Nel 1516, cinquecento anni fa, veniva pubblicata un'opera destinata ad essere non solo un capolavoro immortale, ma anche a costituire un vero e proprio paradigma in campo letterario, filosofico e politico. Utopia era uscita dalla fervida mente dell'inglese sir Thomas More, in italiano Tommaso Moro.
Colui che in quel momento era uno degli umanisti più in vista d'Europa, consigliere del Re d'Inghilterra Enrico VIII, brillante avvocato e raffinato intellettuale pubblicò un romanzo scritto in lingua latina in cui descrive un'isola immaginaria, una società ideale. Moro derivò il termine dal greco antico con un gioco di parole fra ou-topos (cioè non-luogo) ed eu-topos (luogo felice); utopia è quindi, letteralmente un "luogo felice inesistente". Il grande umanista dipinse un opposto idealizzato della società sua contemporanea, che egli sottopose a una satira sottile. La parola Utopia da allora entrò nel lessico comune con il significato di sogno, di progetto, di immaginazione proiettata sul futuro.
Eppure Moro era tutt'altro che un sognatore, che un uomo in fuga dalla realtà. Era un uomo estremamente concreto, abituato ad affrontare l'esistenza propria e degli altri, le persone della sua famiglia, coloro i cui casi giudiziari gli erano affidati e che per lui erano sempre prima di tutto persone, e non appunto "casi". Un uomo che si prendeva cura della vita pubblica, della politica, del bene comune dei suoi concittadini inglesi. Un uomo caratterizzato da una profonda, intensa fede, che anni dopo lo avrebbe portato al patibolo, vittima di quel re che aveva fedelmente servito ma che non seguì nella sua rottura con Roma, con la Chiesa universale.
Virtù che secoli dopo sarebbero state riconosciute dalla Chiesa stessa, dopo che lo erano state dal piccolo gregge cattolico di Inghilterra, perseguitato a lungo. Nel 1935 Tommaso Moro venne canonizzato e anni dopo un altro papa, san Giovanni Paolo II, lo avrebbe proclamato santo protettore dei politici, una categoria di persone che effettivamente ha un enorme bisogno di protezione sovrannaturale, in primo luogo per sfuggire alle tentazioni del potere cui sono sottoposti, e nei confronti dei quali si rivelano debolissimi nella propria resistenza, con conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Un santo dunque, l'autore di una chimera letteraria, filosofica, politica?
La parola utopia in effetti non sembrerebbe appartenere strettamente al "gergo" della Chiesa, che usa terminologie molto concrete per definirsi e per definire la propria missione: popolo, gregge, corpo stesso di Cristo. Il Cristianesimo nasce a partire da un fatto, un avvenimento assolutamente concreto: il farsi carne di Dio in un bambino, Gesù, nonché nella passione, morte e resurrezione di quest'ultimo. Se tuttavia è vero che la parola utopia è molto usata nell'ambito politico e culturale, presenta anche alcuni aspetti religiosi molto importanti. Un'utopia (il cui significato è letteralmente non luogo, un luogo che non c'è) è un assetto politico, sociale nonchè religioso che non trova riscontro nella realtà, ma che viene proposto come ideale e come modello. Indica una meta intesa come puramente ideale e non effettivamente raggiungibile; in questa accezione, può avere sia il connotato di punto di riferimento su cui orientare azioni praticabili, sia quello di mera illusione e di ideale irraggiungibile.
L'utopista - sia come coniatore di utopie, sia come semplice propugnatore, sia come pensatore utopico critico - può quindi essere tanto colui che costruisce le sue ipotesi ideologiche prescindendo dalla realtà - come Lenin, che affermava che se le sue idee non coincidevano con la realtà, tanto peggio per la realtà- quanto colui che indica un percorso che ritiene al contempo auspicabile e pragmaticamente perseguibile. Nell'uso comune, utopia e utopismo sono spesso associati a pensieri e comportamenti velleitari. Molto spesso anche il Cristianesimo viene indicato come un'"utopia". La via mostrata da Cristo sarebbe troppo "alta", impraticabile, e quindi utopica, così come una società fondata sui princìpi cristiani. Eppure il termine utopia fu coniato da un santo, un martire, Tommaso Moro, che per difendere i suoi ideali, che erano realtà ben concrete, finì sul patibolo. Ideali concreti, e non sogni o visioni ideologiche: la verità, la giustizia, il bene comune del popolo, l'unità della famiglia. Moro aveva compreso con straordinaria lucidità dove avrebbe portato la strada aperta dal suo ambizioso sovrano: all'esatto contrario di un "luogo buono" in cui vivere, ma ad un paese oppresso da una feroce oligarchia che per egoismo si sarebbe fatta beffe dei valori per cui Moro si battè fino alla morte, pur di non venir meno alla verità.
Quelli in cui Moro pubblicava il suo romanzo erano anni fervidi, anni che precedettero eventi eccezionali e drammatici per la storia europea e del mondo: Erasmo da Rotterdam aveva appena scritto - nel 1511- l'Elogio della Follia, un'opera peraltro dedicata allo stesso Moro, e nel 1513 Machiavelli redasse Il Principe, manifesto del pragmatismo politico, dove il fine giustifica i mezzi. Infine, un anno dopo Utopia, nel 1517, Martin Lutero pubblicò le sue tesi, e diede inizio alla Riforma. Si apriva così una stagione non solo religiosa, ma anche politica, che avrebbe sconvolto per sempre gli scenari europei.
"Quando penso in cuor mio a tutte le repubbliche che oggi fioriscono ovunque, Dio mi aiuti, non vedo che cospirazioni dei ricchi per curare i propri interessi privati con il pretesto di fare quelli pubblici. Escogitano e inventano ogni genere di stratagemma , in primo luogo per conservare senza timori quel che hanno ingiustamente accumulato, secondariamente per abusare del lavoro e della fatica dei poveri con la minor spesa possibile. Poi gli stessi ricchi decidono che questi stratagemmi devono essere adottati e rispettati per il bene dello Stato, ossia anche della povera gente, e quindi ne fanno delle leggi".
Così scriveva Tommaso Moro nelle ultime conclusive pagine di Utopia. Ancora una volta una visione tristemente anticipatrice, profetica.
La cupidigia sembra essere il grande male – all'origine di ulteriori mali. contro cui lottare anche oggi.
Lo aveva ben colto un attento lettore di Moro come Gilbert K. Chesterton, che agli inizi del '900 scrisse alcuni romanzi apparentemente surreali, come La sfera e la croce, Il Napoleone di Notting Hill, Manalive, e soprattutto L'osteria volante dove immagina un Inghilterra del XXI secolo dominata da un potere di tipo massonico che si avvale della collaborazione di ambienti islamici – una sorprendente distopia mitigata da quello straordinario umorismo per cui il celebre convertito può essere considerato il miglior erede di Moro.
Chesterton paventava l'avvento di "masse di uomini devoti al Nulla, diventati schiavi senza un padrone". Per Chesterton si sarebbe riconosciuta questo nuovo ordine per le offese recate a Dio e all'uomo, alla morte e alla vita, entrambe rese un nulla . Da questo si sarebbe capito che la barbarie era in arrivo.
Mentre nella prima metà del '900 andavano realizzandosi i peggiori incubi di società tiranniche, ingiuste, oppressive, Chesterton pensò alla possibilità di realizzare forme di civiltà come quella descritta da Moro. Anche e soprattutto per questo motivo fondò il movimento Distributista. In occasione di una manifestazione celebrativa di Tommaso Moro tenutasi a Londra, nel Santuario di Beaufort Street nel 1929, Chesterton scrisse: "Il beato Thomas More è più importante oggi che in qualunque altro tempo fin dalla sua morte, forse anche più che del grande momento del suo morire, ma non è ancora così importante come sarà tra un centinaio di anni."
Dalla vita e dal martirio di san Tommaso Moro scaturisce un messaggio che attraversa i secoli e parla agli uomini di tutti i tempi della dignità inalienabile della coscienza, nella quale, risiede il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nella sua intimità.
Quando questo richiamo della verità viene ascoltato, allora la coscienza orienta con sicurezza i loro atti verso il bene.
Tommaso Moro morì testimoniando che c'è un bene più grande di ogni potere e ogni successo mondano per cui vale la pena dare la vita. Dava la vita per i propri amici, per la propria famiglia, per il proprio povero paese che stava a sua volta per andare incontro a un bagno di sangue.
Il 6 luglio 1535 venne decapitato.
Le cronache riportarono il modo in cui si avviò al supplizio: con animo sereno, con fede pronta, con umorismo, con grazia.
Paolo Gulisano (fonte:uomovivo.blogspot.it)
Nessun commento:
Posta un commento