Ha il solito doppiopetto blu presidenziale. E se non fosse per il
rosario nero che gli avvolge le mani intrecciate sul grembo, e perché è
sdraiato sul letto vestito di tutto punto con gli occhi chiusi, potrebbe
quasi sembrare il Giulio Andreotti di sempre. Ma il piccolo presepe
vivente che lo circonda, stavolta, non è nella sua stanza da letto per
ascoltare le battute al curaro, o le perle di buonsenso romano-papalino.
Le tre bombole a ossigeno accostate alla parete raccontano giorni di
sofferenza. E il senatore a vita Emilio Colombo, vecchio alleato e
avversario in decine di congressi democristiani e di quasi altrettanti
governi, si fa un segno della croce che non è solo un saluto a lui ma il
commiato a un'epoca della storia d'Italia.
In questa stanza nella penombra al quarto piano di corso Vittorio
Emanuele che si affaccia sul Tevere e sul Vaticano, sorvegliato e
protetto da un grande crocifisso di porcellana appeso sopra al letto, è
morto ieri mattina, poco dopo mezzogiorno, l'uomo-simbolo della Prima
Repubblica. In quel momento in casa c'erano soltanto Gloria, la badante
filippina che lo assisteva con altri due connazionali, e Giancarlo
Buttarelli, il capo della scorta con lui da oltre trentacinque anni.
C'era anche la signora Livia, ma per fortuna non si è accorta di nulla. E
anche adesso, alle cinque del pomeriggio, mentre un silenzioso viavai
di amici e mondi tramontati viene accompagnato a salutarlo per l'ultima
volta, la moglie è in cucina in compagnia della cognata Antonella
Danese. Forse non capisce quanto è successo. I figli vogliono che non si
accorga che suo marito Giulio se n'è andato a novantaquattro anni.
Già, ci sono anche gli Andreotti: la tribù più discreta e
invisibile del potere romano. Per il momento Stefano e Serena, due dei
quattro figli. Gli altri, Lamberto, presidente della multinazionale
Meyers Squibb, arriverà da New York in serata, e la figlia maggiore
Marilena è partita da Torino, dove vive. In compenso ci sono alcuni dei
nipoti, Giulio Andreotti e Giulia Ravaglioli, figlio il primo di Stefano
e l'altra di Serena e del giornalista della Rai Marco Ravaglioli. Ci
sono anche Marco e Luca Danese, i cugini. E sono loro, tutti insieme, ad
accogliere ex ambasciatori e capi di gabinetto, alti burocrati e
parlamentari figli della diaspora scudocrociata; e naturalmente
sacerdoti. Il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, si è
offerto di celebrare la messa. E anche il suo predecessore, il decano
del Sacro Collegio, Angelo Sodano.
«E il cardinale Fiorenzo Angelini non viene?», si chiedono nel salottino con le cineserie e le scatoline d'argento allineate in ordine su un tavolino rotondo col drappo di velluto marrone. No, non ce la fa. E nemmeno il cardinale Achille Silvestrini. Sono molto vecchi anche loro, reduci di mille battaglie e pezzi d'antiquariato del «partito romano» italo-vaticano. Ci sono invece il vescovo Matteo Zuppi, parroco di Santa Maria in Trastevere, la chiesa della comunità di Sant'Egidio, e padre Luigi Venturi, il parroco di San Giovan Battista dei Fiorentini, la chiesa di quartiere dove oggi alle 17 si celebreranno i funerali in forma privata: perché la famiglia non vuole una cerimonia di Stato. Parlano tutti del «Presidente», come continuano a chiamarlo ricordando pagine ormai ingiallite di storia repubblicana. E la famiglia, con discrezione e garbo, ringrazia e stringe mani. Ma sempre un po' appartata, cordiale e insieme vigile. Come se concedesse per l'ultima volta il padre e il nonno a quelle persone che lo hanno visto più di loro.
«E il cardinale Fiorenzo Angelini non viene?», si chiedono nel salottino con le cineserie e le scatoline d'argento allineate in ordine su un tavolino rotondo col drappo di velluto marrone. No, non ce la fa. E nemmeno il cardinale Achille Silvestrini. Sono molto vecchi anche loro, reduci di mille battaglie e pezzi d'antiquariato del «partito romano» italo-vaticano. Ci sono invece il vescovo Matteo Zuppi, parroco di Santa Maria in Trastevere, la chiesa della comunità di Sant'Egidio, e padre Luigi Venturi, il parroco di San Giovan Battista dei Fiorentini, la chiesa di quartiere dove oggi alle 17 si celebreranno i funerali in forma privata: perché la famiglia non vuole una cerimonia di Stato. Parlano tutti del «Presidente», come continuano a chiamarlo ricordando pagine ormai ingiallite di storia repubblicana. E la famiglia, con discrezione e garbo, ringrazia e stringe mani. Ma sempre un po' appartata, cordiale e insieme vigile. Come se concedesse per l'ultima volta il padre e il nonno a quelle persone che lo hanno visto più di loro.
Non è una veglia di potenti, ma di vecchi amici. Sì, sembra che
Andreotti avesse anche amici. Non piange nessuno, perché probabilmente
il «divo Giulio», o «Belzebù», come lo chiamano tuttora gli avversari
più irriducibili, non approverebbe. Anche Pier Ferdinando Casini e
Gianni Letta sono confusi fra l'avvocato Barone e Luigi Turchi e il
figlio Franz. Parlano come se tutto fosse uguale a prima. Le segretarie,
Daniela e Patrizia, raccontano che lo studio a palazzo Giustiniani
ormai era un guscio vuoto da mesi; e che da febbraio i figli avevano
deciso di restituirlo al Senato per non tenere occupate le stanze in
nome di una finzione. È passato a salutare anche il sindaco di Roma,
Gianni Alemanno. Sono arrivati appena si è saputa la notizia Franco e
Sandra Carraro. C'è la signora Santarelli, figlia di un amico storico
dell'ex presidente. E figli e nipoti osservano, rispondono alle domande,
sorridono perfino, con gentilezza.
Quando Stefano Andreotti presenta a un Gianni Letta affranto il figlio, dicendogli: «Ecco Giulio Andreotti», c'è un attimo di sorpresa. Poi spunta un ragazzo alto, con i capelli un po' lunghi, in giacca blu e cravatta, che ha il nome del nonno e fa l'avvocato. L'altro, quello «vero», è sul letto con la coperta verde di lana a fiori e la foto di madre Teresa di Calcutta sul comodino, nella stanza a metà corridoio: quella annunciata dalla mensola di vetro dove sono esposti una parte dei campanelli d'argento che il senatore a vita ha collezionato per gran parte della sua lunga vita. Oltre la porta a due ante, in questo appartamento bello ma senza lusso, riposa quello che per decenni è stato considerato il sopravvissuto per antonomasia. Al punto che gli piaceva dire con civetteria: «Io, in fondo, sono postumo di me stesso». Perché lui continuava a vivere mentre finivano la Guerra fredda, la Prima e la Seconda Repubblica, e morivano o si dimettevano i Papi.
Quando Stefano Andreotti presenta a un Gianni Letta affranto il figlio, dicendogli: «Ecco Giulio Andreotti», c'è un attimo di sorpresa. Poi spunta un ragazzo alto, con i capelli un po' lunghi, in giacca blu e cravatta, che ha il nome del nonno e fa l'avvocato. L'altro, quello «vero», è sul letto con la coperta verde di lana a fiori e la foto di madre Teresa di Calcutta sul comodino, nella stanza a metà corridoio: quella annunciata dalla mensola di vetro dove sono esposti una parte dei campanelli d'argento che il senatore a vita ha collezionato per gran parte della sua lunga vita. Oltre la porta a due ante, in questo appartamento bello ma senza lusso, riposa quello che per decenni è stato considerato il sopravvissuto per antonomasia. Al punto che gli piaceva dire con civetteria: «Io, in fondo, sono postumo di me stesso». Perché lui continuava a vivere mentre finivano la Guerra fredda, la Prima e la Seconda Repubblica, e morivano o si dimettevano i Papi.
Non l'avevano schiantato né i processi per mafia, dai quali era
uscito assolto e, per alcuni reati, solo prescritto, né un potere che
aveva regole, riferimenti e protagonisti lontani ormai anni luce da lui.
Finché era esistito un modo diviso fra Occidente e comunismo, Andreotti
era parso eterno. Era il «suo» mondo, nel quale si muoveva con la
leggiadria e il cinismo di chi ne conosceva non solo le apparenze, ma
anche il sottosuolo. Aveva presieduto i suoi primi governi nel 1972,
alleato con i liberali. Il terzo era stato nel 1976, appoggiato dal Pci.
E l'ultimo, il settimo, nel 1989, a capo di un'alleanza con i
socialisti di Bettino Craxi: l'ultimo della Prima Repubblica. Obiettivo:
preservare la continuità dello Stato democristiano e un progresso senza
avventure; e garantire il Vaticano, l'Europa e gli Usa come stelle
polari. La Dc era solo uno strumento per governare. In realtà, la forza e
il potere andreottiani erano fuori, non dentro al partito.
La sua base elettorale erano la Ciociaria, la burocrazia ministeriale romana, i conventi di suore, le congregazioni religiose. Come disse una volta lo scomparso capo dello Stato, Francesco Cossiga, Andreotti era «il popolo del Papa dentro la Dc». Oppure «un cardinale esterno», nella definizione dello storico Andrea Riccardi. Dei democristiani, di cui era un esemplare unico e dunque atipico, diffidava: forse perché aveva visto come erano stati rapidi a giubilare il suo mentore politico, Alcide De Gasperi, alla fine del centrismo e all'inizio degli Anni Cinquanta del secolo scorso. Non per nulla non aveva mai ricoperto cariche di partito, tranne quella di capogruppo alla Camera. E la sua corrente era piccola, combattiva e così variegata, per usare un eufemismo, che gli altri la chiamavano con una punta di razzismo «le truppe di colore» andreottiane.
La sua base elettorale erano la Ciociaria, la burocrazia ministeriale romana, i conventi di suore, le congregazioni religiose. Come disse una volta lo scomparso capo dello Stato, Francesco Cossiga, Andreotti era «il popolo del Papa dentro la Dc». Oppure «un cardinale esterno», nella definizione dello storico Andrea Riccardi. Dei democristiani, di cui era un esemplare unico e dunque atipico, diffidava: forse perché aveva visto come erano stati rapidi a giubilare il suo mentore politico, Alcide De Gasperi, alla fine del centrismo e all'inizio degli Anni Cinquanta del secolo scorso. Non per nulla non aveva mai ricoperto cariche di partito, tranne quella di capogruppo alla Camera. E la sua corrente era piccola, combattiva e così variegata, per usare un eufemismo, che gli altri la chiamavano con una punta di razzismo «le truppe di colore» andreottiane.
Erano la sua piccola massa di manovra per ottenere ministeri; per
garantirsi una longevità governativa dovuta non tanto alle sue
strategie, quanto al ruolo di conservatore del sistema e conoscitore
della macchina dello Stato. Eppure, quando la Dc finì insieme con la
Guerra fredda, lui ne rimase un cultore nostalgico: capiva che
l'archiviazione dell'unità politica dei cattolici era anche quella dei
suoi punti cardinali e della sua cultura politica. Dopo la diaspora
scudocrociata, a piazza del Gesù, sede storica della Dc a Roma, non
voleva andare. Diceva che gli sembrava un condominio litigioso, con un
partitino diverso a ogni piano. Da anni non era più un burattinaio.
Anzi, rischiava di essere usato per operazioni politiche che non
condivideva. Accadde nel 2006, quando Silvio Berlusconi lo candidò alla
presidenza del Senato contro un altro ex democristiano, Franco Marini,
scelto dal centrosinistra. Si illuse di essere «una goccia d'olio» in
grado di sbloccare la situazione.
Ma fu la sua ultima illusione di potere, prima di un lungo oblìo dal quale è uscito solo ieri poco dopo mezzogiorno; e prima di essere di nuovo usato da partiti nei quali non si riconosce, come è accaduto dopo la notizia della sua morte. Il piccolo mondo antico che ieri si è ritrovato nel suo appartamento si è mimetizzato e adattato ai nuovi potenti. Ma sapeva che l'uomo adagiato in doppiopetto blu nella stanza accanto, e poi nella bara all'ingresso di casa, era la loro autobiografia: lo specchio nel quale per decenni la maggioranza silenziosa e moderata dell'Italia si era riflessa. Si tratta di un'Italia che ha rifiutato fino all'ultimo la sua scomparsa, perpetuando il mito dell'eternità andreottiana per non ammettere di essere postuma anche lei di se stessa. Ma «c'est fini», è finita, confessava a se stesso da tempo il suo segretario a palazzo Giustiniani, Salvatore Ruggieri.
Ma fu la sua ultima illusione di potere, prima di un lungo oblìo dal quale è uscito solo ieri poco dopo mezzogiorno; e prima di essere di nuovo usato da partiti nei quali non si riconosce, come è accaduto dopo la notizia della sua morte. Il piccolo mondo antico che ieri si è ritrovato nel suo appartamento si è mimetizzato e adattato ai nuovi potenti. Ma sapeva che l'uomo adagiato in doppiopetto blu nella stanza accanto, e poi nella bara all'ingresso di casa, era la loro autobiografia: lo specchio nel quale per decenni la maggioranza silenziosa e moderata dell'Italia si era riflessa. Si tratta di un'Italia che ha rifiutato fino all'ultimo la sua scomparsa, perpetuando il mito dell'eternità andreottiana per non ammettere di essere postuma anche lei di se stessa. Ma «c'est fini», è finita, confessava a se stesso da tempo il suo segretario a palazzo Giustiniani, Salvatore Ruggieri.
E stavolta è finita davvero. Andreotti sarà ricordato come quello
della battuta sul «potere che logora chi non ce l'ha»: un monumento
lessicale a un potere senza alternativa, cresciuto negli ultimi anni
della Dc; e pagato a caro prezzo quando quella stagione si è chiusa.
Peccato che pochi ne ricordino un'altra, di molti anni prima. Chiesero
all'allora ministro di qualcosa che avrebbe fatto se avesse avuto il
potere assoluto. Andreotti ci pensò un secondo. Poi rispose:
«Sicuramente qualche sciocchezza». Era una lezione di democrazia che
molti, a cominciare da lui, hanno finito per rimuovere.
Massimo Franco, Corriere della Sera, 7 maggio 2013
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