domenica 17 luglio 2016

L'errore di Papa Gregorio Magno

fonte: Voce della Vallesina, 7 luglio 2016

La lentezza politica ha un costo economico. La diluizione delle responsabilità politiche ha un costo democratico.

La lettera di Pier Ferdinando Casini, presidente della Camera dei deputati dal 2001 al 2006, e Marcello Pera, presidente del Senato dal 2001 al 2006, pubblicata su Il Corriere della Sera.

È noto che veti contrapposti e paure incrociate spinsero l’Assemblea costituente ad una scelta compromissoria riguardo all’assetto delle istituzioni repubblicane, in particolare il bicameralismo perfetto.
È noto anche che fin da subito forze politiche e espressioni della cultura costituzionale espressero molte riserve su questo punto. Due camere elette diversamente ma contemporaneamente, con la stessa durata e con la stessa funzione legislativa, non costituiscono un’istituzione che esalta il Parlamento e controbilancia l’azione del governo, ma un meccanismo pesante e faticoso che produce instabilità e lentezza. Durante i decenni, tentativi di correggere questa situazione non sono mancati, dalla commissione Bozzi, a quella De Mita, a quella D’Alema, alla riforma Berlusconi.

Tutti sono falliti e il prezzo in termini di inefficienza della Repubblica è diventato particolarmente oneroso. La lentezza politica ha un costo economico. La diluizione delle responsabilità politiche ha un costo democratico. Nonostante la consapevolezza del problema denunciato per tanto tempo, siamo rimasti un’anomalia costituzionale, perché nessun ordinamento, in Europa e altrove, conosce un sistema di produzione legislativa come il nostro.

In tutte le grandi democrazie, il ruolo delle seconde Camere nell’approvazione delle leggi è sempre limitato e la decisione definitiva è affidata alla Camera politica, dove i Parlamenti decidono le sorti dei governi. Il Parlamento ha ora approvato, dopo due anni di ampio e approfondito dibattito, una incisiva riforma della seconda parte della Costituzione. Non si tratta di una Costituzione nuova, ma di una Costituzione rinnovata, che promette e precostituisce altri interventi.

In ogni caso, non possiamo dire che la riforma sia improvvisata, perché il confronto tra le forze politiche è stato lungo e meditato. Ora tocca ai cittadini esprimersi con un referendum: sta a loro decidere, come richiede la democrazia sulle scelte fondamentali, se confermare o respingere le scelte compiute dal legislatore. Noi siamo a favore dell’approvazione della riforma.

Comprendiamo le perplessità di quanti non condividono alcune delle soluzioni adottate, in particolare in tema di modalità di composizione del Senato e di coordinamento con la legge elettorale della Camera dei deputati. E tuttavia la scelta di trasformare il Senato in organo rappresentativo dei territori, la riduzione del decentramento legislativo, l’attribuzione alla Camera dei deputati del ruolo di organo politico di ultima istanza, salvi gli opportuni temperamenti, il mantenimento e anche il rafforzamento degli organi di garanzia, ci sembrano, tra gli altri, obiettivi ai quali sarebbe grave rinunciare, anche in presenza di pur legittime riserve su questo, o quell’aspetto della riforma. Così come ci sembrerebbe incomprensibile tornare ad un sistema in cui il governo è costretto ad avere la fiducia in due Camere diverse, che, essendo elette con criteri diversi, non garantiscono omogeneità di maggioranza.

Noi riteniamo che votare no al referendum significherebbe risospingere il sistema costituzionale verso quell’epoca dei veti contrapposti che hanno spesso impedito al legislatore italiano di essere al passo con i ritmi della società contemporanea. Riteniamo anche che un ulteriore fallimento del processo di riforma renderebbe la nostra Costituzione così rigida da non essere più modificabile per diversi anni a venire, in contraddizione drammatica con quell’esigenza di cambiamento che è tanto largamente diffusa.

Questa volta l’effetto di una decisione popolare contraria significherebbe che l’Italia si riconosce incapace di autoriformarsi e si avvia ad un rapido e inarrestabile declino. È grave che le forze politiche siano oggi circondate da tanta sfiducia e sospetto. Sarebbe tragico se anche il popolo italiano si arrendesse a questo sentimento. Siamo stupiti che forze della sinistra intendano utilizzare l’occasione del referendum per un regolamento interno dei conti o per un voto di sfiducia al governo. Siamo ancor più stupiti che forze del centrodestra si uniscano a questa campagna, con argomenti che rinnegano completamente la loro vocazione e l’impegno riformatore da esse speso durante molti anni.

Al tema del rinnovamento delle istituzioni repubblicane, il centrodestra ha dedicato idee, passione, energie, a cui noi stessi abbiamo personalmente contribuito, pur con le nostre diverse sensibilità politiche. Quella storia, che ha coinvolto milioni di cittadini popolari, democratici, liberali, socialisti, riformatori, non può essere dimenticata ma deve essere rispettata. Non si ammaina una bandiera senza perdere identità.

fonte: Corriere della Sera


Più sono o sono state personalità rilevanti, più adducono motivi non certo alla loro altezza. E neppure all’altezza dell’argomento, che nei prossimi mesi resta sempre lo stesso: legge elettorale e riforma costituzionale.
Prima Pier Ferdinando Casini e Marcello Pera sul Corriere della Sera dell’8 luglio 2016, poi Giovanni Bazoli sullo stesso giornale del 14 luglio, pezzi da novanta della politica e dell’economia, hanno confessato che voteranno sì al “Renzoschi” (il coacervo della legge e della riforma di Renzi e Boschi). Fin qui nulla da dire. Ognuno vota come gli pare e non è tenuto a darne spiegazioni. Ma, se le dà, deve badare che siano ragionate e coerenti con il voto, specialmente se non è un quisque de populo.
Casini e Pera, un ex presidente della Camera e un ex presidente del Senato, hanno scritto una lettera a doppia firma; Bazoli ha rilasciato un’intervita di un’intera pagina. I primi due hanno parlato, tra l’altro, dei precedenti falliti tentativi come di “prezzo oneroso in termini di inefficienza della Repubblica”, di “costo economico della lentezza politica”, di “anomalia costituzionale di un sistema di produzione legislativa come il nostro”, ed hanno così concluso: “In tutte le grandi democrazie, il ruolo delle seconde Camere nell’approvazione delle leggi è sempre limitato e la decisione definitiva è affidata alla Camera politica, dove i Parlamenti decidono le sorti dei governi”.
Duole davvero che Casini e Pera non abbiano trovato il tempo di sfogliare la preziosa documentazione comparata che gli eccellenti servizi di Camera e Senato hanno redatto, in tema di bicameralismo e processo legislativo. Tale documentazione li smentisce in pieno. Basti ricordare che il Congresso degli Stati Uniti ha due camere dagli stessi poteri, anzi il Senato ha in più la convalida delle nomine presidenziali, e che nel Regno Unito l’iter legislativo è di norma, sostanzialmente, bicamerale. Così pure in tante altre nazioni. Il motivo più risibile, ripetuto a campanello anche da Renzi e Boschi, è “la lentezza”. Questa, più che un “motivo”, è un falso perché i nostri due presidenti, per cinque anni, all’inizio dell’estate hanno sventolato (come del resto i loro predecessori e successori) il ventaglio dell’iperproduzione legislativa, vantandosene. Sotto il Governo Renzi (in base alle statistiche della Camera, che né Casini, né Pera, né Bazoli, né Renzi, né Boschi leggono!) la produzione normativa primaria ha viaggiato al ritmo siderale di 11,87 atti al mese! Ciò nonostante, Casini e Pera scrivono che il sistema costituzionale ha “impedito al legislatore italiano di essere al passo con i ritmi della società contemporanea”. Infine, la chiusa della loro lettera al Corriere cade nel patetico. “Non si ammaina una bandiera (del riformismo, n.d.r.) senza perdere identità”. Dunque Casini e Pera, per corrività, sono diventati quello che non erano per storia personale.
Quanto a Bazoli, il suo esordio è sorprendente: “Il mio è un orientamento istituzionale, non politico”. E la sua continuazione è spericolata per un giurista: “L’ostacolo maggiore che incontra il referendum è il collegamento con la legge elettorale. Se approvata, la riforma costituzionale del Senato avrà l’effetto di rendere praticabile la nuova legge elettorale. Una legge che oggi risulta inapplicabile, perché si voterebbe al Senato con il proporzionale puro e alla Camera con un sistema tendenzialmente maggioritario (sic!): una cosa assurda. Nessuno ha osservato che, proprio per questa ragione, in caso di bocciatura del referendum, il Paese si troverebbe in una situazione veramente drammatica di impasse costituzionale: il presidente della Repubblica non avrebbe di fatto la possibilità di indire nuove elezioni, finché non fossero riformati i sistemi elettorali di entrambe le Camere”.
La logica dell’illustre giurista sembra dunque la seguente: bisogna votare sì per poter applicare la legge elettorale, mentre, votando no, il Parlamento non potrà essere sciolto. Bazoli al povero Kant gli fa un baffo. Stupefacente poi è la sua affermazione secondo cui “il ballottaggio legittima l’attribuzione del premio di maggioranza”. Così, apoditticamente. Non lo sfiora il dubbio che un simile ballottaggio non esiste altrove, mentre il premio di maggioranza è, per definizione nel ballottaggio, un premio di minoranza che tuttavia, contro la morale, la logica, la politica, la democrazia, cresce al decrescere del quorum di attribuzione e spetta di diritto a prescindere dalla soglia indeterminata di voti conseguiti da chi se lo aggiudica. Tuttavia (tuttavia!) il nostro Bazoli alla fin fine preferirebbe il doppio turno di collegio alla francese. Ma tant’è.
Comunemente si dice che tutte le opinioni sono rispettabili. Ma la verità è che non è vero. Rispettabili sono le persone, anche quando professano opinioni sbagliate. Quando le opinioni sono pericolose, il rispetto tuttavia deve essere graduato in funzione inversa alla pericolosità. L’autorevolezza delle opinioni non dipende dalla personalità di chi le manifesta, che, al contrario, squalifica doppiamente le sbagliate.

fonte: L'Opinione

mercoledì 6 luglio 2016

Il ritorno di Letta?

Enrico Letta candidato premier, Roberto Speranza segretario del Pd. Concentrati sull’accusa a Renzi di «vivere in un talent», è sfuggita ai più, durante la direzione dem, l’altra parola inglese usata da Gianni Cuperlo: ticket. «Al prossimo congresso — ha detto l’ex presidente del Pd — non sosterrò un capo ma un ticket composto da una guida solida per Palazzo Chigi e una personalità diversa per il partito».

Il congresso, annunciato dallo stesso Renzi, dovrebbe tenersi in anticipo alla fine dell’anno. In mezzo c’è l’appuntamento con il referendum destinato comunque a scompaginare i calcoli della vigilia. Ma la minoranza del Pd si attrezza a sfidare il presidente del Consiglio. E per la carica di premier ha individuato il suo predecessore. «Su questa formula siamo perfettamente in sintonia con Cuperlo», conferma il bersaniano Miguel Gotor.

«La mia simpatia e la mia stima per Letta sono note. Ma i nomi verranno più avanti». Cuperlo afferma di aver parlato solo di «un principio generale che prende atto di un fallimento. Il modello alternativo può essere quello della divisione dei compiti, come fu per Craxi e Martelli. Lascio ad altri invece le congetture sulle modifiche allo statuto ».


Il piano appare definito nei dettagli, frutto di incontri, sondaggi e riunioni. Secondo Matteo Orfini si gioca ormai a carte scoperte. «Quell’idea appartiene anche a D’Alema», sostiene il presidente del Pd che del capo della Fondazione Italianieuropei è stato strettisimo collaboratore. Il nome di Letta può essere evocativo da molti punti di vista:

un diverso modello di governo (“il cacciavite” contro il “bulldozer” renziano), una personalità che continua a coltivare i rapporti con le Cancellerie estere, un leader riconosciuto anche fuori dai confini italiani come dimostra la recente nomina alla guida dell’Istituto Delors.

Bisogna dunque spuntare a Renzi l’arma usata in Italia e all’estero del “dopo di me il diluvio”. Non esiste alcuna catastrofe di sistema se cade il governo dell’attuale segretario del Pd, se viene a mancare la sua figura sullo scenario internazionale. E se il referendum finisce con la sconfitta del Sì. Perché il Partito democratico ha altre carte da giocare, nel solco europeista e riformista. 

La principale è quella dell’ex premier Letta. Roberto Speranza, nella strategia della minoranza, sarebbe un segretario in piena simbiosi con il candidato premier. Niente diarchie o vecchi duelli interni. Ma il punto centrale è Letta perché tocca a lui simboleggiare l’argine al disastro, di cui parlano i renziani. E ora, sulla modifica alla legge elettorale, si intravedono le prime crepe nel fronte dei fedelissimi del premier.

Per l’obiettivo finale serve infatti un logoramento lento, ma non troppo, visto che al referendum mancano quattro mesi scarsi al massimo, se la data sarà quella del 30 ottobre. Pier Luigi Bersani semina ancora dubbi sul Sì della sua parte. «La riforma è un passo avanti, ma se il partito diventa un comitato del Sì creiamo un precedente pericoloso», dice l’ex segretario a In Onda su La7. «Chi vota No è ancora del Pd?», si chiede. Non sono le premesse migliori per coinvolgere la minoranza nella campagna renziana.


Del resto, Bersani attacca a tutto campo. Spiega che Renzi proietta un «film lontano dalla realtà, a partire dal lavoro che non c’è», «l’Italia si sente ancora dentro la crisi », «la risposta del segretario alla sconfitta delle comunali è solo o con me o contro di me». Niente viene risparmiato alla classe dirigente renziana: «Vedo troppi fenomeni, come De Luca che prende in giro la Raggi. C’è un eccesso di conformismo intorno a Renzi. Verdini? Ha sei inchieste addosso, conosco gente che si è dimessa per molto meno».


Un alleato che non viene meno è invece il presidente della Repubblica emerito Giorgio Napolitano. L’altro ieri, in direzione, Renzi ha fatto trasmettere un filmato con il discorso dell’allora capo dello Stato al Parlamento. Uno schiaffo ai ritardatari delle riforme. E ora Napolitano lo ripaga: «Auspico con tutte le mie forze e la mia convinzione — scandisce a un convegno — che la stragrande maggioranza dei cittadini non faccia finire nel nulla gli sforzi messi in atto in questi due anni in Parlamento».

Intervento non nuovo, difesa delle riforme non sorprendente, endorsement per il Sì chiaro e limpido, ma non inaspettato. Eppure scatena la viollenza verbale di Matteo Salvini: «Spero che Napolitano prenda una bella capocciata ad ottobre. Dopo si ritiri e la smetta di rompere le palle agli italiani».


fonte: Goffredo De Marchis per “la Repubblica”

La peggior forma di governo

  " La democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre fino ad ora sperimentate " Winston Churchill a...