mercoledì 26 febbraio 2014
domenica 23 febbraio 2014
Recondita armonia di bellezze diverse
La scorsa settimana ero abbastanza triste per il modo inconsueto e
molto crudele col quale la direzione del Pd aveva sfiduciato Enrico
Letta. Mi venne in mente la canzone jazz americana "Stormy Weather",
tempi bui, e la citai nel mio articolo domenicale e nel titolo. Ma oggi è
diverso.
Oggi, sia pure con qualche cautela, dobbiamo festeggiare l'ascesa al
potere di Matteo Renzi, il rilancio in programma della crescita
economica, dell'occupazione, dei giovani, il compimento della riforma
elettorale, la diminuzione delle tasse, la riforma della pubblica
amministrazione, la semplificazione cioè la modernizzazione dello Stato e
il prolungamento della vita del governo fino al termine naturale della
legislatura nell'aprile del 2018.
È lungo quest'elenco, anche solo a snocciolarne i titoli. Ricordo che
Letta fu contento perché per esporre il suo programma, che la direzione
del Pd neppure esaminò, aveva scritto 54 pagine. Ma qui, per illustrare
quello di Renzi, ce ne vorrebbero almeno 500. Per ora non ci sono, anzi
non ce n'è neppure mezza. C'è soltanto l'elenco dei titoli che abbiamo
sopra elencato, c'è un doppio criterio che Renzi ha ribadito più volte
venerdì nelle sue dichiarazioni successive alla nomina ricevuta dal Capo
dello Stato e cioè: concretezza e trasparenza.
E c'è anche la tempistica: sei mesi per la legge elettorale, che
invece fino all'altro ieri sembrava doversi collocare entro questo mese
ed è stata, giustamente, agganciata alla riforma del Senato che richiede
una legge costituzionale e una maggioranza comprensiva di Berlusconi.
Gli altri obiettivi invece saranno "avviati" e in buona parte
effettuati entro quattro mesi, uno al mese cominciando dal lavoro e
dall'occupazione. No, non state sognando, la tempistica indicata da
Renzi è proprio questa: un mese per risolvere quei problemi (quasi
secolari). Quattro problemi, quattro mesi e il pranzo è servito. E noi
dovremmo festeggiare? Un governo di otto donne e otto uomini, il premier
più giovane della storia italiana a partire dal 1861. Un altro esempio
di grande gioventù per la presa del potere (ancora molto più giovane di
lui) fu quello di Lorenzo il Magnifico, anche lui di Firenze, ma erano
altri tempi. Anche Napoleone arrivò al vertice più o meno sui trent'anni
e non parliamo di Alessandro Magno. Ma erano appunto tempi diversi.
Tra i moderni in Italia, abbiamo un campione; perciò in alto i
calici. Personalmente purtroppo ho il divieto medico di bere alcol
perciò - il presidente del Consiglio mi scuserà - brinderò alla salute
sua e del governo da lui formato con una Coca light. Spero ne sarà
ugualmente contento.
Ci sono però in più due punti che vorrei precisare prima di
analizzare la situazione attuale del nostro Paese. E sono questi. Il
direttore della Stampa, Mario Calabresi, riscontra nel nuovo governo e
in Renzi che lo presiede una leggerezza che gli ricorda il Calvino delle
Lezioni americane e ne trae ottimi auspici. Non so quanti siano i
membri del nuovo governo che abbiano letto le Lezioni americane.
L'amico Calabresi, che formula quell'auspicio, certamente le conosce
ma ha dimenticato di dire che il personaggio che Calvino indica come la
personificazione della leggerezza che lui intende era - pensate un po' -
Guido Cavalcanti. Francamente non pare che Renzi abbia qualche affinità
con Cavalcanti. Ezio Mauro nel suo editoriale di ieri giudica Renzi un
po' bullo. È chiaro che con Cavalcanti non ha nulla a che fare.
La seconda affermazione si rifà a una dichiarazione del neo-premier
subito dopo l'investitura ricevuta al Quirinale. Ha detto testualmente:
«Il mio governo è il più di sinistra degli ultimi 30 anni ». Dice così
ma non sembrerebbe. Personalmente, se dovessi dare un attributo, direi
che è un governo pop. Forse la sinistra è diventata pop. Non so se sia
un progresso. Speriamo di sì.
Una novità c'è sicuramente: questo non è più un
governo del presidente della Repubblica, come accadde con Monti e con
Letta. Questo nel bene e nel male è il governo di Renzi e del suo
partito. Napolitano l'ha nominato e non poteva far altro visto che il
partito di Renzi ha la maggioranza assoluta alla Camera e quella
relativa al Senato dove la maggioranza assoluta viene raggiunta con i
voti di Alfano e dei pochi senatori centristi.
Ma c'è un'altra maggioranza della medesima importanza sulla quale né
la legge elettorale né le riforme costituzionali potrebbero esser fatte
ed è quella stipulata, con "piena sintonia", con Forza Italia di Silvio
Berlusconi, il quale ha manifestato ampia adesione all'incarico che
Renzi ha ricevuto.
Al punto che ieri il Cavaliere avrebbe espresso apprezzamento per la
nomina della Guidi allo Sviluppo economico e comunicazioni, vantandosi
di avere un ministro pur stando all'opposizione. C'è un problema per il
premier e non è da poco. Anche perché tutto è confermato da una cena
avvenuta lunedì a casa di Berlusconi, con la Guidi e suo padre tra gli
invitati.
Ci sono dunque due maggioranze che per ora sostengono il nuovo
governo, le quali però - è bene averlo presente - non vanno d'accordo
tra loro perché Berlusconi, se solo potesse, vorrebbe distruggere Alfano
e reciprocamente. Renzi e il suo partito sono perciò il perno che usa a
proprio beneficio questa dicotomia. Durerà fino al 2018 o si sfascerà
prima? Molto dipenderà anche dall'esito delle elezioni europee ma
soprattutto dai risultati che nel frattempo il nuovo governo otterrà in
materia economica.
Napolitano non aveva altre soluzioni, ma alcuni elementi della
situazione dipendono pur sempre da lui. Per esempio lo scioglimento
delle Camere; per esempio l'approvazione preventiva dei decreti e la
promulgazione delle leggi o il loro rinvio al Parlamento nei casi di
dubbia costituzionalità.
Insomma ha ripreso un ruolo non più determinato dall'emergenza, anche se l'emergenza c'è ancora ma con caratteristiche diverse.
Con intelligenza e coraggio del quale è giusto dargli atto, Renzi ha detto che i rischi d'un insuccesso ci sono ma bisognava correrli ed ha aggiunto che lui e il suo partito ci mettono la faccia; se sbaglieranno pagheranno. Si è però scordato di aggiungere che se sbaglieranno pagherà anche il Paese e sarà esattamente il Paese a pagare il prezzo più alto.
Con intelligenza e coraggio del quale è giusto dargli atto, Renzi ha detto che i rischi d'un insuccesso ci sono ma bisognava correrli ed ha aggiunto che lui e il suo partito ci mettono la faccia; se sbaglieranno pagheranno. Si è però scordato di aggiungere che se sbaglieranno pagherà anche il Paese e sarà esattamente il Paese a pagare il prezzo più alto.
In quel deprecabile caso, che dobbiamo tutti cercar di scongiurare,
ciascuno operando responsabilmente nel campo che gli è proprio, quali
sono le alternative? Solo il populismo dilagante?
Quello è certamente il pericolo da scongiurare, ma ce n'è un altro che a mio avviso è più concreto: se Renzi dovesse fallire noi saremo commissariati dall'Europa con tutte le conseguenze del caso; ma avremo anche contribuito col nostro fallimento a danneggiare fortemente l'Europa nella sua evoluzione.
Quello è certamente il pericolo da scongiurare, ma ce n'è un altro che a mio avviso è più concreto: se Renzi dovesse fallire noi saremo commissariati dall'Europa con tutte le conseguenze del caso; ma avremo anche contribuito col nostro fallimento a danneggiare fortemente l'Europa nella sua evoluzione.
Il nostro continente diventerebbe irrilevante nell'economia globale
con tutte le conseguenze del caso. La faccia di Renzi è a rischio e
questo è il suo coraggio, ma se solo fosse questo ce ne potremmo
tranquillamente infischiare. Il rischio è in realtà terribilmente più
elevato ed è opportuno esserne consapevoli.
C'è un punto che resta assolutamente oscuro: fino a cinque o sei
giorni prima del pronunciamento della direzione del Pd che abbatté Letta
e votò per il nuovo governo, Renzi aveva confermato che mai e poi mai
avrebbe messo fuorigioco il governo esistente, almeno fino alla
conclusione del semestre italiano di presidenza europea. Non sosteneva
che quel semestre fosse di grande importanza (anche Berlusconi la pensa
così, ma Renzi ora su questo punto ha completamente cambiato idea) ma
lui comunque non sarebbe intervenuto e si sarebbe unicamente occupato
del partito, cosa che era di grande importanza e ci aveva preso gusto a
portarla avanti.
Proprio in quei giorni, cioè un paio di settimane fa, a me capitò di
partecipare nella trasmissione di Lilli Gruber ad un dibattito con
Delrio che non conoscevo ma sapevo bene chi fosse.
Delrio, su domanda della Gruber e anche mia, ribadì che Renzi non
pensava affatto a sostituire Letta e che lui era dello stesso parere e
l'aveva consigliato a mantener ferma quella posizione. Ricordo che
Delrio era ministro del governo Letta.
Accadde invece che a pochi giorni di distanza anche Delrio abbia
cambiato radicalmente opinione e sia stato tra i più fidati dei
luogotenenti del leader a spingerlo verso la presa del potere a Palazzo
Chigi. In quei giorni Delrio era in predicato per assumere la guida
dell'Economia, del quale non risulta abbia particolare esperienza.
Come si spiega questo improvviso cambiamento, talmente sorprendente
che, quando avvenne e ancora fino a venerdì scorso, Renzi non aveva
affatto formato la squadra di governo e si aggirava tra i nomi di
Montezemolo, Baricco, Farinetti, Guerra, Boeri, Moretti ed altri che
alla fine sono risultati indisponibili? Che cosa ha spinto Renzi e
Delrio a "metter la faccia" loro e quella dell'intero Paese?
Io non so dare alcuna risposta e neanche Renzi la dà. Dice che la
situazione era divenuta insostenibile. Perché? E perché non se n'era
accorto nei quattro o cinque giorni prima della direzione del partito?
Mi sorge un dubbio: forse aveva capito che la situazione congiunturale
stava migliorando e che a metà agosto si sarebbe consolidata la fine
della recessione con i primi effetti positivi e con il relativo successo
di Letta. Questa prospettiva avrebbe messo lui in una posizione
secondaria, perciò non c'era tempo da perdere.
Capisco che questa ipotesi è maliziosa, ma altre non ne vedo e voglio
ricordare che Renzi aveva riferito anche a Napolitano le sue intenzioni
di non insidiare il governo esistente. Questo rinnova la domanda:
perché il neo-premier ha cambiato idea?
Il problema che adesso si pone (e dovrebbe esser risolto entro un
mese stando alla tempistica renziana) è, per dirla in breve, un
abbattimento sostanziale del cuneo fiscale o di qualche provvedimento
che gli somigli, la ripresa dei pagamenti dei debiti della pubblica
amministrazione verso aziende creditrici, la ripresa degli investimenti;
il tutto insieme ad una diminuzione del debito pubblico e della
pressione fiscale sulle fasce povere della popolazione.
Sono gli stessi temi reclamati da Squinzi e dalla Confindustria i
quali, però, alle domande rivoltegli, non hanno mai indicato le
coperture che rispettino il limite del 3 per cento del deficit,
ricordato da Visco a Renzi nel colloquio di tre giorni fa come asticella
invalicabile.
Da calcoli fatti da attendibili osservatori le cifre necessarie oscillano tra i 50 e i 70 miliardi. Ma quand'anche ci si limitasse allo strettissimo necessario facendo passare degli straccetti di carne per bistecche alla fiorentina, ce ne vorrebbero come minimo 40. Da prendere attraverso la spending review.
Da calcoli fatti da attendibili osservatori le cifre necessarie oscillano tra i 50 e i 70 miliardi. Ma quand'anche ci si limitasse allo strettissimo necessario facendo passare degli straccetti di carne per bistecche alla fiorentina, ce ne vorrebbero come minimo 40. Da prendere attraverso la spending review.
Tagliando gran parte delle inutili sovvenzioni ad imprese del tutto
improduttive se ne tirano fuori una trentina e un'altra decina tassando
le rendite finanziare. Ma per realizzarle se ne parla alla fine
dell'anno perché la bacchetta magica Renzi e Delrio non ce l'hanno.
Avevano detto un mese. Ben che vada ce ne vorranno otto di mesi anche
se si aggiungesse - come pure sarebbe necessario - un'imposta edilizia
con andamento decisamente progressivo per far fronte agli esodati e ai
lavorati delle imprese messe a secco dai tagli della spending review. Il
compito spetta al ministro del Tesoro Padoan, il solo ministro che a
bocca storta Renzi ha dovuto accettare dal fermo suggerimento di
Napolitano.
Purtroppo lo stormy weather permane. Al più ci si può consolare con
la "Recondita armonia di bellezze diverse" cantata da Mario, il
protagonista della Tosca, come apertura dell'opera. Era molto ardito
quel fantasioso pittore che amava la bruna, sognava la bionda e intanto
cospirava con i repubblicani per buttare giù il Papa. Alla fine fu
fucilato e gettato nel Tevere. Segno che troppe cose insieme non si
possono fare.
fonte: Eugenio Scalfari, La Repubblica, 23 febbraio 2014
martedì 11 febbraio 2014
«Un vero shock strutturale positivo»
Nel mezzo della tempesta economica e della crisi dell’euro
dell’estate del 2011, mentre il capo dello Stato stava mettendo in
stand-by Mario Monti per un eventuale incarico alla presidenza del
Consiglio, l’allora amministratore delegato di Banca Intesa, Corrado
Passera, stava stilando un documento segreto di 196 pagine per Giorgio
Napolitano.
Sono giorni terribili. Lo spread
tra titoli di Stato italiani e quelli tedeschi passa dal primo giugno al
2 luglio da 173 punti a 301. Il 5 agosto arriverà la celebre lettera
della Banca centrale europea che chiede esplicitamente interventi per
stabilizzare finanziariamente il Paese. Il 20 settembre ecco il
declassamento di Standard & Poor’s.
In quegli stessi mesi Passera
propone a Napolitano un piano per il rilancio dell’economia, che
comprende «un vero shock strutturale positivo», intitolandolo: «Un
Grande Piano di Rilancio».
Monti, nella sua video intervista per il libro Ammazziamo il Gattopardo , ha confermato che conosceva bene il documento del banchiere e che «una volta con il presidente Napolitano mi è capitato, tra lui e me, di fare riferimento a questo lavoro di Passera».
Monti, nella sua video intervista per il libro Ammazziamo il Gattopardo , ha confermato che conosceva bene il documento del banchiere e che «una volta con il presidente Napolitano mi è capitato, tra lui e me, di fare riferimento a questo lavoro di Passera».
Nella prima bozza di agosto,
come nella quarta versione di novembre in nostro possesso, saltano fuori
svariati obiettivi, compreso quello di raggiungere una crescita di
almeno il 2% all’anno nel medio periodo; portare i conti pubblici in
pareggio già entro il 2012 e riportare il debito pubblico intorno al
100% del Prodotto interno lordo (Pil) entro tre anni.
C’era, sempre nella quarta bozza, la reintroduzione dell’Ici sulla prima casa, l’aumento dell’Iva a 23% entro settembre 2012, e un piano per abbattere il debito anche grazie alla presunta raccolta di 85 miliardi di euro con una tassa patrimoniale del 2% su tutta la ricchezza immobiliare esclusa la prima casa, i depositi bancari e i titoli di Stato.
C’era, sempre nella quarta bozza, la reintroduzione dell’Ici sulla prima casa, l’aumento dell’Iva a 23% entro settembre 2012, e un piano per abbattere il debito anche grazie alla presunta raccolta di 85 miliardi di euro con una tassa patrimoniale del 2% su tutta la ricchezza immobiliare esclusa la prima casa, i depositi bancari e i titoli di Stato.
La recessione ha fatto sì che nel
2012 il Pil si sia contratto del 2,4%. Il rapporto deficit-Pil invece
di essere in pareggio è arrivato, sempre nel 2012, al 3%. Il debito-Pil è
salito invece a fine 2012 a 127% (oggi è al 133%). L’Imu sulla prima
casa è stata introdotta nel dicembre 2011. L’Iva è stata aumentata da 20
a 21% nel dicembre 2011, mentre oggi è al 22%. Il piano della
patrimoniale non è stato mai adottato.
Viene fuori dal documento un senso di grande fretta, comprensibile dal punto di vista di chi lo scriveva, salvo il fatto che c’era ancora in sella un governo, anche se con una maggioranza litigiosa e rancorosa.
«Nelle ultime settimane si è perso un grande patrimonio di credibilità che occorre ricostruire al più presto», si legge nel documento. «Per rimettere in carreggiata l’Italia serve un Grande Piano di Rilancio per la crescita e la riduzione del debito con un’ampiezza circa dieci volte maggiore di quella recentemente introdotta e con molta maggiore enfasi sulla crescita sostenibile. Non proporla agli italiani, adesso e con sincerità, costruendo il vasto consenso necessario attraverso la condivisione di benefici e sacrifici, potrebbe, in tempi brevissimi, mettere a serio rischio la nostra economia, e forse, la nostra stessa democrazia».
Viene fuori dal documento un senso di grande fretta, comprensibile dal punto di vista di chi lo scriveva, salvo il fatto che c’era ancora in sella un governo, anche se con una maggioranza litigiosa e rancorosa.
«Nelle ultime settimane si è perso un grande patrimonio di credibilità che occorre ricostruire al più presto», si legge nel documento. «Per rimettere in carreggiata l’Italia serve un Grande Piano di Rilancio per la crescita e la riduzione del debito con un’ampiezza circa dieci volte maggiore di quella recentemente introdotta e con molta maggiore enfasi sulla crescita sostenibile. Non proporla agli italiani, adesso e con sincerità, costruendo il vasto consenso necessario attraverso la condivisione di benefici e sacrifici, potrebbe, in tempi brevissimi, mettere a serio rischio la nostra economia, e forse, la nostra stessa democrazia».
Bisognerà aspettare qualche mese
perché Passera venga poi incaricato nel governo Monti di guidare il
ministero dello Sviluppo economico. Ma in quell’estate si stava già
lavorando per quanto sarebbe accaduto il 12 novembre del 2011.
fonte: Corriere della Sera, 11 febbraio 2014
Il Governo Letta in sintesi
Nasceva
289 giorni fa il governo guidato da Enrico Letta. Con la disoccupazione
al 12,2 per cento (e quella giovanile al 38,6), il giorno
dell’insediamento il “lavoro” era stato definita dal premier la
principale priorità dell’esecutivo: «Bisogna ridurre le restrizioni ai
contratti a termine, aiuteremo le imprese ad assumere giovani a tempo
indeterminato in una politica generale di riduzione del costo del
lavoro.»
Sull’occupazione va persino peggio, con 12,7 persone senza lavoro su 100 (+0,5 punti percentuali dall’inizio del governo) e la disoccupazione giovanile al 41,6 per cento (+3 punti da maggio). E se lo spread tra Btp e Bund continua a calare, lo spread tra la disoccupazione tedesca e quella italiana ha raggiunto il livello più alto dagli ultimi decenni.
Di fronte a questa emergenza, il governo Letta si è trovato spesso bloccato negli arzigogoli burocratici: secondo l’Ufficio per il programma di governo - creato per monitorare l’attività dell’esecutivo - al 30 novembre 2013, dei 311 decreti attuativi richiesti dai 22 provvedimenti del governo Letta, 272 sono in attesa di attuazione. Una percentuale di realizzazione bassa, che riflette una maggioranza debole.
Dopo l’uscita di Forza italia lo scorso ottobre Letta dispone infatti di 368 deputati (dei 315 richiesti alla Camera) e 167 senatori (161 richiesti), senza contare la recente uscita dell’Udc di Casini e il terremoto dentro Scelta Civica. Inoltre, il travaglio interno al Partito democratico si rovescia sempre di più in Parlamento. Sulle 21 votazioni finali svoltesi al Senato dopo l’abbandono di Forza Italia sono 8 (il 38 per cento) le votazioni in cui alcuni senatori della maggioranza di governo hanno votato contro il proprio gruppo. Questa quota scende di poco (al 35 per cento) analizzando le votazioni finali passate alla Camera dei deputati. Tra i parlamentari “ribelli” quelli del Pd la fanno da padrone: sono il 75 per cento tra tutti i “ribelli” alla Camera e il 62 per cento al Senato.
A causare turbolenze i parlamentari cuperliani, che contano per il 60 per cento di tutti i “ribelli” del Pd, seguiti da renziani (25 per cento) e civatiani (15 per cento). Il dato è una conseguenza naturale del peso relativo del Pd nella maggioranza ma l’alta percentuale di cuperliani - in minoranza nei gruppi - mostrano che né Letta né il segretario del Pd, Matteo Renzi, sembrano riuscire a controllare completamente i propri parlamentari. E la situazione si fa anche peggiore nelle commissioni e durante le votazioni non definitive.
Lo spazio di manovra del governo è insomma ristretto, e la situazione è reso ulteriormente complicata dall’irrigidimento della disciplina di bilancio prevista dal cosiddetto Fiscal Compact, che prevede l’abbattimento del rapporto debito-Pil (oggi al 127 per cento) come principale obiettivo fiscale da parte dei governi fino al raggiungimento del 60 per cento in vent’anni - un obiettivo che implicherebbe per l’Italia risparmi tra i 40 e 50 miliardi annuali. Difficile abbattere il peso delle tasse sul lavoro e contemporaneamente aderire al fiscal compact.
“La ripresa è dietro l’angolo”, affermano da mesi i membri del governo e non importa quante volte questa frase venga ripetuta: rimane sempre, al fondo, la sensazione che si tratti di speranze più che di realtà.
- See more at: http://www.pagina99.it/news/politica/3766/Stallo-per-stallo--ecco-i.html#sthash.2EV2OWz0.dpuf
Nasceva
289 giorni fa il governo guidato da Enrico Letta. Con la disoccupazione
al 12,2 per cento (e quella giovanile al 38,6), il giorno
dell’insediamento il “lavoro” era stato definita dal premier la
principale priorità dell’esecutivo: «Bisogna ridurre le restrizioni ai
contratti a termine, aiuteremo le imprese ad assumere giovani a tempo
indeterminato in una politica generale di riduzione del costo del
lavoro.»
Sull’occupazione va persino peggio, con 12,7 persone senza lavoro su 100 (+0,5 punti percentuali dall’inizio del governo) e la disoccupazione giovanile al 41,6 per cento (+3 punti da maggio). E se lo spread tra Btp e Bund continua a calare, lo spread tra la disoccupazione tedesca e quella italiana ha raggiunto il livello più alto dagli ultimi decenni.
Di fronte a questa emergenza, il governo Letta si è trovato spesso bloccato negli arzigogoli burocratici: secondo l’Ufficio per il programma di governo - creato per monitorare l’attività dell’esecutivo - al 30 novembre 2013, dei 311 decreti attuativi richiesti dai 22 provvedimenti del governo Letta, 272 sono in attesa di attuazione. Una percentuale di realizzazione bassa, che riflette una maggioranza debole.
Dopo l’uscita di Forza italia lo scorso ottobre Letta dispone infatti di 368 deputati (dei 315 richiesti alla Camera) e 167 senatori (161 richiesti), senza contare la recente uscita dell’Udc di Casini e il terremoto dentro Scelta Civica. Inoltre, il travaglio interno al Partito democratico si rovescia sempre di più in Parlamento. Sulle 21 votazioni finali svoltesi al Senato dopo l’abbandono di Forza Italia sono 8 (il 38 per cento) le votazioni in cui alcuni senatori della maggioranza di governo hanno votato contro il proprio gruppo. Questa quota scende di poco (al 35 per cento) analizzando le votazioni finali passate alla Camera dei deputati. Tra i parlamentari “ribelli” quelli del Pd la fanno da padrone: sono il 75 per cento tra tutti i “ribelli” alla Camera e il 62 per cento al Senato.
A causare turbolenze i parlamentari cuperliani, che contano per il 60 per cento di tutti i “ribelli” del Pd, seguiti da renziani (25 per cento) e civatiani (15 per cento). Il dato è una conseguenza naturale del peso relativo del Pd nella maggioranza ma l’alta percentuale di cuperliani - in minoranza nei gruppi - mostrano che né Letta né il segretario del Pd, Matteo Renzi, sembrano riuscire a controllare completamente i propri parlamentari. E la situazione si fa anche peggiore nelle commissioni e durante le votazioni non definitive.
Lo spazio di manovra del governo è insomma ristretto, e la situazione è reso ulteriormente complicata dall’irrigidimento della disciplina di bilancio prevista dal cosiddetto Fiscal Compact, che prevede l’abbattimento del rapporto debito-Pil (oggi al 127 per cento) come principale obiettivo fiscale da parte dei governi fino al raggiungimento del 60 per cento in vent’anni - un obiettivo che implicherebbe per l’Italia risparmi tra i 40 e 50 miliardi annuali. Difficile abbattere il peso delle tasse sul lavoro e contemporaneamente aderire al fiscal compact.
“La ripresa è dietro l’angolo”, affermano da mesi i membri del governo e non importa quante volte questa frase venga ripetuta: rimane sempre, al fondo, la sensazione che si tratti di speranze più che di realtà.
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Nasceva
289 giorni fa il governo guidato da Enrico Letta. Con la disoccupazione
al 12,2 per cento (e quella giovanile al 38,6), il giorno
dell’insediamento il “lavoro” era stato definita dal premier la
principale priorità dell’esecutivo: «Bisogna ridurre le restrizioni ai
contratti a termine, aiuteremo le imprese ad assumere giovani a tempo
indeterminato in una politica generale di riduzione del costo del
lavoro.»
Sull’occupazione va persino peggio, con 12,7 persone senza lavoro su 100 (+0,5 punti percentuali dall’inizio del governo) e la disoccupazione giovanile al 41,6 per cento (+3 punti da maggio). E se lo spread tra Btp e Bund continua a calare, lo spread tra la disoccupazione tedesca e quella italiana ha raggiunto il livello più alto dagli ultimi decenni.
Di fronte a questa emergenza, il governo Letta si è trovato spesso bloccato negli arzigogoli burocratici: secondo l’Ufficio per il programma di governo - creato per monitorare l’attività dell’esecutivo - al 30 novembre 2013, dei 311 decreti attuativi richiesti dai 22 provvedimenti del governo Letta, 272 sono in attesa di attuazione. Una percentuale di realizzazione bassa, che riflette una maggioranza debole.
Dopo l’uscita di Forza italia lo scorso ottobre Letta dispone infatti di 368 deputati (dei 315 richiesti alla Camera) e 167 senatori (161 richiesti), senza contare la recente uscita dell’Udc di Casini e il terremoto dentro Scelta Civica. Inoltre, il travaglio interno al Partito democratico si rovescia sempre di più in Parlamento. Sulle 21 votazioni finali svoltesi al Senato dopo l’abbandono di Forza Italia sono 8 (il 38 per cento) le votazioni in cui alcuni senatori della maggioranza di governo hanno votato contro il proprio gruppo. Questa quota scende di poco (al 35 per cento) analizzando le votazioni finali passate alla Camera dei deputati. Tra i parlamentari “ribelli” quelli del Pd la fanno da padrone: sono il 75 per cento tra tutti i “ribelli” alla Camera e il 62 per cento al Senato.
A causare turbolenze i parlamentari cuperliani, che contano per il 60 per cento di tutti i “ribelli” del Pd, seguiti da renziani (25 per cento) e civatiani (15 per cento). Il dato è una conseguenza naturale del peso relativo del Pd nella maggioranza ma l’alta percentuale di cuperliani - in minoranza nei gruppi - mostrano che né Letta né il segretario del Pd, Matteo Renzi, sembrano riuscire a controllare completamente i propri parlamentari. E la situazione si fa anche peggiore nelle commissioni e durante le votazioni non definitive.
Lo spazio di manovra del governo è insomma ristretto, e la situazione è reso ulteriormente complicata dall’irrigidimento della disciplina di bilancio prevista dal cosiddetto Fiscal Compact, che prevede l’abbattimento del rapporto debito-Pil (oggi al 127 per cento) come principale obiettivo fiscale da parte dei governi fino al raggiungimento del 60 per cento in vent’anni - un obiettivo che implicherebbe per l’Italia risparmi tra i 40 e 50 miliardi annuali. Difficile abbattere il peso delle tasse sul lavoro e contemporaneamente aderire al fiscal compact.
“La ripresa è dietro l’angolo”, affermano da mesi i membri del governo e non importa quante volte questa frase venga ripetuta: rimane sempre, al fondo, la sensazione che si tratti di speranze più che di realtà.
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domenica 9 febbraio 2014
Puntare il dito
Così dice il Signore:
«Non consiste forse [il digiuno che voglio]
nel dividere il pane con l’affamato,
nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto,
nel vestire uno che vedi nudo,
senza trascurare i tuoi parenti?
Allora la tua luce sorgerà come l’aurora,
la tua ferita si rimarginerà presto.
Davanti a te camminerà la tua giustizia,
la gloria del Signore ti seguirà.
Allora invocherai e il Signore ti risponderà,
implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”.
Se toglierai di mezzo a te l’oppressione,
il puntare il dito e il parlare empio,
se aprirai il tuo cuore all’affamato,
se sazierai l’afflitto di cuore,
allora brillerà fra le tenebre la tua luce,
la tua tenebra sarà come il meriggio».
«Non consiste forse [il digiuno che voglio]
nel dividere il pane con l’affamato,
nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto,
nel vestire uno che vedi nudo,
senza trascurare i tuoi parenti?
Allora la tua luce sorgerà come l’aurora,
la tua ferita si rimarginerà presto.
Davanti a te camminerà la tua giustizia,
la gloria del Signore ti seguirà.
Allora invocherai e il Signore ti risponderà,
implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”.
Se toglierai di mezzo a te l’oppressione,
il puntare il dito e il parlare empio,
se aprirai il tuo cuore all’affamato,
se sazierai l’afflitto di cuore,
allora brillerà fra le tenebre la tua luce,
la tua tenebra sarà come il meriggio».
Is 58,7-10 |
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Le ragioni storiche dello scontro Dopo che il 31 maggio 1453 Maometto II aveva conquistato la città di Costantinopoli e con essa ...
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EVANGELIUM SECUNDUM IOANNEM 15 1 Ego sum vitis vera, et Pater meus agricola est. 2 Omnem palmitem in me non ferentem fructum tollit eu...