martedì 11 febbraio 2014

Il Governo Letta in sintesi










Nasceva 289 giorni fa il governo guidato da Enrico Letta. Con la disoccupazione al 12,2 per cento (e quella giovanile al 38,6), il giorno dell’insediamento il “lavoro” era stato definita dal premier la principale priorità dell’esecutivo: «Bisogna ridurre le restrizioni ai contratti a termine, aiuteremo le imprese ad assumere giovani a tempo indeterminato in una politica generale di riduzione del costo del lavoro.»

289 giorni dopo, i risultati del governo sono magri: i dati sulla produzione industriale pubblicati dall’Istat mostrano che il rallentamento dell’economia non conosce soluzioni di continuità. A dicembre la produzione è calata dello 0,9 per cento, giù del 3 per cento dall’anno scorso. Confindustria ha calcolato che le tasse in Italia continuano a essere alte: al 42,3 per cento sul lavoro e al 65,8 per cento sugli utili d’impresa.

Sull’occupazione va persino peggio, con 12,7 persone senza lavoro su 100 (+0,5 punti percentuali dall’inizio del governo) e la disoccupazione giovanile al 41,6 per cento (+3 punti da maggio). E se lo spread tra Btp e Bund continua a calare, lo spread tra la disoccupazione tedesca e quella italiana ha raggiunto il livello più alto dagli ultimi decenni.

Di fronte a questa emergenza, il governo Letta si è trovato spesso bloccato negli arzigogoli burocratici: secondo l’Ufficio per il programma di governo - creato per monitorare l’attività dell’esecutivo - al 30 novembre 2013, dei 311 decreti attuativi richiesti dai 22 provvedimenti del governo Letta, 272 sono in attesa di attuazione. Una percentuale di realizzazione bassa, che riflette una maggioranza debole.

Dopo l’uscita di Forza italia lo scorso ottobre Letta dispone infatti di 368 deputati (dei 315 richiesti alla Camera) e 167 senatori (161 richiesti), senza contare la recente uscita dell’Udc di Casini e il terremoto dentro Scelta Civica. Inoltre, il travaglio interno al Partito democratico si rovescia sempre di più in Parlamento. Sulle 21 votazioni finali svoltesi al Senato dopo l’abbandono di Forza Italia sono 8 (il 38 per cento) le votazioni in cui alcuni senatori della maggioranza di governo hanno votato contro il proprio gruppo. Questa quota scende di poco (al 35 per cento) analizzando le votazioni finali passate alla Camera dei deputati. Tra i parlamentari “ribelli” quelli del Pd la fanno da padrone: sono il 75 per cento tra tutti i “ribelli” alla Camera e il 62 per cento al Senato.

A causare turbolenze i parlamentari cuperliani, che contano per il 60 per cento di tutti i “ribelli” del Pd, seguiti da renziani (25 per cento) e civatiani (15 per cento). Il dato è una conseguenza naturale del peso relativo del Pd nella maggioranza ma l’alta percentuale di cuperliani - in minoranza nei gruppi - mostrano che né Letta né il segretario del Pd, Matteo Renzi, sembrano riuscire a controllare completamente i propri parlamentari. E la situazione si fa anche peggiore nelle commissioni e durante le votazioni non definitive.

Lo spazio di manovra del governo è insomma ristretto, e la situazione è reso ulteriormente complicata dall’irrigidimento della disciplina di bilancio prevista dal cosiddetto Fiscal Compact, che prevede l’abbattimento del rapporto debito-Pil (oggi al 127 per cento) come principale obiettivo fiscale da parte dei governi fino al raggiungimento del 60 per cento in vent’anni - un obiettivo che implicherebbe per l’Italia risparmi tra i 40 e 50 miliardi annuali. Difficile abbattere il peso delle tasse sul lavoro e contemporaneamente aderire al fiscal compact.

“La ripresa è dietro l’angolo”, affermano da mesi i membri del governo e non importa quante volte questa frase venga ripetuta: rimane sempre, al fondo, la sensazione che si tratti di speranze più che di realtà.
- See more at: http://www.pagina99.it/news/politica/3766/Stallo-per-stallo--ecco-i.html#sthash.2EV2OWz0.dpuf
fonte: Pagina 99
Nasceva 289 giorni fa il governo guidato da Enrico Letta. Con la disoccupazione al 12,2 per cento (e quella giovanile al 38,6), il giorno dell’insediamento il “lavoro” era stato definita dal premier la principale priorità dell’esecutivo: «Bisogna ridurre le restrizioni ai contratti a termine, aiuteremo le imprese ad assumere giovani a tempo indeterminato in una politica generale di riduzione del costo del lavoro.»

289 giorni dopo, i risultati del governo sono magri: i dati sulla produzione industriale pubblicati dall’Istat mostrano che il rallentamento dell’economia non conosce soluzioni di continuità. A dicembre la produzione è calata dello 0,9 per cento, giù del 3 per cento dall’anno scorso. Confindustria ha calcolato che le tasse in Italia continuano a essere alte: al 42,3 per cento sul lavoro e al 65,8 per cento sugli utili d’impresa.

Sull’occupazione va persino peggio, con 12,7 persone senza lavoro su 100 (+0,5 punti percentuali dall’inizio del governo) e la disoccupazione giovanile al 41,6 per cento (+3 punti da maggio). E se lo spread tra Btp e Bund continua a calare, lo spread tra la disoccupazione tedesca e quella italiana ha raggiunto il livello più alto dagli ultimi decenni.

Di fronte a questa emergenza, il governo Letta si è trovato spesso bloccato negli arzigogoli burocratici: secondo l’Ufficio per il programma di governo - creato per monitorare l’attività dell’esecutivo - al 30 novembre 2013, dei 311 decreti attuativi richiesti dai 22 provvedimenti del governo Letta, 272 sono in attesa di attuazione. Una percentuale di realizzazione bassa, che riflette una maggioranza debole.

Dopo l’uscita di Forza italia lo scorso ottobre Letta dispone infatti di 368 deputati (dei 315 richiesti alla Camera) e 167 senatori (161 richiesti), senza contare la recente uscita dell’Udc di Casini e il terremoto dentro Scelta Civica. Inoltre, il travaglio interno al Partito democratico si rovescia sempre di più in Parlamento. Sulle 21 votazioni finali svoltesi al Senato dopo l’abbandono di Forza Italia sono 8 (il 38 per cento) le votazioni in cui alcuni senatori della maggioranza di governo hanno votato contro il proprio gruppo. Questa quota scende di poco (al 35 per cento) analizzando le votazioni finali passate alla Camera dei deputati. Tra i parlamentari “ribelli” quelli del Pd la fanno da padrone: sono il 75 per cento tra tutti i “ribelli” alla Camera e il 62 per cento al Senato.

A causare turbolenze i parlamentari cuperliani, che contano per il 60 per cento di tutti i “ribelli” del Pd, seguiti da renziani (25 per cento) e civatiani (15 per cento). Il dato è una conseguenza naturale del peso relativo del Pd nella maggioranza ma l’alta percentuale di cuperliani - in minoranza nei gruppi - mostrano che né Letta né il segretario del Pd, Matteo Renzi, sembrano riuscire a controllare completamente i propri parlamentari. E la situazione si fa anche peggiore nelle commissioni e durante le votazioni non definitive.

Lo spazio di manovra del governo è insomma ristretto, e la situazione è reso ulteriormente complicata dall’irrigidimento della disciplina di bilancio prevista dal cosiddetto Fiscal Compact, che prevede l’abbattimento del rapporto debito-Pil (oggi al 127 per cento) come principale obiettivo fiscale da parte dei governi fino al raggiungimento del 60 per cento in vent’anni - un obiettivo che implicherebbe per l’Italia risparmi tra i 40 e 50 miliardi annuali. Difficile abbattere il peso delle tasse sul lavoro e contemporaneamente aderire al fiscal compact.

“La ripresa è dietro l’angolo”, affermano da mesi i membri del governo e non importa quante volte questa frase venga ripetuta: rimane sempre, al fondo, la sensazione che si tratti di speranze più che di realtà.
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289 giorni dopo, i risultati del governo sono magri: i dati sulla produzione industriale pubblicati dall’Istat mostrano che il rallentamento dell’economia non conosce soluzioni di continuità. A dicembre la produzione è calata dello 0,9 per cento, giù del 3 per cento dall’anno scorso. Confindustria ha calcolato che le tasse in Italia continuano a essere alte: al 42,3 per cento sul lavoro e al 65,8 per cento sugli utili d’impresa.

Sull’occupazione va persino peggio, con 12,7 persone senza lavoro su 100 (+0,5 punti percentuali dall’inizio del governo) e la disoccupazione giovanile al 41,6 per cento (+3 punti da maggio). E se lo spread tra Btp e Bund continua a calare, lo spread tra la disoccupazione tedesca e quella italiana ha raggiunto il livello più alto dagli ultimi decenni.

Di fronte a questa emergenza, il governo Letta si è trovato spesso bloccato negli arzigogoli burocratici: secondo l’Ufficio per il programma di governo - creato per monitorare l’attività dell’esecutivo - al 30 novembre 2013, dei 311 decreti attuativi richiesti dai 22 provvedimenti del governo Letta, 272 sono in attesa di attuazione. Una percentuale di realizzazione bassa, che riflette una maggioranza debole.

Dopo l’uscita di Forza italia lo scorso ottobre Letta dispone infatti di 368 deputati (dei 315 richiesti alla Camera) e 167 senatori (161 richiesti), senza contare la recente uscita dell’Udc di Casini e il terremoto dentro Scelta Civica. Inoltre, il travaglio interno al Partito democratico si rovescia sempre di più in Parlamento. Sulle 21 votazioni finali svoltesi al Senato dopo l’abbandono di Forza Italia sono 8 (il 38 per cento) le votazioni in cui alcuni senatori della maggioranza di governo hanno votato contro il proprio gruppo. Questa quota scende di poco (al 35 per cento) analizzando le votazioni finali passate alla Camera dei deputati. Tra i parlamentari “ribelli” quelli del Pd la fanno da padrone: sono il 75 per cento tra tutti i “ribelli” alla Camera e il 62 per cento al Senato.

A causare turbolenze i parlamentari cuperliani, che contano per il 60 per cento di tutti i “ribelli” del Pd, seguiti da renziani (25 per cento) e civatiani (15 per cento). Il dato è una conseguenza naturale del peso relativo del Pd nella maggioranza ma l’alta percentuale di cuperliani - in minoranza nei gruppi - mostrano che né Letta né il segretario del Pd, Matteo Renzi, sembrano riuscire a controllare completamente i propri parlamentari. E la situazione si fa anche peggiore nelle commissioni e durante le votazioni non definitive.

Lo spazio di manovra del governo è insomma ristretto, e la situazione è reso ulteriormente complicata dall’irrigidimento della disciplina di bilancio prevista dal cosiddetto Fiscal Compact, che prevede l’abbattimento del rapporto debito-Pil (oggi al 127 per cento) come principale obiettivo fiscale da parte dei governi fino al raggiungimento del 60 per cento in vent’anni - un obiettivo che implicherebbe per l’Italia risparmi tra i 40 e 50 miliardi annuali. Difficile abbattere il peso delle tasse sul lavoro e contemporaneamente aderire al fiscal compact.

“La ripresa è dietro l’angolo”, affermano da mesi i membri del governo e non importa quante volte questa frase venga ripetuta: rimane sempre, al fondo, la sensazione che si tratti di speranze più che di realtà.
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