione, dal mondo della cultura, dai sindacati, dalla magistratura”. In tutto il mondo, compresa l’Italia, si sta rafforzando sempre di più la retorica del “non esiste alcuna differenza tra destra e sinistra”. Proviamo a rigirare la frittata. Secondo lei, oggi, esiste una differenza profonda tra un elettore che vota a destra e un elettore che vota a sinistra? “Si tratta, appunto, di retorica. Forse sono finite – e sarebbe una fortuna – le ideologie, ma non sono affatto finite le idee. Un elettore liberale pone al primo posto la libertà ed è convinto che essa significhi ‘meno stato’ in ogni ambito della vita dei cittadini a cominciare dall’economia. Pensa che questa sia la migliore soluzione per il suo benessere personale e per quello della collettività. Un elettore di sinistra pensa che tocchi allo stato garantire con il suo intervento il benessere e l’equità, anche togliendo a chi ha di più per amministrare direttamente più risorse, nonostante sia sempre più ovvio che lo stato queste risorse le amministra male… Per questo è disposto ad accettare anche una limitazione della propria libertà, a pagare tasse più alte, a considerare tutti i suoi diritti una elargizione dello stato di cui si sente al servizio e via dicendo. Mi sembra una distinzione fondamentale”.

La provochiamo. Ma se oggi Berlusconi fosse presidente del Consiglio, quali sarebbero le cinque cose che farebbe domani mattina in Consiglio dei ministri? “Prima sintetizzo: meno tasse, meno stato, meno Europa, più aiuto a chi ha bisogno, più sicurezza per tutti, più garanzie per ciascuno con una completa riforma della giustizia. Meno tasse: la riforma complessiva del fisco, introducendo la flat tax, sostitutiva di tutte le imposte sul reddito, uguale per tutti, famiglie e imprese, con un’esenzione per i primi 12.000 euro. Via le tasse sulla casa, via l’imposta di successione, via l’Irap alle imprese, via l’Imu agricola, via le autorizzazioni preventive. Andiamo avanti. La riforma della magistratura: la separazione delle carriere e una nuova disciplina delle intercettazioni, della custodia cautelare e della legittima difesa. Stanziamenti adeguati per il comparto sicurezza. E poi le norme necessarie per far ripartire le grandi opere. E ancora: l’abolizione di ogni sanzione nei confronti della Russia. Ma c’è molto altro, ci sono anche altre grandi questioni, che non vanno in Consiglio dei ministri, ma che sono decisive per il nostro futuro. Una politica estera del tutto diversa, e una vera riforma della Costituzione, che allarghi e non restringa, come fa quella di Renzi, la sovranità dei cittadini e l’efficienza dello stato”. Riprovochiamo. Secondo lei come sarebbe cambiata l’Italia se Berlusconi fosse stato presidente della Repubblica? “Ci sarebbe stato un Quirinale arbitro e garante, non un protagonista fazioso come è stato in un passato recente. Ma proprio per questo non ho mai aspirato al Quirinale. Sono consapevole dell’importanza dell’arbitro e ne ho grande rispetto, ma io sono un giocatore in campo, attaccante, non un arbitro”. Presidente, ma se qualcuno della sua famiglia un giorno decidesse di fare politica lei sarebbe orgoglioso o, ventidue anni dopo, crede che fare politica non valga la pena? “Sono un padre liberale, che ha sempre rispettato le scelte dei propri figli. Ma se qualcuno di loro mi annunciasse di voler fare politica diventerei di colpo autoritario. Non accetterei mai che qualcuno dei miei figli possa subire quello che ho subìto io. Il che non significa affatto che per quanto mi riguarda non ne sia valsa la pena”. Riavvolgiamo il nastro e torniamo all’inizio. Ventidue anni dopo il suo primo discorso alla nazione come è cambiato l’elettore italiano? C’è qualcosa in cui, secondo lei, anche l’italiano più distante da lei non può non dirsi in un certo senso berlusconiano? “Direi che gli elettori sono sempre più consapevoli e sempre più scettici. E questo è un bene e un male insieme. Un bene, perché rende più difficile per i politici prenderli in giro, un male perché allontana la gente dalla partecipazione democratica. Ma l’assenteismo elettorale mina alle radici la democrazia, e ottiene l’effetto opposto a quello voluto: rafforza i politici più lontani dalla gente. In cosa ogni italiano non può non dirsi berlusconiano? Mi auguro nell’amore per la libertà”. Che cosa le piacerebbe che fosse scritto del berlusconismo un domani nei libri di storia? “Francamente non mi sento pronto per i libri di storia. Me ne occuperò quando avrò vinto definitivamente la battaglia per la democrazia e per la libertà. E questo accadrà quando in Italia la rivoluzione liberale sarà davvero compiuta. Come vede, c’è tempo”. Domanda sul presente e in un certo senso anche sul futuro. La legge elettorale che oggi è in vigore, l’Italicum, a noi sembra quanto di più berlusconiano possa esistere: premio alla lista e dunque niente coalizioni rissose e possibilità di promuovere il bipolarismo e un giorno forse anche il bipartitismo. E’ d’accordo? E cosa invidia lei oggi del sistema politico americano? “In America esistono due Camere, nessuno si sogna di abolirle, i cittadini le eleggono entrambe, eppure il sistema funziona, i compiti dei due rami del Parlamento non si sovrappongono, e il numero totale dei parlamentari, in un paese che ha il quadruplo della nostra popolazione, è inferiore al nostro. Forse il sistema funziona perché gli Stati Uniti sono una repubblica presidenziale, la soluzione che invoco per l’Italia da molti anni. Quanto all’Italicum, va sempre visto nel quadro complessivo della riforma costituzionale. Non vedo cosa ci sarebbe di berlusconiano – le ripeto, non mi piace questa parola – nel consentire a una sola forza politica, che raccolga appena il 20 per cento del consenso degli aventi diritto al voto, di governare senza controlli e senza contrappesi”.

Qualche mese fa lei ha deciso di partecipare a un incontro del Ppe e ha avuto anche l’occasione di incontrare la signora Merkel. Secondo lei il centrodestra del futuro, anche quello italiano, farà bene a ispirarsi alle idee dei due grandi leader conservatori europei di oggi, ovvero Angela Merkel e David Cameron? “Angela Merkel e David Cameron sono certamente modelli ai quali un moderno centrodestra non può non guardare, questo è naturale. Ma le loro idee non coincidono del tutto né tra di loro né con le nostre. In particolare, con la Cdu abbiamo in comune i valori di fondo espressi nel Ppe, e  quindi la centralità e la sacralità della persona, il riconoscimento della matrice giudaico-cristiana dell’idea di Europa, il valore della solidarietà non assistenziale. Con i Conservatori britannici l’idea di libertà economica, di riduzione del carico fiscale, di limiti al potere dello Stato, di solidarietà atlantica. Sono le idee del futuro. Valgono non solo per l’Italia, ma per l’occidente e probabilmente per il mondo intero”. Giornali. Come immagina i prossimi vent’anni dell’industria editoriale dei giornali italiani? Che prodotti saranno vincenti e quali andranno lentamente a morire? “Sono convinto che il futuro dei giornali sia proprio quello che il Foglio e pochissimi altri in Italia già anticipano. Il giornale come fonte di notizie è fatalmente anticipato dalla televisione e dal web. Il giornale come strumento di riflessione, di critica, di dibattito, di approfondimento, rimarrà insostituibile”. Oggi il Foglio  compie vent’anni presidente. “Per me il Foglio rappresenta uno spazio di libertà, una coscienza critica preziosa, che non esita a fare scelte libere e non scontate. Che ci costringe ogni giorno a riflettere e a verificare le nostre opinioni. Un giornale saldo nel valori di libertà ma alieno da ogni conformismo, anche da quello della libertà”. Cin cin.
 
fonte: Il Foglio, 30 gennaio 2016

Nell'accezione peggiore del termine

«Sento dire spesso che Renzi si ispirerebbe in qualche modo a Forza Italia. Se questo è vero devo dire che l'imitazione non gli è riuscita bene. Renzi con noi non ha nulla in comune. Noi abbiamo scelto la strada della concretezza, della chiarezza e della realtà. Lui quella delle battute, dell'arroganza e degli annunci. È un democristiano di sinistra nell'accezione peggiore del termine: somiglia più a Ciriaco De Mita che ad Aldo Moro.La sua è la versione 2.0 della vecchia teoria enunciata nel ‘Gattopardo’: bisogna che tutto cambi affinché non cambi nulla».

fonte: Silvio Berlusconi, Il Foglio, 30 gennaio 2016

sabato 30 gennaio 2016

Stepchild o non stepchild: la posizione di Gaetano Quagliariello

Pubblichiamo l’intervento in Senato dell’onorevole Gaetano Quagliariello (IDEA – Identità e Azione) in merito alle pregiudiziali di costituzionalità sul ddl Cirinnà – 28 gennaio

Signor Presidente, colleghi senatori, la pregiudiziale di costituzionalità che ora brevemente illustrerò intende segnalare a beneficio dei lavori di quest’Aula uno dei vizi più gravi del disegno di legge in esame: vizio strutturale e dunque tale da inficiare la legittimità costituzionale dell’intero testo.

Mi riferisco al contrasto con l’articolo 29 della nostra Carta costituzionale: contrasto che è determinato palesemente per via dei molteplici, insistiti, ripetuti richiami che la disciplina delle unioni civili che il disegno di legge si prefigge di introdurre – peraltro limitatamente a coppie di conviventi dello stesso sesso – opera rispetto al Titolo VI, Libro I del codice civile, e dunque segnatamente al diritto matrimoniale e al diritto di famiglia.

Il tema è da un lato di un’evidenza schiacciante, dall’altro estremamente insidioso alla luce delle laceranti discussioni che investono aspetti particolarmente delicati del testo al nostro esame. Vediamo perché.

In questo senso, già la scelta opinabile e da noi fortemente contestata di riservare l’accesso all’istituto dell’unione civile alle sole coppie dello stesso sesso, e precluderlo alle coppie di sesso diverso, prova molto.

Nel senso che tale scelta, motivata solitamente con l’argomentazione per la quale le coppie eterosessuali hanno già la possibilità di accedere all’istituto del matrimonio, conferma la volontà di delineare non un istituto giuridico del tutto originale, come pure si è cercato di far credere, ma esattamente un surrogato dell’istituto matrimoniale.

Il tema va ben al di là della mera dimensione nominalistica, e per comprenderlo appare opportuno assumere come faro del nostro ragionamento da un lato il testo della Costituzione e la traccia del suo percorso evolutivo rimasta scolpita nei lavori dell’Assemblea costituente e, dall’altro, la nota sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010 che, nel sollecitare il legislatore ad una regolamentazione giuridica delle unioni anche fra persone dello stesso sesso, fissava al contempo paletti non valicabili.

Il discrimine sta nella lettera e nello spirito dell’articolo 2 della nostra Carta costituzionale, al quale l’istituto dell’unione civile dovrebbe ancorarsi. Giova infatti ricordare che se nel progetto di Costituzione si faceva riferimento al riconoscimento dei diritti inviolabili degli (sottolineo «degli») individui e delle (sottolineo «delle») formazioni sociali ove si svolge la loro personalità, fu la convergente attività emendativa di Moro e Fanfani da un lato, e di Nilde Iotti e Amendola dall’altro, a consegnarci la formulazione scolpita nella Carta del ’47: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (…)». Con ciò, come ebbe a sottolineare Aldo Moro in sede di Assemblea costituente, si intendeva riconoscere i diritti essenziali di libertà alle formazioni sociali nelle quali si svolgono la dignità e la libertà dell’uomo, ma si individuava quest’ultimo – l’uomo, per l’appunto – come titolare di un diritto che trova una sua espressione nella formazione sociale.

uzionale ha sollecitato il legislatore ad intervenire, non a caso facendo riferimento a «una disciplina (…) finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia».
A noi pare invece che da questo solco si sia abbondantemente fuoriusciti, proponendo nel disegno di legge al nostro esame una disciplina giuridica che sostanzialmente ricade sotto l’orbita dell’articolo 29 e, dunque, si pone in contrasto con esso dal momento che è finalizzata a regolare fattispecie ad esso estranee.

È infatti la stessa Corte costituzionale a escludere in radice la possibilità di un’interpretazione estensiva dell’articolo 29. Non perché il dettato della Carta non possa essere interpretato alla luce del mutare dei fenomeni sociali, ma perché «detta interpretazione non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata». In caso contrario, da un’attività ermeneutica si scivolerebbe in un’attività di interpretazione creativa. Soprattutto, insuperabile appare il riferimento della Corte al «rilievo costituzionale attribuito alla famiglia legittima ed alla (potenziale) finalità procreativa che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale».

Alla luce di tali considerazioni, colleghi senatori, è evidente come il tentativo di assoggettare l’istituto dell’unione civile alle norme codicistiche proprie del diritto matrimoniale, e dunque del diritto di famiglia, non solo compromette l’unicità della famiglia fondata sul matrimonio sancita dalla Costituzione, ma trasferisce in capo a una nuova e specifica formazione sociale, non orientata alla procreazione, una disciplina giuridica (quella, appunto, di cui al Titolo VI del Libro I del codice civile) finalizzata primariamente alla tutela della prole dalla quale discende l’interesse al riconoscimento pubblicistico.

Non sfugge peraltro l’insidia consapevolmente sottesa a tale operazione, che spiega anche per quale motivo ci si sia avventurati per la strada impervia di un disegno di legge sbagliato dal punto di vista costituzionale, laddove una normativa finalizzata a riconoscere e garantire i diritti dei conviventi, indipendentemente dalla natura sessuale della convivenza stessa, senza pretesa di assimilazione al diritto di famiglia, avrebbe incontrato l’immediato consenso di gran parte delle forze politiche rappresentate in quest’Aula. Avremmo approvato un testo all’unanimità.

La finalità che sottende all’impianto del cosiddetto disegno di legge Cirinnà, infatti, è quella di porre consapevolmente le premesse per l’attribuzione per via incidentale, in sede giurisprudenziale, di diritti ulteriori fin qui specificamente connessi all’istituto matrimoniale, e in particolare del diritto all’adozione.

Presidente, colleghi, da settimane ci si arrovella alla ricerca di espedienti che consentano di inserire nel testo di legge la cosiddetta stepchild adoption, magari sotto mentite spoglie, con ciò legittimando di fatto il ricorso a pratiche procreative in contrasto con le nostre leggi e forse anche con i fondamenti della nostra civiltà. Il fatto è che, anche laddove si dovesse espungere dal disegno di legge la norma diretta sull’adozione, ciò che esce dalla porta rientrerebbe inevitabilmente e presto dalla finestra, magari attraverso le Corti europee come già accaduto in altri Paesi del vecchio Continente.

La giurisprudenza europea è infatti sostanzialistica: lo si può chiamare unione civile, lo si può anche chiamare Pluto, lo si può chiamare come volete, ma quanto più un istituto nella sua sostanza giuridica si avvicina a quello matrimoniale, tanto più sarà considerato discriminatorio il mancato riconoscimento nella disciplina dell’istituto stesso di diritti connessi al matrimonio.

Insomma, stepchild o non stepchild, con un simil-matrimonio ci ritroveremo presto il diritto all’adozione, con tutto ciò che ne consegue in materia di pratiche genetiche.
È questa la ragione per la quale è stata così smaccatamente sfidata la legittimità costituzionale, sottoponendo all’esame di quest’Aula un testo in aperto contrasto con l’articolo 29 e con le sentenze della Corte. È questa la ragione per la quale offriamo la pregiudiziale appena illustrata alla riflessione dell’Assemblea e dei colleghi.




Famiglia cristiana


venerdì 29 gennaio 2016

Il ruolo di Tommaso da Celano



Fra Tommaso da Celano fu attore protagonista del nascente francescanesimo “li dove la Provvidenza di Dio lo fece testimone della sua Misericordia”.

Queste le parole di monsignor Pietro Santoro, Vescovo di Avezzano, in un messaggio portato da Ennio Grossi al convegno internazionale su “Tommaso da Celano, agiografo di san Francesco” che si è aperto questa mattina alla Pontificia Facoltà teologica “San Bonaventura”, Seraphicum.

Nel messaggio il Vescovo di Avezzano ha ricordato che Fra Tommaso, autore della prima biografia di san Francesco, ha potuto conoscere il poverello di Assisi, per essergli stato vicino, in “assidua comunione di vita e di scambievole familiarità”.
Il prelato ha auspicato che il convegno possa riscoprire il pregio delle opere letterarie di fra Tommaso ma anche l’opera grande della sua vita.

Nell’introdurre i relatori, Fra Domenico Paoletti, Preside della Facoltà Teologica ha spiegato che l’idea di  rivisitare Tommaso, scrittore e testimone di San Francesco e del  Francescanesimo, mostra che “l’agiografia è la vera teologia e aiuta a comprendere meglio Gesù Cristo”.
Perché come ha scritto saggiamente H. U. von Balthasar: “la storia è luogo teologico e i santi sono i veri teologi perché hanno compreso il vangelo vivendolo, e testimoniandolo lo rendono attraente e credibile”.
“Francesco d’Assisi – ha aggiunto il Preside – è conosciuto ed ammirato da tutti perché incontrando e seguendo Gesù Cristo ha testimoniato l’autentico umanesimo “in uscita” come direbbe papa Francesco, ossia in relazione con Dio, con il prossimo e con tutte le creature”.
E noi conosciamo Francesco d’Assisi, e i primi passi del movimento francescano e di Chiara, -ha sottolineato Fra Paoletti – grazie alla testimonianza scritturistica di frate Tommaso da Celano”.
In un libro appena pubblicato dalle  Edizioni Biblioteca Francescana Milano con il titolo “La vita ritrovata del beatissimo Francesco” il medievalista francese Jacques Dalarun racconta di una “leggenda umbra” secondo cui esisteva una storia di San Francesco scritta da Tommaso da Celano su mandato di frate Elia che fu Ministro Generale tra il 1232 ed il 1239.
Il 15 settembre del 2014 il professore Dalarun ricevette da Vermont un messaggio da un suo amico, Sean L.Field, il quale segnalava un manoscritto in vendita che conteneva la “Vita di San Francesco”.
Un’altra studiosa Laura Light ipotizzava che si trattasse della “Vita di San Francesco” scritta da fra Tommaso.
Il prof. Dalarun segnalò la scoperta a Isabelle Le Masne De Chermont, direttrice del dipartimento di manoscritti presso la Bibliothèque nationale de France e con l’accordo del presidente Bruno Racine si decise per l’acquisto del manoscritto.
L’annuncio della scoperta venne dato il 16 gennaio del 2015, e l’Osservatore Romano titolò “Il San Francesco ritrovato”.
Si tratta di una grande scoperta perché nel 1266 al capitolo generale di Parigi , presieduto dal ministro generale Bonaventura, per mettere fine alle discordanze nell’Ordine, venne ordinato di distruggere tutte le leggende liturgiche precedenti a quella scritta da Bonaventura stesso.
Ha sostenuto Dalarum che fu Gregorio IX a chiedere a fra Tommaso la scrittura e pubblicazione della vita del Santo di Assisi, e che “la sopravvivenza del manoscritto” della “Vita del beato padre nostro Francesco” sepolto in una collezione privata fino alla sua messa in vendita  e oggi riemerso “ha veramente del miracoloso”.
Nonostante siano passati diversi secoli la vita di San Francesco, raccontata da fra Tommaso è un testo affascinante e lieto.
Il Convegno internazionale e la pubblicazione del libro di Dalarun, contribuiscono inoltre a ravvivare l’interesse per la causa di beatificazione di Fra Tommaso che già in vita veniva chiamato “beato” dal popolo.

fonte: Zenit

giovedì 28 gennaio 2016

Una rivoluzione antropologica

Caro Direttore, 
sono intervenuto 70 volte in Commissione Giustizia parlando per circa 12 ore in discussione generale prima e per cominciare ad illustrare e votare poi i circa 1000 emendamenti che avevo presentato sul disegno di legge unificato Cirinnà sulle Unioni civili. 
Il dibattito è stato poi traumaticamente troncato da una iniziativa del Presidente del Senato che ha portato direttamente in Aula il 14 ottobre un nuovo disegno di legge Cirinnà, presentato al Senato soltanto il 6 di ottobre, scavalcando la Commissione Giustizia, in palese violazione dell'art. 72 della Costituzione che impone che i disegni di legge  vengano discussi  prima in Commissione e poi in Aula.
Non solo: davanti a questa forzatura senza precedenti, con i colleghi parlamentari Augello, Compagna, Quagliariello, Piso e Roccella siamo usciti dal NCD, e siamo passati all'opposizione, perchè abbiamo preso atto che il partito di Alfano, malgrado gli interventi a gamba tesa  del Presidente del Consiglio  Matteo Renzi, del Ministro per i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi e del  Sottosegretario  Ivan Scalfarotto, che hanno dettato contenuti,  tempi e modi del dibattito parlamentare, non voleva mettere in discussione la continuazione  dell'esperienza di governo, neppure di fronte ad una rivoluzione antropologica, appoggiata dal governo stesso.
Credo sia giusto pertanto che davanti al popolo del Circo Massimo i parlamentari debbano rispondere non come categoria ma ognuno sulla base dei propri convincimenti e dei propri comportamenti.

Sen. Carlo Giovanardi, La bussola quotidiana

Tutti siamo nudi


I cimiteri monumentali, giganteschi, dove ti perdi tra tutte quelle statue che ti osservano enormi e severe, e ognuno se ne sta rinchiuso nel proprio loculo. I cimiterini di montagna o di campagna, che sembrano giardini a cui mancano soltanto i tavolini dove tutti quei vecchini con l'abito buono, qualche giovanotto e perfino qualche marmocchio possano sedersi per giocare a briscola o bere il tè o correre avanti e indietro, dando la caccia alle lucertole o sfidando gli angeli di pietra a volare, altrimenti che cosa se ne fanno di quelle ali? I cimiteri vanno elogiati perché ci ricordano chi siamo davvero, da dove veniamo e dove andremo. I cimiteri ci costringono a dire a noi stessi la verità, sempre. I cimiteri ci fanno ricordare e sospirare. I cimiteri ci rendono tutti uguali, monumentali o di campagna. I soldi che abbiamo in tasca e in banca, la casa e l'automobile, i titoli e le azioni, la nostra rispettabile posizione di cui andiamo fieri (se l'abbiamo) o il nostro cercare ancora un posto sul mercato, tutto svanisce e dalla terra lo sguardo sale fatalmente verso il cielo: credenti caldi e tiepidi, scettici e dubbiosi, agnostici miti e atei polemici. Al cimitero tutti facciamo i conti con il cielo. Tutti siamo nudi, e impariamo a esserlo: come all'inizio della vita, come alla fine.

fonte: Umberto Folena, Avvenire, 19 gennaio 2016

giovedì 21 gennaio 2016

Maxi sanzione

Intesa anticoncorrenza nel settore dei servizi di pulizia delle scuole: ad accertarla è stata l’Antitrust che ha inflitto una maxi sanzione, di 110 milioni di euro in totale, alle società CNS (Consorzio Nazionale Servizi società cooperativa), Manutencoop Facility Management, Roma Multiservizi e Kuadra.
L’intesa ha condizionato l’esito della gara pubblica bandita da Consip, la centrale acquisti della Pubblica Amministrazione, per un appalto di rilievo comunitario suddiviso in 13 lotti del valore totale di 1,63 miliardi di euro.
Grazie questa intesa, le 4 società – due delle quali sono i maggiori operatori del mercato – hanno annullato di fatto il reciproco confronto concorrenziale nello svolgimento della gara Consip, per spartirsi i lotti più appetibili e aggiudicarsene il numero massimo consentito.

La gara in questione, bandita dalla centrale acquisti della pubblica amministrazione, riguardava un appalto suddiviso in 13 lotti del valore totale di circa 1,6 miliardi. Secondo l’Autorità presieduta da Giovanni Pitruzzella “pur concorrendo formalmente in maniera autonoma il Cns e la consorziata Manutencoop Facility Management hanno concordato, d’intesa con le altre parti del procedimento, la rispettiva strategia per perseguire obiettivi condivisi e alterare così gli esiti della gara, anche avvalendosi di affidamenti in subappalto per la tutela delle rispettive posizioni di mercato”.
Il comportamento delle società, due delle quali sono i maggiori operatori del mercato, non solo ha condizionato l’esito del bando ma” ha annullato di fatto il reciproco confronto concorrenziale nello svolgimento della gara per spartirsi i lotti più appetibili e aggiudicarsene il numero massimo consentito”, spiega l’Antitrust, secondo cui “la collusione si è realizzata attraverso un utilizzo distorto dello strumento consortile”. L’istruttoria che ha portato alla decisione dell’Autorità garante è stata avviata il 15 ottobre 2014.
Non vi è dubbio che le procedure di gara Consip, tese ad affidare appalti in convenzione, vengono bandite con criteri selettivi che spesso producono un effetto anticoncorrenziale. Infatti, la richiesta di requisiti abnormi, privilegiano la partecipazione di grandi gruppi che, come nel Facility Management, sono associati in un unica federazione sindacale. E’ evidente che questo sistema penalizza fortemente la partecipazione delle PMI, a favore di aziende che da ormai un decennio hanno il monopolio di queste commesse, che a loro volta subappaltano ad altre imprese, strozzando il mercato.
Se intesa c’è stata, è probabile che ora possa scattare un inchiesta per turbativa d’asta oltre alla revoca degli affidamenti da parte di Consip, con l’incameramento della cauzione definitiva.
fonte: www.impresedelsud.it

lunedì 18 gennaio 2016

Romanticismo

Imbucare una lettera e sposarsi sono tra le poche cose ancora assolutamente romantiche, perché per essere assolutamente romantica una cosa deve essere irrevocabile.

Gilbert Keith Chesterton, Eretici

sabato 16 gennaio 2016

Il bis di Nucci

Storico bis, ma non così storico l’altra sera alla Scala alla prima di “Rigoletto” di Giuseppe Verdi diretto da Nicola Luisotti. Il quasi 75enne Leo Nucci, alla 515ma serata nella parte del gobbo, ha bissato il duetto “Sì, vendetta, tremenda vendetta / di quest’anima è solo desio…”, finale del secondo atto. Insieme a lui, a sipario chiuso (prima volta dal Dopoguerra), il 27enne soprano americano – astro in ascesa della lirica – Nadine Sierra.

“E’ successo qualcosa di particolare”, ha commentato Nucci. “Io sono abituato a fare bis ma non alla Scala. Sono consapevole della tradizione, ma era quasi impossibile non farlo”. Quasi. Per questo, Nucci ha chiesto l’ok al soprano, all’orchestra e al sovrintendente che, dal suo palco, stava applaudendo in piedi. “È stato un omaggio al pubblico, non per Toscanini che non era il padre eterno e nell’opera ha imposto cose che non stanno ne in cielo ne in terra”.

Verdi non era contrario ai bis: “Alla prima del Requiem a Venezia concesse tre bis. E in una lettera a Ricordi scrisse che alla prima di Macbeth fu bissato il coro del secondo atto”. Finale: “Toscanini non voleva i bis – ha aggiunto – ma ha anche cacciato Puccini dalla Scala.

L’opera è passione e ieri il pubblico si è commosso”. Ma qualcuno (un critico musicale) ha gridato “vergogna” (un altro critico ha lasciato la sala)? “O c’erano 1600 imbecilli – ha osservato Nucci – o si sbaglia lui”.

Per il sovrintendente Pereira, “Nucci è il più grande Rigoletto del mondo, non ha mai cantato di routine e se l’entusiasmo è grande, il bis è un momento di fusione tra cantanti e pubblico che succede in tutto il mondo, è una festa”.

Ma le modalità con la quali è avvenuto – non irresistibili richieste, sipario chiuso con tecnici al lavoro… – sono destinati a far chiacchierare il micromondo della lirica. Intanto perché i bis si ripetono.

Non è stato il primo nemmeno di Nucci: lo ha già concesso l’estate scorsa con “Largo al factotum” nel Barbiere di Siviglia. Il 20 febbraio 2007 Juan Diego Flórez aveva bissato la cavatina “Ah! mes amis” della Fille du régiment di Donizetti con i cosiddetti nove do di petto.

Si parlò di “profanazione” (i melomani sono sempre esagerati): l’ultimo che aveva bissato risaliva al ‘33, Shaljapin nel “Barbiere di Siviglia” (direttore Marinuzzi). Ma il coro l’aveva fatto due volte: “Va pensiero” dal “Nabucco” con Muti nel ’94 e, primo a violare il sacro diktat, Gavazzeni nell’86 con “Oh signor che dal tetto natio…” dai “Lombardi prima crociata”.

Ma la modalità di ieri rimandano a una fruizione ottocentesca, quando sul proscenio si cantava e ricantava in barba a scena, regia e tutto il resto. Un’aberrazione per i puristi questo ritorno a un consumo emozionale, molto italiano; i loggionisti, invece, parlano di “ragioni del cuore” (blog “Lavocedelloggione”).

Per il pubblico scaligero continua a valere un solo punto di vista: poco importano filologia, scena o innovazione registica… importa che i cantanti cantino, espressivamente, come il Duca di Mantova Vittorio Grigolo e i due bissanti Nucci e Sierra. Per tutto il resto c’è la Germania.

fonte: Pierluigi Panza per il  blog,“fattoadarte.corriere.it”

lunedì 11 gennaio 2016

Cappelle cimiteriali al Verano

Ama Roma, la società che gestisce la raccolta rifiuti ma anche gli undici cimiteri capitolini, deve fare i conti con una richiesta di risarcimento danni che potrebbe sfociare in una denuncia per truffa. Tutta colpa dell’asta pubblica bandita nel 2014 per fare cassa assegnando in concessione per 75 anni cappelle, tombe ed edicole funerarie al Verano, al Flaminio, al Laurentino e al cimitero di Castel di Guido. Una cittadina ha partecipato e si è aggiudicata per 245mila euro (contro una base d’asta di 144.456) l’assegnazione di una cappella al Verano: nove metri quadri in uno stato di conservazione che la scheda tecnica definisce “discreto”. Voleva trasferirci la salma del marito, scomparso nel 2010. Ma la cappella, in cui possono essere custoditi fino a 12 corpi, si è rivelata “fatiscente, da abbattere e ricostruire”, si legge in un comunicato dell’associazione Codici, che annuncia di volersi costituire parte civile nel procedimento. Di qui la decisione di chiedere i danni alla società che ha come azionista unico il Comune di Roma. E ora la signora sta valutando di sporgere denuncia per truffa.
Va detto che la scheda precisa anche che l’intonaco interno “è in cattive condizioni” e essendo il manufatto “edificato parzialmente contro terra” “sono probabili infiltrazioni anche dalla copertura, coperta in lastre di travertino ma colonizzata dalla vegetazione, con sconnessione di alcuni elementi di coronamento”. E vi si legge anche che sono “necessari lavori di manutenzione“. La camera sepolcrale, però, è definita “asciutta”. Diverso il risultato della perizia fatta fare dall’acquirente.
Dall’asta, che ha permesso di aggiudicare 54 lotti di cui una trentina al Verano, Ama Roma ha ricavato un totale di 3,7 milioni di euro, con un rialzo di 901mila euro rispetto al valore base. “Reinvestiremo i soldi per la cura e la manutenzione del verde e dei cimiteri”, aveva spiegato l’ex assessore all’Ambiente di Roma Capitale Estella Marino.

fonte: il fatto quotidiano

martedì 5 gennaio 2016

Parola di Mandrake

Vuole un caffè? Così magari lo prendo anch’io. Che problema c’è? Chiedo. C’è che sto in regime salutista: un caffè e un sigaretta al giorno. Dice lui. Lui sarebbe Gigi Proietti che vado a trovare in una Roma costernata dal clima. Vive in fondo alla Cassia. Scorgo, in un angolo del salone dove ci accomodiamo, un contrabbasso. Chi lo suona? Lo suono io, ogni tanto. Ero il bassista col botto. Col botto? Sì col botto: bumbumbum. Non sapevo fare altro. La mano destra ancora, ancora. Ma la sinistra imprevedibile. Come se non avessi un braccio. Erano gli anni in cui suonavo in un complessino tirato su, senza pretese. Guadagni scarsi. Ma sufficienti per non pesare sui genitori che non navigavano nell’oro e immaginavano per me un futuro diverso.


Cosa immaginava suo padre?
«Quello che di solito hanno in testa i padri di quella generazione: studia, laureati e trova un impiego, possibilmente statale. Sa perché noi italiani abbiamo spesso tollerato la burocrazia e i suoi misfatti?»

No, mi dica.
«Perché la burocrazia era la mamma, il ventre molle e accogliente nel quale sparire e riemergere il 27 di ogni mese. Tra coloro che ce l’avevano fatta c’era la granitica convinzione che ogni cosa che accadesse fuori non li riguardava. Non credo che mio padre vivesse così lo stato delle cose. Lui pensava a una carriera onorevole».


Di cosa si occupava?
«Aveva fatto parecchi mestieri, il boscaiolo, il cameriere, prima di trovare a Roma un impiego come uomo di fiducia in un’azienda. Ho sempre ammirato la sua onestà. Era umbro, figlio di contadini. Con la mamma vennero a Roma negli anni della guerra. Sono nato nel 1940. I miei alloggiarono prima in una casa davanti al Colosseo, fummo sgombrati dalle forze dell’ordine perché l’edificio era pericolante; andammo a vivere in uno scantinato di un albergo; infine ci assegnarono un alloggio alla borgata Tufello».


Come vive le sue origini?
«Penso che le origini di una persona non sono la sua condanna. Ognuno di noi, se ha determinazione e un po’ di fortuna, può decidere la propria strada».

Diceva della prima orchestrina.
«Ci chiamavamo “Gigi e i Soliti Ignoti”. A Roma, parlo del 1960, c’erano i dancing. Io cantavo. Poi facemmo il salto di qualità: ci chiamarono a suonare nei night club. Entravamo alle sette di sera e uscivamo, disfatti, alle cinque del mattino. Mi ero anche iscritto a giurisprudenza. Non era facile affrontare insieme gli esami e il pubblico notturno ».


«La Dolce vita stava finendo e già si intravedeva l’agonia di via Veneto».

Chi frequentava il night?
«Allora era uno status symbol. Venivano il generone romano, un po’ di malavita e parecchi turisti. Questi ultimi di solito arrivavano grazie a un’organizzazione, “Rome by Night”, che li guidava. Pagavano un biglietto di ingresso che gli dava diritto a una consumazione e ad assistere a uno spettacolo di streap-teese».

Cos’altro accadeva?

«Le entreneuse tenevano compagnia ai clienti. Alcune poi si appartavano nei separé. Noi suonavamo di tutto in tutte le lingue. Usando, in realtà, un gramelot, inventato per l’occasione. L’atmosfera cominciava sonnacchiosa e poi cresceva di tono. I clienti si eccitavano, le ballerine si contorcevano, le spogliarelliste si denudavano. Ce n’era una che faceva lo spettacolino con una porta».

Una porta?
«Sì, la trovata consisteva che alla fine il pubblico vedeva lei, che si spogliava, dal buco della serratura!».

Meraviglioso.
«Era un altro mondo dove i fiumi di champagne erano sostituiti dai fiumi di imprecisati liquidi. Una volta un cliente, mi pare un americano, scrutò attentamente l’etichetta della bottiglia: c’era scritto grande “Rouge et Noire” e sotto, piccolo piccolo, “Fratelli Capocci, Genzano”. Lo champagne lo preparavano nel retro delle cucine. Scoppiò il putiferio».

Le manca quel mondo?

«Appartiene a un periodo della mia vita. È stato fondamentale in molti sensi. In quegli anni incontrai la donna che sarebbe stata la compagna della vita: Sagitta, una svedese che faceva la guida turistica. Stiamo insieme da mezzo secolo. Non ci siamo mai sposati. Ogni tanto dico: vedi, anche se volessi, non potrei neanche divorziare. Abbiamo due figlie che adoriamo».

Circondato da donne.
«Non è poi così male».

E il teatro?

«Ci arrivai per caso. Non ero abitato dal fuoco sacro, semmai dal fuoco fatuo. Avevo fatto dei provini. Ma non è che avessi una cultura teatrale. Feci piccole cose. Erano gli anni in cui a Roma c’erano le famose cantine e si faceva molta avanguardia. Restai folgorato da Carmelo Bene che recitava in Caligola di Albert Camus. Carmelo curò anche la regia e i costumi. Lo guardai con ammirazione. Aveva solo tre anni più di me. Ma era come se tra di noi ci fossero secoli di distanza».


Cosa la colpiva?
«Penso che la sua grande capacità innovativa si nascondesse nelle pieghe della tradizione. Me lo presentò Roberto Lerici, altro personaggio straordinario, e diventammo amici da subito. Mi propose di lavorare a uno spettacolo che poi non si fece. Ripiegò sulla Cena delle beffe, mi offrì il ruolo di coprotagonista e accettai felice di poter lavorare con quel mostro sacro».

Non era un uomo facile da trattare.
«Era istrionico, provocatorio ma anche geniale. Un poeta che a volte si lasciava andare alla sua vena più aggressiva. Trovo però difficile definirlo. A volte decadente. Altre ancora futuribile. Le maschere non gli mancavano. Negli ultimi anni parlava solo di Schopenhauer, di Nietzsche, degli amici francesi che lo avevano scoperto. Dissipò il suo talento in mille rivoli. Cominciò a dire Io non esisto. Si carmelobenizzò. Ma è stato un grande artista».

Accennava a Roberto Lerici, se non ricordo male aveva una casa editrice culturalmente agguerrita.
«La Lerici editore. L’aveva ereditata dalla famiglia e rilanciata assecondando i suoi gusti raffinati. Ma Roberto non era solo un intellettuale astratto o sofisticato. Possedeva un formidabile senso dello spettacolo. Tanto è vero che insieme allestimmo A me gli occhi please e prima ancora Fatti e fattacci.


Come spiega il successo clamoroso di “A me gli occhi, please”?
«Non lo spiego, non sarei in grado di farlo. Esordimmo a Sulmona e poi arrivammo a Roma, un po’ per caso. Nei due anni che lo tenemmo in cartellone fu visto da mezzo milione di persone. Perché? Boh. Piaceva la contaminazione dei generi, il comico e il drammatico che si alternavano e poi era come se quella grande tenda, dove si svolgeva lo spettacolo, fosse diventata una sorta di isola felice. Eravamo alla metà degli anni Settanta. Anni orribili, segnati dai morti e dal fanatismo, non così diversi da quelli odierni. Allora, la gente trovò rifugio in quel teatro. Nessuno avrebbe scommesso una lira sul suo successo. Forse l’unico a crederci davvero fu Lerici. Aveva visto lungo».


Divenne così un attore affermato.
«Il primo successo lo ottenni con Alleluja, brava gente ».

Poi ci fu Petrolini.
«Arrivò più tardi. Mi incapricciai di questo attore immenso. Non era solo comico. Era inquietante. Tutti dicono che parlava a raffica. No. Era il Dio della pausa. Riempiva il silenzio con le sue smorfie».


Che cos’è il tempo comico?
«Glielo spiego così: se uno racconta una barzelletta e sbaglia il tempo della battuta finale, la barzelletta non ha più senso. La pausa non è silenzio, è una forma di pienezza. Guida il ritmo dell’attore. Guai sbagliarla. Una sera recitavo Il Dio Kurt di Alberto Moravia. Il teatro era un po’ malmesso. Pioveva. A un certo punto nel bel mezzo di una pausa sentiamo: toc, toc, toc. Era una goccia d’acqua che batteva su un banchetto. Sfalsò tutti i nostri tempi».

Cosa accadde?
«Immaginando la scena in cui il nazista si sarebbe seduto sul banchetto e la goccia che gli avrebbe martellato la testa, cominciammo a ridere furiosamente. Toc, toc, toc. Lo spettacolo ne risentì. Il pubblico non capiva che cosa stesse accadendo. Si alzò un brusio. Lì capii che il tempo della pausa è un tempo di convenzione, di complicità con il pubblico. Se non lo cogli si interrompe la magia».


Cosa vuol dire magia?
«Sostengo spesso che il teatro si fa tra il falso e il finto. La magia è trovare il vero che vi è nascosto».

E il cinema?
«Cerca il verosimile. Dopotutto, veniamo dalla grande stagione neorealista».

Lei ha girato parecchi film e alcuni di grande successo.
Ma il pubblico non l’ha mai identificata nell’attore cinematografico.
«E forse è stato un bene. Mi annoierei a fare un solo mestiere. E poi ti devi divertire. Ho lavorato a un paio di film con Tinto Brass. Feci il protagonista insieme a Tina Aumont ne L’urlo, film che rimase in censura per nove anni».

Un film erotico?
«No, no. C’era qualche scenetta di nudi, i figli dei fiori, quelle robe lì. Brass ce l’aveva con quegli attori che definiva esibizionisti tristi. A lui piaceva il sesso come gioia. Come dargli torto? E poi, ogni artista ha le proprie ossessioni ».


Le sue quali sono?
«Non sono un artista, forse sono soltanto un esibizionista allegro. Però c’è una cosa che mi ha ossessionato per anni. È una battuta di Carmelo nel Caligola: “Io voglio solo la luna”.

Come dire: prendere l’impossibile o il meglio dalla vita?

«Ma forse anche il peggio chi lo sa. Carmelo venne a Roma convinto di fare il tenore. Divenne un’altra cosa. Forse più grande. Certamente diversa. Ho capito che la mia luna era un’idea di teatro che fosse una specie di comunità. Qualcosa che il cinema non ti può dare».

Neppure la televisione?
«Neanche quella. Sono riconoscente alla Tv che mi ha regalato un successo incredibile e anche inaspettato. Dicevano: bravo Proietti, ma non buca lo schermo. E invece ha visto, no?».

Come vive il grande successo?
«La prima volta mi sconvolse. In anni in cui non ero così convinto che la popolarità fosse un bene, arrivò la notorietà con Alleluja, brava gente. Poi ho capito che molto dipende da come sei fatto. E mi sono reso conto che non ho i desideri di una star che insegue solo quello. Il successo deve essere il risultato del tuo lavoro e quando lo ottieni devi essere responsabile per ciò che dici e fai».


Parola di Mandrake?
«Parola».

Si aspettava che “Febbre da cavallo” diventasse un film cult?
«Per niente. All’inizio venne considerato un prodotto dozzinale. La verità è che Steno è stato un grande. Pubblico e critica scoprirono la leggerezza, l’ironia, la comicità di quel film».

Era una serie di meravigliosi sketch.
«La comicità dello sketch si fonda su alcuni schemi essenziali. Per esempio ne La figlia del cassamortaro prevale l’elemento dell’ingiustizia. La ragazza non riesce a fidanzarsi perché il padre costruisce bare; oppure ne La signora delle camelie c’è il suggeritore che non è in grado di suggerire; o ne La sposa e la cavalla la storia si basa su un equivoco. Ricordo che con Gassman improvvisammo uno sketch sul set di A Wedding di Robert Altman. Cazzeggiammo liberamente. Fu esilarante, come riconobbe lo stesso regista che conservò integralmente la scena. Con Vittorio passammo insieme un mese sul lago Michigan ».

Gassman fu un altro compagno di strada.

«Straordinario e pieno di vita. Ho il rimpianto di non aver mai lavorato a teatro con lui. Anche se l’occasione ci fu con Otello. Avrei dovuto interpretare Jago. Mi tirai indietro. Convinto che dal confronto uno dei due avrebbe perso. Scatenando le invidie dell’altro. Peccato».

So che Eduardo De Filippo le offrì di lavorare con lui.
«In quel momento ero impegnato. Eduardo era venuto a sentirmi in A me gli occhi, please. Poi bussò in camerino, che era una roulotte. Aveva il volto segnato, da due righe profonde e inconfondibili. Mi strinse la mano e disse “bravo!” Era il 1977. Era vecchio ma emanava ancora un fascino straordinario».

E la sua vecchiaia?
«Cerco di darle una logica, ma è quasi impossibile. Faccio un mestiere che abitua a pensare alla propria fisicità. Ma non è più quella di una volta. Ora dirigo il Globe Theatre di Roma. Per ora sono riuscito a non recitarvi. Ogni tanto mi dico: Gigi, nun te preoccupà, tanto una parte da vecchio per te c’è sempre».

fonte: Antonio Gnoli per “la Repubblica”


L'occupazione del Filangieri


A Napoli occupare un edificio pubblico conviene. Il collettivo «La Balena» da tre anni è asserragliato nell' ex Asilo Filangieri, un palazzone che si erge alle spalle di San Gregorio Armeno, la strada dei pastori del centro storico. La sigla raccoglie un po' di tutto: centri sociali, no global e indignados, lavoratori del mondo dello spettacolo e personaggi in cerca d' autore.


Un bel giorno del 2012, hanno forzato i cancelli e si sono presi l' immobile appena ristrutturato dal Comune per la modica cifra di 5 milioni di euro (tutto il complesso vale esattamente il doppio). Invece di sgomberare l' area, l' ultimo giorno dell' anno il sindaco Luigi de Magistris ha premiato gli abusivi con una delibera di giunta che li autorizza non solo a restarci ma a continuare la loro attività di organizzazione di spettacoli a pagamento, vendita di alcolici e corsi di recitazione.

«Siamo davanti a un palese voto di scambio» ha attaccato il presidente della IV Municipalità, Armando Coppola (Fi). Perché gli occupanti sono tutti o quasi tutti sostenitori arancioni. Addirittura, si vocifera che Giggino potrà schierare alle prossime elezioni una lista che dovrebbe chiamarsi «Massa critica» che fa riferimento proprio all' ex Asilo.

Il provvedimento di Palazzo San Giacomo, scritto con l' aiuto di due giuristi d' eccezione come Stefano Rodotà e Paolo Maddalena, ha fatto urlare allo scandalo il capo dell' opposizione in consiglio comunale e candidato sindaco del centrodestra, Gianni Lettieri. «Che dovrebbero dire si chiede tutte quelle famiglie che vengono sgomberate e che non hanno un tetto di fronte ad un' amministrazione che non tutela il loro diritto alla casa, ma salvaguardia la prepotenza estremista di centri sociali che occupano beni comuni? Ho dato già mandato ai miei legali di esaminare tutta la documentazione e sollevare la questione a tutti i livelli, giudiziari ed istituzionali».

In realtà, l' autorità giudiziaria non è intervenuta nemmeno quando, per prendere possesso delle sale, gli occupanti hanno violato i sigilli apposti per mancanza di agibilità. Nessuno vede dalle parti di San Gregorio Armeno.

Chi invece aveva una prospettiva chiara dell' abuso è l' ex assessore comunale Bernardino Tuccillo, ex IdV. «Con un' ultima nota del 7 novembre 2012 inviata al capo di gabinetto del sindaco fui costretto a sollecitare lo sgombero degli occupanti abusivi dal prestigioso stabile, purtroppo senza essere ascoltato, poco prima di perdere la delega al Patrimonio. Con la delibera appena approvata giunge a compimento un percorso sull' uso distorto e dissennato di utilizzo dei nostri beni pubblici. Da un ex magistrato diventato sindaco sarebbe stato lecito attendersi l' introduzione di una cornice di regole e norme valide per tutti e non privilegi e favoritismi accordati a centri sociali ed amici degli amici». Parole al vento.


Collettivo e Amministrazione comunale si difendono sostenendo che sì, c' è stata un' occupazione abusiva, ma non è il caso di farne una tragedia perché ora, in quella struttura, si fa cultura «partecipata e inclusiva». Quella che piace all' estrema sinistra movimentista che vota de Magistris e che deve respingere la spietata concorrenza grillina. Per uno scherzo del destino, il M5S di Napoli, fino alla rottura definitiva col sindaco un paio di mesi fa, si riuniva proprio presso l' ex Asilo Filangieri.

fonte:Simone Di Meo per “il Giornale


La peggior forma di governo

  " La democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre fino ad ora sperimentate " Winston Churchill a...