lunedì 5 marzo 2012

Investire in cultura per la crescita

«La bellezza è un valore morale». Era un tormentone quello dell'allora vescovo di Locri Giancarlo Bregantini. Non perdeva occasione per raccomandare di intonacare le case, sistemare le strade, curare i giardini, perché «in un posto brutto è facile che i ragazzi crescano brutti». Insomma, insiste nel libro Non possiamo tacere , l'estetica è etica: «i paesi più brutti e trascurati sono quelli segnati dalla mafia».

«Niente cultura, niente sviluppo»,
ha titolato Il Sole 24 Ore lanciando un appello per fare ripartire il Paese puntando su una «costituente» che «riattivi il circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione». I confronti su 125 nazioni, stando ai dati dell'Università di Costanza, non lasciano dubbi: dove c'è più cultura c'è più innovazione, più sviluppo, più ricchezza e meno corruzione.

Rovesciamo: dove c'è meno cultura c'è meno innovazione, meno sviluppo, meno ricchezza, più corruzione. Nel 2001 investivamo sul nostro tesoro d'arte e paesaggi solo lo 0,39% del Pil, siamo precipitati a un miserabile 0,19%: è stato saggio? Colpa della crisi, dicono. Ma investendo nel «Guggenheim», spiega uno studio di Kea European Affairs per la Ue, Bilbao ha recuperato in 7 anni i soldi spesi «moltiplicati per 18», con la parallela creazione di migliaia di posti di lavoro. Al punto d'esser presa a modello dalla Francia, che per rianimare l'agonizzante area di Lens ha deciso di fare lì, tra le fabbriche dismesse, un nuovo «Louvre» col calcolo che, per ogni euro investito, ne torneranno «come minimo sette».

Dice uno spot girato da Berlusconi che l'Italia ha «il 50% dei beni artistici tutelati dall'Unesco». Magari! Ma è vero che su 911 ne abbiamo più di tutti nel pianeta: 45. Molti più di Francia o Stati Uniti che ci staccano nelle classifiche turistiche. Il guaio è che questo patrimonio, accusa un dossier PwC, lo usiamo male, ricavandone la metà rispetto a Gran Bretagna, Germania e Francia e un terzo rispetto alla Cina.

Ci vorrebbe più testa, per usarlo. E una classe politica più interessata, curiosa, colta. Alla Costituente, pur avendo la guerra ostacolato i percorsi universitari, era laureato il 92% dei parlamentari: oggi la quota si è inabissata al 64%. Ma è il Paese tutto ad arrancare: dai sindaci ai governatori, dagli assessori ai consiglieri regionali. E giù giù ai cittadini che, sempre più indifferenti al bello e al brutto, arrivano a costruire pattume cementizio abusivo sul promontorio di capo Vaticano o sul basolato della via Domiziana accanto alla tomba di Scipione l'Africano.

Da dove ripartire, per fermare la dittatura dell'incuria? Dalla scuola: da lì occorre ricominciare. Se è vero che la nostra stessa identità è definita dai nostri tesori artistici e paesaggistici al punto che noi italiani per gli altri «siamo» la torre di Pisa e Rialto e Pompei, la storia dell'arte via via più maltrattata («sarà possibile diplomarsi in Moda, Grafica e Turismo senza sapere chi sono Giotto, Leonardo o Michelangelo», si indigna Tomaso Montanari sull'ultimo bollettino di Italia Nostra) deve essere materia di interesse nazionale. E permeare i nostri figli fin dalle elementari. Investiamo sulla bellezza e sulle teste: è un affare.

Gian Antonio Stella, La dittatura dell'incuria, 4 marzo 2012


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