sabato 7 novembre 2015

Il sugo della storia

Giovanni Fighera mi ha fatto venire in mente un’idea bislacca. I Promessi sposi bisognerebbe iniziare a leggerli dalla fine, cioè dal capitolo in cui Alessandro Manzoni rifugge l’happy end e spiega che «il sugo della storia» non è un retorico «e vissero felici e contenti» e nemmeno un generico richiamo a comportarsi con decoro onde fuggire i guai, quanto piuttosto leggere tutto in una prospettiva di fede, unico criterio per accettare ogni cosa, anche in male, in un’ottica di metànoia e redenzione.

Sano e duro realismo cristiano, insomma. Ed è interessante, come lo stesso Fighera racconta nel suo recente Il matrimonio di Renzo e Lucia. Invito alla lettura dei promessi sposi (Itaca, già al Meeting di Rimini), che nessuno conosca il finale del capolavoro manzoniano. «Sulla base della mia esperienza personale – scrive Fighera, che nella vita è insegnante – posso affermare che ancora nessuno studente sia riuscito a riferirmi con esattezza l’epilogo, quando mi accingo ad affrontare Manzoni al triennio con ragazzi che dovrebbero aver già letto I promessi sposi al biennio. Le risposte che più si sono avvicinate, per la verità, sono state queste: “Il romanzo prosegue per poco e Renzo e Lucia hanno dei figli”, oppure: “I due protagonisti non sono così contenti”. Tutto qui?».

Il nostro collaboratore e appassionato docente ha ragione: tutto qui? Se fosse solo questo, cioè la narrazione di una parabola ascetica, in cui le vicende dei protagonisti suggeriscono al lettore una conclusione “moralista” – è il rimprovero che rivolge Lucia a Renzo nelle ultime pagine – I promessi sposi perderebbero tutto il loro fascino. 

Che, invece, come nota giustamente Fighera, risiede nell’illustrare come anche il male possa essere redento attraverso la fede e il sacrificio personale. Basta così poco, basta accettare il fatto che «Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia!» (Lucia all’Innominato). Basta, insomma, convertirsi, come sottolinea a più riprese il nostro, scavando nei due episodi centrali del romanzo, quello della Monaca di Monza e dell’Innominato, appunto.

Durante l’udienza generale in piazza San Pietro il 27 maggio, papa Francesco ha invitato i fedeli a non «lasciare da parte» I promessi sposi, un «capolavoro sul fidanzamento». Ne ha consigliato la lettura «ai giovani» così da imparare «la fedeltà» del rapporto amoroso. Senza togliere nulla al richiamo papale, l’invito andrebbe esteso anche a chi è già sposato. Anche lui ha bisogno di convertirsi ogni giorno. Anche lui ha bisogno di ricordare che ogni matrimonio non si regge solo su rettitudine e coerenza, ma anche su misericordia e perdono.

Da quanto si legge nell’ultima pagina del romanzo, comprendiamo che diverso è l’atteggiamento di Renzo e Lucia nei confronti degli eventi vissuti: quest’ultima, più discreta e meno moralista, mossa da una fede e da un abbandono totale al Mistero e a Dio, custodisce e medita l’accaduto in cuor suo senza eccessivi entusiasmi, mentre lo sposo racconta a chiunque le loro esperienze soffermandosi sulle lezioni imparate:

– Ho imparato… a non mettermi nei tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardar con chi parlo: ho imparato a non alzare troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che ne possa nascere.

Insomma, Renzo fa il moralista, si pone di fronte all’accaduto con uno sguardo tutto proteso su di sé più che sul Mistero di Chi fa tutte le cose, sforzandosi di migliorare e cambiare per non ripeter più gli errori commessi. La visione di Renzo appare agli occhi di Lucia parziale, in quanto perché l’esperienza ci insegna che spesso quanto accade non è conforme ai nostri progetti e alle nostre aspettative, anche quando il nostro comportamento è stato dettato dal buon senso:

– E io – disse un giorno al suo moralista – cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercare me. Quando non voleste dire – aggiunse, soavemente sospirando, – che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi.

Ebbene i due novelli sposi si mettono a discutere su questo punto e arrivano a una conclusione che l’anonimo decide di porre come «sugo» di tutta la storia, perché estremamente giusta e ragionevole, anche se partorita da povera gente. Il sugo della storia è il senso che dà sapore e significato all’intera vicenda.

È Manzoni stesso a rivelarlo:
I guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani, e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore.





fonte:Tempi.it

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