Non so quale sarà la sorte di Primo Greganti nella sua vicenda giudiziaria odierna. Ma vorrei dire una parola in difesa del «compagno G.»Dalla prima Tangentopoli ha ereditato non soltanto una serie di fotografie di se stesso che oggi stanno su tutti i media. Il lascito più pesante è la convinzione che fosse un cacciatore solitario di mazzette a proprio favore. Avvalorata anche dal silenzio di Greganti che, da militante disposto al sacrificio, rifiutava con tenacia di mettere nei guai il proprio partito, il Pci diventato Pds. In realtà il compagno G. è sempre stato una pulce. Chi incassava le tangenti, in pratica chi rubava, erano le Botteghe oscure. Come dimostrerà la storia seguente. La storia ha un protagonista ben più forte di Greganti: Eugenio Cefis, il successore di Enrico Mattei alla guida dell’Eni. Cefis era un friulano diCividale, classe 1921, un pezzo d’uomo alto un metro e novanta. Nel corso della guerra civile, da partigiano autonomo aveva tenuto testa alle bande comuniste di Cino Moscatelli. Era un manager che amava il segreto, l’oscurità, il silenzio. Una regola di vita che mantenne sempre, tranne in un caso. Quando nell’aprile 1993, durante la Tangentopoli numero uno, venne interrogato come testimone dal sostituto procuratore Pier Luigi Maria Dell’Osso. Sentite che cosa raccontò.
L’AFFARE RUSSO Si era tra la fine degli anni Cinquanta e l’alba dei Sessanta. L’Eni disponeva di un’ottima rete per la distribuzione del metano, ma stava esaurendo le riserve di gas della Pianura Padana. Mattei incontrò a Roma il vicepresidente sovietico Aleksej Kosygin e apprese che l’Urss possedeva una sterminata quantità di metano, disponibile in Siberia. Mattei dichiarò di essere pronto ad acquistarne una parte, da immettere sul mercato italiano. La trattativa risultò molto complessa e durò qualche anno. Per concluderla, Cefis, succeduto a Mattei nel 1962, si disse pronto a versare una tangente al Pci. L’accordo fu raggiunto nel dicembre 1969. Alle Botteghe Oscure venne riconosciuta una mazzetta colossale: oltre dodici milioni didollari, come contributo dell’Eni per il buon esito dell’intesa. Poiché il contratto di fornitura del gas aveva una durata ventennale, la tangente fu pagata a rate. Un milione e duecentomila dollari alla firma dell’accordo, il resto in versamenti trimestrali. Il tutto passava per un conto svizzero indicato da Amerigo Terenzi, un burocrate dal pugno di ferro che governava la stampa comunista in Italia. È inutile aggiungere che l’Eni di Mattei e poi di Cefis pagava quasi tutti i partiti, a cominciare dalla Dc,dal Pci e dal Psi.La regola seguita da entrambi i presidenti dell’ente petrolifero aveva quattro punti cardine.Primo: erano i partiti a dover chiedere la mazzetta. Secondo: dovevano domandarla almeno tre volte e l’Eni aveva l’obbligo di rispondere sempre no. Terzo:quando l’Eni si decideva a darla, non poteva superare il 25-30 per cento della cifra richiesta. Quarto: comunque la somma doveva essere proporzionata all’aiuto che il gruppo Eni aveva ricevuto da quel partito. La testimonianza di Cefis basterebbe da sola a smentire tutte le favole sul Pci immacolato. I militanti comunisti ci tenevano molto all’immagine illibata del Partitone rosso. Era un riflesso della vantata diversità genetica del Pci, tanto cara a Berlinguer. Anche Re Enrico sapeva tutto delle tangenti incassate dal suopartito. Però sosteneva che le mazzette rosse erano ben altra cosa dalle mazzette ricevute dalle altre parrocchie. Per un motivo che i militanti più scafati ti spiegavano persino nella più periferica tra le Feste dell’Unità. Il motivo era che le tangenti pretese dalle Botteghe Oscure e dalle tante federazioni provinciali avevano uno scopo ben diverso da quelle agguantate dai partiti borghesi.Queste servivano a finanziare una politica che avversava il proletariato, la classe operaia e gli ultimi della scala sociale. Invece le tangenti incassate dal Pci erano il carburante necessario per far avanzare la democrazia e favorire l’avvento di una società più giusta. Detto in modo più esplicito: anche noi comunisti pratichiamo la corruzione politica, però a fin di bene. Infine su tutto il sistema imperava un principio confermato da un libro di Gianni Cervetti, «L’oro di Mosca», pubblicato nel 1993 da Baldini & Castoldi. L’autore non era un signore qualunque. Cervetti, che in settembre compirà 81 anni,all’epoca di Berlinguer era membro della segreteria nazionale del Pci, il responsabile del settore amministrativo e finanziario. Ascoltate che cosa racconta a proposito di unoscandalo edilizio emerso nel 1975 a Parma,quando la città era governata dalle sinistre, con il Pci in prima fila. Secondo Cervetti, il commento di Berlinguer fu il seguente: «Occorre ammettere che noi comunisti ci distinguiamo dagli altri partiti non perché rifiutiamo finanziamenti deprecabili. Siamo diversi perché, nel ricorrervi, il disinteresse dei nostri compagni è stato assoluto». Il problema, dunque, non era il fango della corruzione politica, un cancro destinato a diventare incurabile, tanto che ci perseguita ancora oggi, a vent’anni da Tangentopoli e a quarantacinque dalla gigantesca mazzetta pagata dall’Eni al Pci per il gas siberiano.A salvare la coscienza del Bottegone erano le mani nette dei compagni impegnati nel lavoro sporco su quel fronte. Un lavoro diventato sempre più massiccio con il crescere degli apparati dei partiti e dei costi generali della politica. Anno dopo anno, tutti i segmenti della Casta, da quelli grandi ai più piccoli, cominciarono a mangiare alla stessa greppia. La loro voracità non conosceva più freni. Al punto che le aziende, dalle maxi alle medie, arrivarono a offrire tangenti senza che venissero richieste. Le regole di comportamento esposte da Mattei e da Cefis per l’Eni finirono nel guardaroba dei cani. Le imprese consideravano le mazzette un costo fisso, indispensabile per concludere un affare od ottenere una commessa,un appalto,una fornitura. Nessuno era più in grado di resistere alle pressioni della Casta. Neppure la Fiat, la Montedison, la stessa Eni.
Giampaolo Pansa, Libero, 11 maggio 2014
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