sabato 26 aprile 2025

Il Papa degli ultimi

 


In questa maestosa piazza di San Pietro, nella quale papa Francesco tante volte ha celebrato l’Eucarestia e presieduto grandi incontri nel corso di questi 12 anni, siamo raccolti in preghiera attorno alle sue spoglie mortali col cuore triste, ma sorretti dalle certezze della fede, che ci assicura che l’esistenza umana non termina nella tomba, ma nella casa del Padre in una vita di felicità che non conoscerà tramonto. A nome del Collegio dei Cardinali ringrazio cordialmente tutti per la vostra presenza. Con intensità di sentimento rivolgo un deferente saluto e vivo ringraziamento ai Capi di Stato, ai Capi di Governo e alle Delegazioni ufficiali venute da numerosi Paesi ad esprimere affetto, venerazione e stima verso il Papa che ci ha lasciati.

Il plebiscito di manifestazioni di affetto e di partecipazione, che abbiamo visto in questi giorni dopo il suo passaggio da questa terra all’eternità, ci dice quanto l’intenso Pontificato di papa Francesco abbia toccato le menti ed i cuori. La sua ultima immagine, che rimarrà nei nostri occhi e nel nostro cuore, è quella di domenica scorsa, Solennità di Pasqua, quando papa Francesco, nonostante i gravi problemi di salute, ha voluto impartirci la benedizione dal balcone della Basilica di San Pietro e poi è sceso in questa piazza per salutare dalla papamobile scoperta tutta la grande folla convenuta per la Messa di Pasqua. Con la nostra preghiera vogliamo ora affidare l’anima dell’amato Pontefice a Dio, perché Gli conceda l’eterna felicità nell’orizzonte luminoso e glorioso del suo immenso amore. Ci illumina e ci guida la pagina del Vangelo, nella quale è risuonata la voce stessa di Cristo che interpellava il primo degli Apostoli: “Pietro, mi ami tu più di costoro?”. E la risposta di Pietro era stata pronta e sincera: “Signore, Tu conosci tutto; Tu sai che ti voglio bene!”. E Gesù gli affidò la grande missione: “Pasci le mie pecore”. Sarà questo il compito costante di Pietro e dei suoi Successori, un servizio di amore sulla scia del Maestro e Signore Cristo che “non era venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per tutti” (Mc.10,45).

Nonostante la sua finale fragilità e sofferenza, papa Francesco ha scelto di percorrere questa via di donazione fino all’ultimo giorno della sua vita terrena. Egli ha seguito le orme del suo Signore, il buon Pastore, che ha amato le sue pecore fino a dare per loro la sua stessa vita. E lo ha fatto con forza e serenità, vicino al suo gregge, la Chiesa di Dio, memore della frase di Gesù citata dall’Apostolo Paolo: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere” (Atti, 20,35). Quando il Card. Bergoglio, il 13 marzo del 2013, fu eletto dal Conclave a succedere a papa Benedetto XVI, aveva alle spalle gli anni di vita religiosa nella Compagnia di Gesù e soprattutto era arricchito dall’esperienza di 21 anni di ministero pastorale nell’Arcidiocesi di Buenos Aires, prima come Ausiliare, poi come Coadiutore e in seguito, soprattutto, come Arcivescovo.

La decisione di prendere il nome Francesco apparve subito come la scelta di un programma e di uno stile su cui egli voleva impostare il suo Pontificato, cercando di ispirarsi allo spirito di San Francesco d’Assisi. Conservò il suo temperamento e la sua forma di guida pastorale, e diede subito l’impronta della sua forte personalità nel governo della Chiesa, instaurando un contatto diretto con le singole persone e con le popolazioni, desideroso di essere vicino a tutti, con spiccata attenzione alle persone in difficoltà, spendendosi senza misura, in particolare per gli ultimi della terra, gli emarginati. È stato un Papa in mezzo alla gente con cuore aperto verso tutti. Inoltre è stato un Papa attento al nuovo che emergeva nella società ed a quanto lo Spirito Santo suscitava nella Chiesa. Con il vocabolario che gli era caratteristico e col suo linguaggio ricco di immagini e di metafore, ha sempre cercato di illuminare con la sapienza del Vangelo i problemi del nostro tempo, offrendo una risposta alla luce della fede e incoraggiando a vivere da cristiani le sfide e le contraddizioni di questi nostri anni di cambiamenti, che amava qualificare “cambiamento di epoca”. Aveva grande spontaneità e una maniera informale di rivolgersi a tutti, anche alle persone lontane dalla Chiesa.

Ricco di calore umano e profondamente sensibile ai drammi odierni, Papa Francesco ha realmente condiviso le ansie, le sofferenze e le speranze del nostro tempo della globalizzazione, e si è donato nel confortare e incoraggiare con un messaggio capace di raggiungere il cuore delle persone in modo diretto e immediato. Il suo carisma dell’accoglienza e dell’ascolto, unito ad un modo di comportarsi proprio della sensibilità del giorno d’oggi, ha toccato i cuori, cercando di risvegliare le energie morali e spirituali.
Il primato dell’evangelizzazione è stato la guida del suo Pontificato, diffondendo, con una chiara impronta missionaria, la gioia del Vangelo, che è stata il titolo della sua prima Esortazione Apostolica Evangelii gaudium. Una gioia che colma di fiducia e speranza il cuore di tutti coloro che si affidano a Dio.

Filo conduttore della sua missione è stata anche la convinzione che la Chiesa è una casa per tutti; una casa dalle porte sempre aperte. Ha più volte fatto ricorso all’immagine della Chiesa come “ospedale da campo” dopo una battaglia in cui vi sono stati molti feriti; una Chiesa desiderosa di prendersi cura con determinazione dei problemi delle persone e dei grandi affanni che lacerano il mondo contemporaneo; una Chiesa capace di chinarsi su ogni uomo, al di là di ogni credo o condizione, curandone le ferite. Innumerevoli sono i suoi gesti e le sue esortazioni in favore dei rifugiati e dei profughi.

Costante è stata anche l’insistenza nell’operare a favore dei poveri. È significativo che il primo viaggio di papa Francesco sia stato quello a Lampedusa, isola simbolo del dramma dell’emigrazione con migliaia di persone annegate in mare. Nella stessa linea è stato anche il viaggio a Lesbo, insieme con il Patriarca Ecumenico e con l’Arcivescovo di Atene, come pure la celebrazione di una Messa al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, in occasione del suo viaggio in Messico. 

Dei suoi 47 faticosi Viaggi Apostolici resterà nella storia in modo particolare quello in Iraq nel 2021, compiuto sfidando ogni rischio. Quella difficile Visita Apostolica è stata un balsamo sulle ferite aperte della popolazione irachena, che tanto aveva sofferto per l’opera disumana dell’Isis. È stato questo un Viaggio importante anche per il dialogo interreligioso, un’altra dimensione rilevante della sua opera pastorale. Con la Visita Apostolica del 2024 a quattro Nazioni dell’Asia-Oceania, il Papa ha raggiunto “la periferia più periferica del mondo”. Papa Francesco ha sempre messo al centro il Vangelo della misericordia, sottolineando ripetutamente che Dio non si stanca di perdonarci: Egli perdona sempre qualunque sia la situazione di chi chiede perdono e ritorna sulla retta via. Volle il Giubileo Straordinario della Misericordia, mettendo in luce che la misericordia è “il cuore del Vangelo”.

Misericordia e gioia del Vangelo sono due parole chiave di Papa Francesco. In contrasto con quella che ha definito “la cultura dello scarto”, ha parlato della cultura dell’incontro e della solidarietà. Il tema della fraternità ha attraversato tutto il suo Pontificato con toni vibranti. Nella Lettera Enciclica “Fratelli tutti” ha voluto far rinascere un’aspirazione mondiale alla fraternità, perché tutti figli del medesimo Padre che sta nei cieli. Con forza ha spesso ricordato che apparteniamo tutti alla medesima famiglia umana.

Nel 2019, durante il viaggio negli Emirati Arabi Uniti, Papa Francesco ha firmato un documento sulla “Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune”, richiamando la comune paternità di Dio. 

Rivolgendosi agli uomini e alle donne di tutto il mondo, con la Lettera Enciclica Laudato si’ha richiamato l’attenzione sui doveri e sulla corresponsabilità nei riguardi della casa comune. “Nessuno si salva da solo”. 

Di fronte all’infuriare delle tante guerre di questi anni, con orrori disumani e con innumerevoli morti e distruzioni, papa Francesco ha incessantemente elevata la sua voce implorando la pace e invitando alla ragionevolezza, all’onesta trattativa per trovare le soluzioni possibili, perché la guerra – diceva – è solo morte di persone, distruzioni di case, ospedali e scuole. La guerra lascia sempre il mondo peggiore di come era precedentemente: essa è per tutti sempre una dolorosa e tragica sconfitta.

Costruire ponti e non muri” è un’esortazione che egli ha più volte ripetuto e il servizio di fede come Successore dell’Apostolo Pietro è stato sempre congiunto al servizio dell’uomo in tutte le sue dimensioni. In unione spirituale con tutta la Cristianità siamo qui numerosi a pregare per Papa Francesco perché Dio lo accolga nell’immensità del suo amore. Papa Francesco soleva concludere i suoi discorsi ed i suoi incontri dicendo: “Non dimenticatevi di pregare per me”.

Caro papa Francesco, ora chiediamo a Te di pregare per noi e che dal cielo Tu benedica la Chiesa, benedica Roma, benedica il mondo intero, come domenica scorsa hai fatto dal balcone di questa Basilica in un ultimo abbraccio con tutto il popolo di Dio, ma idealmente anche con l’umanità che cerca la verità con cuore sincero e tiene alta la fiaccola della speranza.

Card. Giovanni Battista Re

Omelia al funerale di Papa Francesco (26 aprile 2025)

ROGITO PER IL PIO TRANSITO
DI SUA SANTITÀ FRANCESCO

MORTE, DEPOSIZIONE E TUMULAZIONE
DI FRANCESCO DI SANTA MEMORIA

Con noi pellegrino di speranza, guida e compagno di cammino verso la grande meta alla quale siamo chiamati, il Cielo, il 21 aprile dell’Anno Santo 2025, alle ore 7,35 del mattino, mentre la luce della Pasqua illuminava il secondo giorno dell’Ottava, Lunedì dell’Angelo, l’amato Pastore della Chiesa Francesco è passato da questo mondo al Padre. Tutta la Comunità cristiana, specialmente i poveri, rendeva lode a Dio per il dono del suo servizio reso con coraggio e fedeltà al Vangelo e alla mistica Sposa di Cristo.

Francesco è stato il 266° Papa. La sua memoria rimane nel cuore della Chiesa e dell’intera umanità.

Jorge Mario Bergoglio, eletto Papa il 13 marzo 2013, nacque a Buenos Aires il 17 dicembre 1936, da emigranti piemontesi: suo padre Mario era ragioniere, impiegato nelle ferrovie, mentre sua madre, Regina Sivori, si occupava della casa e dell’educazione dei cinque figli. Diplomatosi come tecnico chimico, scelse poi la strada del sacerdozio entrando inizialmente nel seminario diocesano e, l’11 marzo 1958, passando al noviziato della Compagnia di Gesù. Fece gli studi umanistici in Cile e, tornato nel 1963 in Argentina, si laureò in filosofia al collegio San Giuseppe a San Miguel. Fu professore di letteratura e psicologia nei collegi dell’Immacolata di Santa Fé e in quello del Salvatore a Buenos Aires. Ricevette l’ordinazione sacerdotale il 13 dicembre 1969 dall’Arcivescovo Ramón José Castellano, mentre il 22 aprile 1973 emise la professione perpetua nei gesuiti. Dopo essere stato maestro di novizi a Villa Barilari a San Miguel, professore presso la facoltà di teologia, consultore della provincia della Compagnia di Gesù e rettore del Collegio, il 31 luglio 1973 fu nominato provinciale dei gesuiti dell’Argentina. Dopo il 1986 trascorse alcuni anni in Germania per ultimare la tesi dottorale e, una volta tornato in Argentina, il cardinale Antonio Quarracino lo volle suo stretto collaboratore. Il 20 maggio 1992 Giovanni Paolo II lo nominò Vescovo titolare di Auca e ausiliare di Buenos Aires. Scelse come motto episcopale Miserando atque eligendo e nello stemma inserì il cristogramma IHS, simbolo della Compagnia di Gesù. Il 3 giugno 1997, fu promosso Arcivescovo coadiutore di Buenos Aires e alla morte del cardinale Quarracino gli succedette, il 28 febbraio 1998, come Arcivescovo, primate di Argentina, ordinario per i fedeli di rito orientale residenti nel Paese, gran cancelliere dell’Università Cattolica. Giovanni Paolo II lo creò cardinale nel Concistoro del 21 febbraio 2001, del titolo di san Roberto Bellarmino. Nel successivo ottobre fu relatore generale aggiunto alla decima Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.

Fu un pastore semplice e molto amato nella sua Arcidiocesi, che girava in lungo e in largo, anche in metropolitana e con gli autobus. Abitava in un appartamento e si preparava la cena da solo, perché si sentiva uno della gente.

Dai Cardinali riuniti in Conclave dopo la rinuncia di Benedetto XVI fu eletto Papa il 13 marzo 2013 e prese il nome di Francesco, perché sull’esempio del santo di Assisi volle avere a cuore innanzitutto i più poveri del mondo. Dalla loggia delle benedizioni si presentò con le parole «Fratelli e sorelle, buonasera! E adesso, incominciamo questo cammino: Vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi». E, dopo aver chinato il capo, disse: «Vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo, chiedendo la Benedizione per il suo Vescovo». Il 19 marzo, Solennità di San Giuseppe, iniziò ufficialmente il suo ministero Petrino.

Sempre attento agli ultimi e agli scartati dalla società, Francesco appena eletto scelse di abitare nella Domus Sanctae Marthae, perché non poteva fare a meno del contatto con le persone, e sin dal primo Giovedì Santo volle celebrare la Messa in Coena Domini fuori dal Vaticano, recandosi ogni volta nelle carceri, in centri di accoglienza per i disabili o tossicodipendenti. Ai sacerdoti raccomandava di essere sempre pronti ad amministrare il sacramento della misericordia, ad avere il coraggio di uscire dalle sacrestie per andare in cerca della pecorella smarrita e di tenere aperte le porte della chiesa per accogliere quanti desiderosi dell’incontro con il Volto di Dio Padre.

Ha esercitato il ministero Petrino con instancabile dedizione a favore del dialogo con i musulmani e con i rappresentanti delle altre religioni, convocandoli talvolta in incontri di preghiera e firmando Dichiarazioni congiunte a favore della concordia tra gli appartenenti alle diverse fedi, come il Documento sulla fratellanza umana siglato il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi con il leader sunnita al-Tayyeb. Il suo amore per gli ultimi, gli anziani e i piccoli lo spinse ad iniziare le Giornate Mondiali dei Poveri, dei Nonni e dei Bambini. Istituì anche la Domenica della Parola di Dio.

Più di ogni Predecessore ha allargato il Collegio dei Cardinali, convocando dieci Concistori nei quali ha creato 163 porporati, dei quali 133 elettori e 30 non elettori, provenienti da 73 nazioni, di cui 23 non avevano mai avuto prima un cardinale. Ha convocato 5 Assemblee del Sinodo dei Vescovi, 3 generali ordinarie, dedicate alla famiglia, ai giovani e alla sinodalità, una straordinaria ancora sulla famiglia, e una speciale per la Regione Panamazzonica.

Più volte la sua voce si è levata in difesa degli innocenti. Alla diffusione della pandemia da Covid-19, la sera del 27 marzo 2020 volle pregare da solo in piazza San Pietro, il cui colonnato simbolicamente abbracciava Roma e il mondo, per l’umanità impaurita e piagata dal morbo sconosciuto. Gli ultimi anni di pontificato sono stati costellati da numerosi appelli per la pace, contro la Terza guerra mondiale a pezzi in atto in vari Paesi, soprattutto in Ucraina, come pure in Palestina, Israele, Libano e Myanmar.

Dopo il ricovero del 4 luglio 2021, durato dieci giorni, per un intervento chirurgico presso il Policlinico Agostino Gemelli, Francesco il 14 febbraio 2025 si è recato nuovamente nello stesso ospedale per una degenza di 38 giorni, a causa di una polmonite bilaterale. Rientrato in Vaticano ha trascorso le ultime settimane di vita a Casa Santa Marta, dedicandosi fino alla fine e con la stessa passione al suo ministero petrino, seppure ancora non ristabilito del tutto. Nel giorno di Pasqua, il 20 aprile del 2025, per un’ultima volta si è affacciato dalla loggia della Basilica di San Pietro per impartire la solenne benedizione Urbi et Orbi.

Il magistero dottrinale di Papa Francesco è stato molto ricco. Testimone di uno stile sobrio e umile, fondato sull’apertura alla missionarietà, sul coraggio apostolico e sulla misericordia, attento nell’evitare il pericolo dell’autoreferenzialità e della mondanità spirituale nella Chiesa, il Pontefice propose il suo programma apostolico nell’esortazione Evangelii gaudium (24 novembre 2013). Tra i documenti principali si annoverano 4 Encicliche: Lumen fidei (29 giugno 2013) che affronta il tema della fede in Dio, Laudato si’ (24 maggio 2015) che tocca il problema dell’ecologia e la responsabilità del genere umano nella crisi climatica, Fratelli tutti (3 ottobre 2020) sulla fraternità umana e l’amicizia sociale, Dilexit nos (24 ottobre 2024) sulla devozione al Sacratissimo Cuore di Gesù. Ha promulgato 7 Esortazioni apostoliche, 39 Costituzioni apostoliche, numerosissime Lettere apostoliche delle quali la maggioranza in forma di Motu Proprio, 2 Bolle di indizione degli Anni Santi, oltre alle Catechesi proposte nelle Udienze generali ed alle allocuzioni pronunciate in diverse parti del mondo. Dopo aver istituito le Segreterie per la Comunicazione e per l’Economia, e i Dicasteri per i Laici, la Famiglia e la Vita e per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, Egli ha riformato la Curia romana emanando la Costituzione apostolica Praedicate Evangelium (19 marzo 2022). Ha modificato il processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità matrimoniale nel CCEO e nel CIC (M.P. Mitis et misericors Iesus e Mitis Iudex Dominus Iesus) e ha reso più severa la legislazione riguardo i crimini commessi da rappresentanti del clero contro minori o persone vulnerabili (M.P. Vos estis lux mundi).

Francesco ha lasciato a tutti una testimonianza mirabile di umanità, di vita santa e di paternità universale.

CORPUS FRANCISCI P.M.

VIXIT ANNOS LXXXVIII, MENSES IV DIES IV.

ECCLESIAE UNIVERSAE PRAEFUIT

ANNOS XII MENSES I DIES VIII

Semper in Christo vivas, Pater Sancte!


sabato 15 marzo 2025

"Una dura necessità preliminare"


Nel discorso tenuto a Strasburgo l’11 marzo 2025 di fronte al Parlamento EuropeoUrsula von der Leyen, Presidente della Commissione Europea, ha esordito citando Alcide De Gasperi e la sua esortazione a erigere una difesa comune, descritta come il compito della sua generazione. Un compito rimasto incompiuto per la generazione di De Gasperi e dei Padri dell’Europa, Jean MonnetRobert Schuman e Konrad Adenauer fra gli altri, quella degli anni Ottanta dell’Ottocento, dei giovani durante la Grande Guerra che oggi chiamiamo la lost generation.

 

Fu proprio a Strasburgo, il 10 dicembre 1951, che De Gasperi lanciò nel famoso discorso “l’occasione che passa” il progetto di esercito europeo. Assunto l’incarico di ministro degli esteri nel luglio del 1951, egli era stato inondato da resoconti di discussioni tediose sul progetto di Comunità Europea di Difesa (CED) partito da un’idea del ministro francese René Pleven. Questi proponeva il modello della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, ossia di un’organizzazione sovranazionale, per risolvere la questione del riarmo europeo includendo anche la Germania


In Italia spaventava soprattutto la prospettiva del costo dell’operazione e De Gasperi riteneva che l’opinione pubblica non fosse pronta ad avallare la gestione del bilancio militare da parte di un fondo comune. Benché precedentemente molto scettico sul riarmo, di fronte alla nuova situazione internazionale caratterizzata dalla guerra fredda e dal conflitto in Corea, e persuaso dallo studio della questione e dalle pressioni americane, De Gasperi sottolineò convintamente la necessità di riarmare. Non si trattava però solo di riarmare - si trattava invece, insisteva, di partire dall’esercito per fare l’Europa.


Alla vigilia della partenza per Strasburgo, in Consiglio dei Ministri dichiarò che non era disposto ad accettare la soluzione CED così com’era: benché a titolo personale, annunciò, avrebbe promosso una soluzione federale. Dare un’anima politica e partecipativa al progetto era l’unico modo per evitare che le nuove generazioni vedessero nelle amministrazioni comuni “una struttura superflua e fors’anche oppressiva, quale apparve, in certi periodi del suo declino, il Sacro Romano Impero. Così si espresse nel discorso davanti all’Assemblea del Consiglio d’Europa. Il giorno seguente ritornò sul concetto in un incontro appassionato con i colleghi europei. Era necessario risolvere la questione politica perché “se si trasferisce tutto l’esercito a un potere europeo bisogna che i parlamenti e i popoli sappiano in che maniera questo potere sarà organizzato”. 

Il progetto di CED, rilanciato a Strasburgo nella sua dimensione politica, trascinò con sé anche gli altri Padri dell’Europa, in fondo tutti più restii, a cominciare da Robert Schuman che si disse particolarmente colpito dall’enfasi degasperiana. Nelle discussioni attorno alla CED De Gasperi insisteva nel dire che bisognava partire dalle questioni politiche fondamentali, invece che perdersi in dettagli che rischiavano di consumare l’entusiasmo in estenuanti negoziati.

 

Nell’agosto 1954, alla vigilia del voto all’Assemblea Nazionale francese per la ratifica del trattato CED firmato due anni prima, De Gasperi era quasi ossessionato dal presentimento che il progetto in cui tanto credeva sarebbe stato accantonato. E in effetti così accadde poco dopo. Nella sua ultima lettera a Fanfani, dieci giorni prima di morire, aveva definito la CED “la sua spina”, poiché la considerava un elemento essenziale per costruire l’Europa Unita “come un edificio destinato a durare”.

 

In molti momenti la storia dell’integrazione europea ha ricevuto impulso da crisi considerate insuperabili. Così fu certamente alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Così fu con la crisi del progetto di difesa comune nel 1954 che sembrava aver posto una pietra tombale sul progetto europeo e che invece si tramutò di lì a poco in un rilancio verso la costruzione del mercato comune

Von der Leyen fa bene a ricordare come le crisi abbiano innescato in Europa delle fasi di entusiasmo, di consenso senza precedenti, e come sia importante oggi usare la carica di quel consenso per procedere con un grande piano di investimenti comuni da indirizzare alla difesa e alla sicurezza. Senza dimenticare però, nella scia di De Gasperi, che il riarmo è “una dura necessità preliminare” per erigere l’edificio europeo - così nel discorso alla Conferenza Parlamentare Europea di Parigi nell’aprile 1954. E che il riarmo è da pensare nel quadro di una politica europea di difesa veramente unitaria, con un unico centro di comando e mettendo in comune le forze armate, con investimenti congiunti che oggi riguardano soprattutto scudo nuclearerete satellitare intelligenza artificiale.

“Un’associazione di sforzi militari è opera sterile ove essa non conduca, ed a breve scadenza, alla Federazione dell’Europa libera”, dichiarava De Gasperi nel febbraio 1952. L’occasione che passa doveva servire a costruire una struttura che “è più di un’alleanza; è fusione di eserciti”, diceva, e che doveva aprire la strada all’unione politica dell’Europa. È questo ora il compito per la nostra generazione.


Sara Lorenzini, docente di storia contemporanea presso la Scuola di Studi Internazionali e il Dipartimento di Lettere e Filosofia

fonte: Il Dolomiti


 

venerdì 1 novembre 2024

Persona, Comunità, Bene Comune

Il tema a me assegnato evoca l’essenza del magistero di Alcide Degasperi e mette in luce l’estrema attualità della cultura cultura politica che egli ha interpretato. Degasperi non si capisce senza il riferimento alla sua cultura politica. A quel tempo, le leadership non erano effimere e solitarie: erano espressione di una visione culturale ben radicata in una esperienza di comunità. Il titolo propone di leggere l’eredità degasperiana attraverso tre “parole”: Persona, Comunità, Bene Comune. 

Persona 

In Degasperi, il termine richiama il “personalismo comunitario” di Mounier e di Maritain, filtrato attraverso l’esperienza di quel cattolicesimo sociale mitteleuropeo - del quale Degasperi era figlio - incarnato nella pratica quotidiana delle relazioni di prossimità tipiche delle sue valli alpine.

Degasperi aveva dunque robusti anticorpi sia verso le pulsioni di matrice individualistica, sia verso ogni concezione collettivistica. Entrambe negavano un principio primo: il nesso di equilibrio (e non di reciproca sopraffazione) tra l’io ed il noi. 

Questa idea di “persona” dovrebbe essere oggi riscoperta come valore primario, sia di fronte alla cifra puramente economicistica ed efficientistica dei rapporti sociali - con il portato della spersonalizzazione e delle disuguaglianze crescenti - sia come ancoraggio di “misura” nel confuso dipanarsi delle questioni antropologiche. 

Vi si ravvisa, infatti, il rischio di uno scivolamento verso una idea di “diritti individuali” che è certo un segno del nostro tempo e non va disconosciuta, ma che appare sempre più slegata dai principi della responsabilità; insofferente rispetto al legame tra diritti e doveri; propensa a confondere desideri, anche legittimi, con diritti da esigere “senza se e senza ma”. Perfino per quanto riguarda il desiderio di avere figli. 

Avere chiaro questo valore della Persona dovrebbe aiutarci oggi a vivere i cambiamenti senza pigre nostalgie del tempo che fu, ma anche senza acritiche e ideologiche adesioni alle iperboli di un “tempo nuovo” che ancora deve essere costruito, modellato, elaborato in maniera eticamente ed umanamente sostenibile. 

Comunità 

Per Degasperi, la “Comunità” non è l’aggregato indistinto degli individui in un determinato spazio fisico o confine istituzionale. È invece l’espressione vitale di un legame organico tra persone e formazioni sociali capaci di condividere al tempo stesso la memoria viva di una radice comune e la propensione ad un destino futuro, altrettanto comune. É relazione “generativa”, non pura aggregazione quantitativa e numerica. Comunità non è la somma di tante solitudini e neppure il ritrovarsi, di volta in volta, attorno a rivendicazioni tanto contingenti, quanto mutevoli. Comunità é esperienza di vicinanza, di prossimità, di condivisione. 

Se “due non è il doppio, ma il contrario di uno” - come ha scritto Erri De Luca a proposito delle coppie - analogamente Comunità non è la somma di tanti “uno” messi in fila, ma spazio nuovo, frutto della messa a fattor comune delle esperienze, dove la radice è la moltiplicazione, non la semplice addizione. 

Bene Comune 

Per Degasperi, di conseguenza, il Bene Comune non è la somma degli interessi prevalenti dei singoli (quelli più capaci di farsi valere), ma la sintesi virtuosa e faticosa delle aspirazioni, dei sogni, delle preoccupazioni e dei diritti di tutti. 

Non è questione di pure sommatorie di pretese individualistiche o di gruppi, ma condivisione di una “idea di società” coerente con la tutela del “valore delle Persone” e con l’anima di una Comunità. Non è materia esclusiva né dei singoli o dei loro gruppi organizzati, né delle Pubbliche Istituzioni: è il campo della relazione virtuosa e dinamica tra l’io ed il noi: il noi prossimo ed il noi universale.

Degasperi aveva assimilato, come prima dicevo, l’esperienza della sua Terra tra i monti, dove, per antichissima tradizione, gran parte dei boschi e dei pascoli era proprietà “collettiva”. Vale a dire: non pubblica e non privata. Ed era amministrata da consigli eletti dai “capi famiglia”, o “capi fuoco”, come allora si chiamavano. Per nostra fortuna, tutt’oggi, questa tradizione in larga parte sopravvive, garantita dalla Legge. 

Aveva anche assimilato il valore emblematico di una norma del vecchio Impero - anch’essa, nelle sue terre, tutt’ora viva - che diceva sostanzialmente questo: è fatto obbligo che in ogni Comune ci sia un Corpo Volontario di Pompieri. Può sembrare un ossimoro: obbligo di volontari! Non é così: è invece la cifra di una cultura sociale in base alla quale tra il pubblico ed il privato non esiste il vuoto, ma il diritto-dovere della Comunità organizzata di farsi carico direttamente del Bene Comune, in tutti i campi.

Da queste tre parole (Persona, Comunità, Bene Comune) derivano - coerentemente - le idee di “Popolo”, Democrazia” e “Stato” che Degasperi ha perseguito. 

Popolo 

Disse nel 1947: “Ho imparato che bisogna guardare innanzitutto al popolo. Quando mi parlano di partiti, io li giudico da questo punto di vista: come servono il Popolo? Io non servirei neppure la Democrazia Cristiana se non avessi la convinzione che essa vuole servire il Popolo”.

Ma cosa è il Popolo per Degasperi? Nello stesso discorso egli chiarisce: “Il Popolo vuol dire: il Popolo come vive organicamente nel suo paese, nelle sue società, nei suoi focolari, nelle sue città. Non vuol dire il conglomerato posticcio improvvisato su una piazza”.

Popolo, in sintesi, come dimensione di “comunità strutturata”. Questa idea di “Popolo” - sideralmente lontana da quella oggi prevalente - non solo, certo, ma principalmente e direi ontologicamente, a Destra - colloca a buon diritto Degasperi tra i Maestri dell’antipopulismo ante litteram. Ed è - al tempo stesso - il fondamento della sua idea di Democrazia. Democrazia La Democrazia non è solo regole formali - pur essenziali - ma esigente percorso di “liberazione” dai vincoli delle sopraffazioni di ogni tipo che impediscono il pieno sviluppo delle Libertà e della Dignità della Persona, delle sue relazioni e delle aggregazioni comunitarie nelle quali essa è organicamente inserita. 

Aldo Moro - nel saggio “Democrazia Sociale” del 1944 - ha sintetizzato in maniera eccelsa questa idea: “È doveroso riconoscere che tra libertà e giustizia non vi è irrimediabile antitesi, ma solo conflitto, sia pure angoscioso, di precedenze e che alla Democrazia non solo può, ma deve essere data una qualificazione che ne completi il significato. (…) Non si devono fermare le forze amanti davvero della libertà nel suo pugnante significato che include la giustizia”.

Parole, pensieri, visioni che oggi ci appaiono come luci nella nebbia: quella che avvolge e spesso travolge il carisma della nostra Democrazia presso parti crescenti del nostro stesso popolo, sempre più tentate di barattare la propria libertà in cambio di effimere promesse di sicurezza e di benessere, come reazione alla colpevole crescita dello spaesamento, delle disuguaglianze e di vecchie e nuove povertà non solo materiali. 

L’eredità degasperiana, anche in tal senso, deve suscitare nuovi impegni e nuove pulsioni di “resistenza” rispetto alla diffusa verticalizzazione del Potere Politico; al diffondersi delle “Democrature”; alle concentrazioni globali degli strumenti tecnologici, economici, finanziari e informativi. 

Fenomeni sempre più lesivi sia del valore della Libertà, sia di quello della Giustizia e tali da erodere il valore ed il senso stesso della Democrazia. 

Stato 

Il filo rosso di questo pensiero degasperiano porta infine alla parola “Stato”. Cito nuovamente Aldo Moro, che anche su questo punto, nei suoi scritti giovanili del 1943, ha colto il punto focale: “Lo Stato è, nella sua essenza, il divenire nella storia della società, secondo il suo ideale di giustizia”. 

Questo principio fondamentale per la cultura popolare di ispirazione cristiana, era per Degasperi un punto fermo fin dalle sue prime esperienze politiche. Era stato deputato trentino al Parlamento di Vienna. Aveva respirato la cultura multi nazionale e multi linguistica dell’Impero. Ne aveva colto i segni di disgregazione, certo, ma mai li ha intesi come viatico per una “sacralizzazione” degli Stati Nazione. Degasperi è stato uno “statista”, il più grande della nostra storia dal secondo dopoguerra. Eppure non ha mai confuso il “senso dello Stato” con i disvalori insiti nei concetti di nazionalismo, statalismo e sovranismo. Ha dato un contributo determinate alla costruzione di una identità nazionale, ma sempre testimoniando la sua convinzione che l’idea di Nazione dovesse essere coniugata, da un lato, con il rispetto delle Autonomie (quelle delle formazioni sociali, delle minoranze etniche, linguistiche e culturali, dei Territori) e, dall’altro, con il necessario percorso di costruzione di una Europa Unita e di solide cooperazioni internazionali. 

Due prospettive di enorme attualità, alla luce del confuso balbettio di oggi sia sul terreno delle Autonomie sia su quello dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite. Degasperi oggi è ricordato e riconosciuto da tutti, a parole. Ne siamo felici. Ma rimaniamo perplessi e turbati quando leggiamo interpretazioni tanto improbabili quanto palesemente strumentali, come quelle - per fare un solo esempio - contenute in un recente libro dal titolo: “La Destra da Degasperi alla Meloni”. Nessuno oggi può rivendicare esclusive e dirette eredità morali e politiche di Degasperi. Se non altro perché gli attuali nanetti che lo facessero, a fronte di un gigante come Degasperi, sarebbero perfino patetici e ridicoli. Tuttavia, il suo pensiero - pur collocato in un passato ormai lontano - non è affatto neutro rispetto alle vicende politiche e sociali del nostro tempo. 

Degasperi è, di sicuro, in primo luogo, uno dei Padri Fondatori della nostra Repubblica e dell’Europa Unita. Un Padre che appartiene dunque ormai alla Storia del Paese e dell’Europa. Nel contempo, egli è stato però interprete primario della cultura politica del Popolarismo. La Storia evolve e richiede nuovi linguaggi e nuovi orizzonti. Le eredità ideali e politiche sono di chi se le conquista sul campo della coerenza e ne rigenera con credibilità intrinseca il senso, non di chi le proclama per coprire il vuoto di radici oppure radici impresentabili. 

Il vero tema è che le culture politiche non devono morire, ma rigenerarsi. Perché, senza culture fondanti, la Politica diventa arida lotta di potere; perde le sue bussole valoriali; rinuncia a rappresentare e guidare il Popolo; degrada il valore del consenso partecipe a effimera tifoseria; smarrisce la virtù dell’onestà, che non è solo “non rubare”, ma dovere di dire al Popolo parole di verità. L’esigenza di dare un “ubi consistam” ad un “nuovo Popolarismo” non riguarda pure ragioni di parte, ma l’urgenza di rianimare la nostra Democrazia nel segno di una concezione comunitaria: l’unica che può essere più forte delle crescenti derive verso la “post democrazia”.

A questo sforzo ci devono esortare sia la lettura di ciò che sta accadendo nelle pieghe anche nascoste della nostra società, sia lo stimolo della Chiesa - da ultimo nella Settimana Sociale di Trieste - che tocca ovviamente alla Politica assumere senza nessuna tentazione strumentale, ma nel rispetto del valore della Laicità, del quale Degasperi fu esemplare testimone, talvolta anche in modo molto sofferto. Per questo, però, dobbiamo essere alternativi alle nostre paure, alle nostre pigrizie, alle nostre frammentazioni auto referenziali, alle nostre stesse nostalgie. 

Il vento che tira, in Italia, in Europa e nel mondo, non è quello degli ideali di Degasperi e del suo Popolarismo. C’è chi pensa che la nave debba seguire il vento e dunque si adegua, limitandosi ogni tanto a lanciare qualche flebile allarme per mettersi a posto con la coscienza. Ma il vento non vede gli scogli. Il buon nocchiero invece dovrebbe vederli per tempo e cambiare la rotta. 

Base Popolare esiste per concorrere a trovare una nuova rotta. La Buona Politica non è seguire il vento, ma seminare presenza, idee, proposte per tracciare nuove rotte sicure. E cercare alleati, anche di diversa ispirazione culturale, ma disponibili a questo. Del resto, il “Centro” (degasperianamente inteso) non è moderatismo, né furbesca equidistanza topografica tra Destra e Sinistra, né - men che meno - conformismo all’aria prevalente per qualche utilità di bottega. È piuttosto “profezia”. Coraggiosa profezia. 

Sua Eccellenza l’Arcivescovo di Perugia, Ivan Maffeis, nella sua bellissima Lectio Degasperiana del 18 Agosto a Pieve Tesino, ha detto: “Tra le figure bibliche che attraversano il tempo senza perdere il loro smalto, c’è senz’altro quella del profeta. Il profeta affascina per la sua libertà da ogni forma di potere. Per il suo essere uomo ancorato al presente. Per la sua capacità e la sua intuizione nel leggere e nell’interpretare le vicende sociali, politiche, economiche e religiose in cui è coinvolto. Per la forza del suo esempio e della sua azione, che gli deriva dalla fedeltà alla parola e all’azione di Dio, vivente nella storia. 

Alcide De Gasperi è stato un uomo politico dotato di capacità profetiche. Nessun altro leader del suo tempo ha avuto una vita così intensa e imprevedibile. La sua grandezza non si misura solo con quello che ha fatto come statista, ma soprattutto per la testimonianza che ci ha offerto. Come gli antichi profeti, ha indicato una strada e un metodo politico che vanno oltre la sua stessa esistenza”.

Oggi la Politica manca terribilmente di Profezia. In Italia, in Europa e nel Mondo. Se non è più il tempo di Profeti come Degasperi, dovrà essere il tempo di una profezia collettiva. Ai Popolari - quelli veri, quelli dalla schiena dritta, capaci di resistere al vento che tira - tocca il compito, non certo da soli, di seminarla, farla crescere, organizzarla e diffonderla. Partendo, più che dai Palazzi di Roma, dalla società e dalle Istituzioni delle nostre Comunità Territoriali. 


Lorenzo Dellai, relazione tenuta dall’autore al convegno promosso dai “Popolari per Ancona” e da “Base Popolare Marche” sul tema: “La politica come servizio e l’attualità di Alcide De Gasperi” (Ancona, 29 ottobre 2024). 

fonte: il Domani d'Italia

Ndr. - Volutamente l’autore ricorre alla variante onomastica “Degasperi” perché così fu trascritto all’anagrafe il cognome dello statista.

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