La lettura del libro biblico di Qoelet (in latino “Ecclesiaste”, cioè “colui che parla all’assemblea”), libro tanto breve quanto intenso, può provocare un senso di vertigine. Nessun altro scritto (biblico o extrabiblico) eguaglia infatti Qoelet nella sua impietosa descrizione della condizione umana, nella concezione della storia quale “teatro dell’assurdo”, quale luogo del non-senso in cui tutto si ripete uguale, senza un direzione, senza una meta finale. Da questo punto di vista, Qoelet è molto vicino alla sensibilità moderna: il pessimismo che attraversa l’opera è analogo a quello delle moderne correnti esistenzialiste; anzi, per certi aspetti, il pessimismo di Qoelet è ancor più radicale. Tutto il libro è attraversato da un ritornello che si ripete dall’inizio alla fine con insistenza: “Vanità delle vanità, tutto è vanità”: questa è la conclusione a cui il sapiente inevitabilmente perviene ogni volta che si accinge a riflettere sulla realtà umana. Nella prospettiva di Qoelet non sembra esserci spazio per la speranza, l’orizzonte è chiuso nella realtà terrena e tutto pare profondamente insignificante, un enorme vuoto, uno spaventoso nulla a cui non c’è rimedio. “Vanità” (così solitamente traduciamo il termine ebraico “havel”) può essere reso in italiano anche come “nulla”: in ebraico, infatti, non esiste una parola corrispondente al nostro “nulla”; per esprimere il concetto del “nulla” alla letteratura ebraica non rimaneva allora che utilizzare immagini “positive” e concrete, e l’immagine prediletta dall’autore biblico per rappresentare il vuoto e l’inconsistenza della vita è quella dell’“havel”, ossia del vento, della brezza mattutina, della schiuma bianca che lasciano le imbarcazioni quando solcano il mare.
Tutto è vanità, tutto inconsistenza, tutte le occupazioni umane sono un inseguire il vento. “Quale profitto per l’uomo in tutta la sua fatica e in tutto l’affanno con cui si affatica sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e preoccupazioni penose; il suo cuore non riposa neppure di notte” (2, 22-23). Neanche la sapienza, a cui Qoelet ha dedicato l’intera sua esistenza, costituisce un rimedio per l’uomo, anch’essa è vanità ed è come inseguire il vento, perché “molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere, aumenta il dolore” (1, 18). La sapienza, per l’autore biblico, è fonte di sofferenza, poiché mostra l’assurdità del vivere, eliminando quelle illusioni che rendono all’ignorante più sopportabile il peso della vita. Allora tanto vale darsi al divertimento, al godimento – pensa per un momento Qoelet - ma anche questo alla fine si rivela vano, insignificante. Dopo aver tutto sperimentato nella vita (la fatica del lavoro, i piaceri della casa, il lusso, le donne, la sapienza e la follia), ecco il risultato: “Ho preso in odio la vita, perché mi è sgradito quanto si fa sotto il sole” (2, 17).
La condizione dell’uomo è addirittura peggiore rispetto a quella delle bestie: queste, infatti, muoiono come quello, senza tuttavia rendersi conto dell’assurdità della vita. “Non esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità. Tutti sono diretti verso la medesima dimora. Chi sa se il soffio vitale dell’uomo salga in alto e se quello della bestia scenda in basso nella terra?” (3, 19-21). Tutto l’orizzonte umano si esaurisce così nella prospettiva di questo mondo; per Qoelet non c’è aldilà e quindi non c’è neanche retribuzione per le opere buone o cattive commesse in vita. Lo stolto e il saggio condividono la stessa sorte (“Anche a me toccherà la sorte dello stolto! Allora perché ho cercato d’esser saggio? Dov’è il vantaggio?”) né c’è giustizia o consolazione per i poveri e gli oppressi. Dio è lontano, non può venir in aiuto alle nostre pene, “perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra” (5, 1). Non si giunge dunque alla negazione di Dio, ma solo alla conclusione che l’uomo deve cavarsela da solo, non potendo contare su Dio per risolvere i suoi problemi. Anche da questo punto di vista Qoelet è molto “moderno”: la stragrande maggioranza delle persone oggi afferma di credere in Dio, eppure vive come se Dio non esistesse; ripudia cioè l’ateismo “teorico” ma non quello “pratico”.
Da dove potrà venire allora la salvezza? Dal denaro? “Chi ama il denaro, mai si sazia di denaro e chi ama la ricchezza non ne trae profitto. Anche questo è vanità” (5, 9). Tentazione del denaro è l’avarizia e l’avidità. Inoltre il ricco, quando muore, “dalle sue fatiche non ricaverà nulla da portar con sé” (5, 14). Forse che la salvezza può venire dalla politica? No davvero. La politica, per Qoelet, è una grande menzogna: si presenta agli uomini ammantata di alte idealità, ma nella sostanza si riduce a vile gioco di potere, a sistema di sopraffazione in cui l’autorità superiore sfrutta quella inferiore e questa a sua volta opprime il popolo. Questo mostro che è la politica si nutre altresì dell’idealismo degli ingenui, ragion per cui Qoelet mette in guardia gli sprovveduti dall’andare appresso ai sogni, perché “dai molti sogni provengono molte delusioni e molte parole” (5, 6). Occorre infine star molto attenti alle lusinghe dei “giovani” che si affacciano sulla scena politica, facendosi portatori di cambiamento e di novità: questi – ammonisce Qoelet – una volta al potere si comporteranno come o addirittura peggio dei loro predecessori. Ad occupare i posti di potere sono infatti sempre i peggiori, mentre il consiglio del saggio non viene mai ascoltato dai potenti. Nella sua radicale antipolitica Qoelet è più moderno di quanto forse fino ancora a qualche decennio fa avremmo potuto immaginare.
Cosa rimane allora all’uomo, dove riporrà la sua speranza? Quale ragione per vivere? Sconcertante la risposta di Qoelet: “Allora ho proclamato più felici i morti, ormai trapassati, dei viventi che sono ancora in vita; ma ancora più felici degli uni e degli altri chi ancora non è” (4, 2). Il nichilismo più completo, che vede nella vita una sciagura e nella morte o addirittura nel non essere mai nati la più grande delle benedizioni. Altro che la vita come dono di Dio! Eppure, queste parole così dure sono presentate ai credenti dalla religione ebraica prima e cristiana poi come parola di Dio (d’altro canto la canonicità dell’Ecclesiaste, a differenza di altri testi biblici, non è stata mai messa in discussione, né dagli ebrei né dai cristiani). Quale insegnamento potremmo dunque trarne in una prospettiva di fede? Sicuramente gli insegnamenti di Qoelet rappresentano uno stimolo a porci le domande “vere”, a coltivare una fede profonda, che non si accontenta di risposte facili e dal sapore consolatorio. Ma c’è di più: l’analisi impietosa condotta da Qoelet si pone in più punti in antitesi alla sapienza “classica” di Israele, evidenziandone i limiti e le contraddizioni. Qoelet è un libro sapienziale che paradossalmente conduce una critica serrata a tutta la sapienza vetero-testamentaria. Sembra quasi che l’Antico Testamento contenga in sé i germi del suo superamento. Il sapere antico ha dei limiti evidenti, non riesce a spiegare in profondità i misteri e a rispondere pienamente alle attese del cuore umano. Qoelet, senza saperlo, guarda già a Gesù Cristo: con la sua Resurrezione tutti gli interrogativi posti da questo libro troveranno risposta, tutte le inquietudini del saggio avranno soluzione. Senza Cristo, invece, si riprende a girare a vuoto, come torna a fare il mondo moderno nel suo ossessivo rifiuto del cristianesimo. Sarà per questo che Qoelet, agli occhi dei moderni, è così attuale?
fonte: La Perfetta Letizia, Bartolo Salone, 2012
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