Suo padre era arrivato a Milano dalla bassa bresciana per fare il muratore e con orgoglio aveva guardato a quel figlio che a 17 anni, grazie a una borsa di studio del programma Intercultura, aveva preso per la prima volta l'aereo per andare dall'altra parte del mondo, in una cittadina rurale a 50 chilometri da Seattle. Quel figlio che dopo essersi laureato alla Bocconi, primo della famiglia ad andare all'università, lo aveva reso orgoglioso lavorando alla Apple in Europa per poi tornare sulla Costa del Pacifico e salire fino ai vertici della prima azienda di commercio digitale del mondo. Ma l'ultima decisione del suo ragazzo, ormai cresciuto e con i capelli grigi, proprio non l'aveva capita: tornare in Italia, a Roma per giunta, per lavorare nella pubblica amministrazione. Diego Piacentini, 55 anni, di cui 13 in Apple e 16 ad Amazon, è stato nominato ieri dal governo Commissario straordinario per il digitale.
Quella di Piacentini è una scelta rivoluzionaria, un super cervello che torna, uno dei massimi esperti di architetture digitali che scommette su una missione di semplificazione massima: "Rendere i servizi pubblici per i cittadini accessibili nel modo più semplice possibile attraverso i dispositivi mobili". Ma anche una scelta che ha sollevato a sinistra perplessità e malumori, in chi vede in questo incarico un conflitto d'interessi e si interroga su cosa possa aver spinto uno dei manager più prestigiosi del mondo ad accettare un incarico governativo a Roma e a prendere due anni di aspettativa da Amazon.
Partiamo dalle contestazioni: i critici sostengono che lei, il secondo più grande azionista di Amazon dopo il fondatore Jeff Bezos, non possa occupare un posto pubblico.
"Prima di tutto smentiamo immediatamente che io sia il secondo azionista, visto che non lo sono: io sono il secondo dipendente con più azioni. Sono un manager di Amazon che nel tempo ha accumulato 84mila azioni. Che significa 0,000017 per cento".
Come ha accumulato queste azioni?
"La filosofia di Amazon è di dare uno stipendio base con un massimo di 170mila dollari annui, poi a seconda del ruolo e della performance vengono assegnate azioni periodicamente".
Due giorni prima di andare in aspettativa da Amazon ha esercitato un diritto maturato comprando e vendendo un pacchetto di azioni, continuerà a farlo durante il suo incarico italiano?
"Ogni trimestre abbiamo un piano di vendita predeterminato e regolamentato della Sec (la Consob americana), in cui si definisce in anticipo la data di vendita delle azioni e questo per evitare insider trading. In questi due anni sarò in congedo e così sono sospese anche le azioni che avrei dovuto ricevere. Allo stesso modo ho sospeso ogni piano di vendita".
Il suo incarico dice che lei lavorerà gratis.
"Sì, senza alcun tipo di stipendio, pro bono, zero. Ho rinunciato anche ai rimborsi spese, niente vitto e alloggio, pago tutto con la mia carta di credito personale".
Perché?
"Nei miei sedici anni negli Stati Uniti sono stato contagiato da un'idea forte, quella di restituire al proprio Paese, alla propria scuola, alla propria università. E' il concetto del "Give back". Appena arrivato a Seattle nel 2000 venni invitato ad una cena di beneficenza organizzata dalla scuola elementare pubblica in cui avevamo iscritto il figlio più grande. Mia moglie, che a Milano l'anno prima aveva raccolto 800mila lire per l'asilo, era molto curiosa. Restammo sconvolti quando sotto i nostri occhi vennero raccolti 170mila dollari per finanziare le attività scolastiche. Uno dei commensali ci disse: è quasi un obbligo morale: hai avuto successo e restituisci a chi ti ha formato".
Certo è difficile credere che uno lasci Amazon per venire qui e per giunta gratis.
"Capisco, perché quando l'ho detto ai miei genitori anche loro erano perplessi, mi aspettavo una reazione di entusiasmo e invece hanno cominciato a chiedermi: "Davvero? Ma in che cosa ti stai andando a cacciare? In un mare di guai, tanto non si riesce a cambiare niente...". Quando poi gli ho detto che non avrei guadagnato nulla allora la perplessità si è trasformata quasi in fastidio e scetticismo. Hanno scrollato la testa e bofonchiato: "Sicuramente ti daranno qualcos'altro".
Se fa fatica a capire sua madre, allora ne hanno diritto anche i parlamentari che hanno presentato un'interrogazione sulla sua nomina.
"Infatti non mi irrito più per la cultura del sospetto, perché l'ho visto fare ai miei genitori... Ho capito che l'idea di restituire non appartiene al nostro dna, ma forse il mio caso può aiutare l'Italia a cambiare mentalità".
Qualche altro sospetto: Bezos l'ha lasciata andare perché aiuterà gli affari di Amazon in Italia.
"Con tutto rispetto per il nostro Paese e per la bravura di chi ci lavora, Amazon in Italia esiste solo da 6 anni ed è una quota davvero molto piccola del fatturato mondiale, la mia presenza non ha proprio nessun impatto".
Ma i possibili conflitti d'interesse restano.
"Il mio ruolo non ha a che vedere con legislazioni e politiche e nemmeno con le centrali di acquisto, non devo fare contratti di forniture. Non vedo dove possano essere i conflitti d'interesse".
E quindi cosa è venuto qui a fare?
"Sono venuto con l'obiettivo di rendere la vita più semplice ai cittadini, semplificando il rapporto con le Istituzioni, e per far sì che la macchina dello Stato sia in grado di usare le tecnologie come accade in Gran Bretagna o negli Stati Uniti. Un rapporto semplice tra Stato e cittadino è condizione necessaria per sviluppo economico, perché stimola gli investimenti anziché frenarli".
Come è nata l'idea di venire a Roma?
"Da un incontro con Matteo Renzi nel settembre 2014. Era venuto a visitare la Silicon Valley e mi disse: "Vorrei aiutare il Paese a non perdere il treno dell'innovazione e del digitale, saresti disposto a tornare per un periodo in Italia?" Ringraziai e declinai e per me era finita lì. Dopo qualche mese mi telefonò e tornò alla carica, nel frattempo il dubbio si era insinuato in me. Così ho cominciato a parlarne con mia moglie e con Bezos, con il quale ho un rapporto non solo di lavoro ma di lealtà e amicizia. Allora mi sono fatto una sola domanda: "Cosa rimpiangerò di non aver fatto tra 10 anni?". Ho capito che mi sarei portato dietro il rimpianto di non averci provato".
Quanto tempo si è dato?
"Due anni. Non per terminare un progetto ma per creare un sistema che permetta il cambiamento e duri nel tempo e per provare a far nascere una nuova mentalità".
E se Renzi cadesse prima?
"Complicherebbe un po' la situazione, ma il sistema che si deve creare è indipendente da chi è il primo ministro: è per il Paese non per il premier anche se è Renzi che mi ha convinto a venire".
Primi passi?
"Da due o tre anni è avviato un cammino: c'è il codice dell'amministrazione digitale, l'agenda europea digitale ma soprattutto una nuova consapevolezza. Si è cominciato a creare l'identità digitale del cittadino, con la quale poter accedere alle centinaia di servizi dello Stato. È da migliorare, da distribuire, si devono costruire tutti i servizi dove usarla e la maggior parte della popolazione ancora non lo sa, ma è un passo fondamentale".
In cosa consiste?
"Ognuno di noi avrà un'identità sempre aggiornata. Non ho bisogno di dimostrare che esisto, sono nato, sono sposato o dove abito. Oggi devi certificare o autocertificare ancora troppe cose, ma se l'anagrafe è costruita con tecnologie che tutte le amministrazioni pubbliche condividono, allora non devi più certificare di esistere e tutto diventa accessibile e aperto".
Come ha trovato la pubblica amministrazione italiana?
"Le leggo cosa ho scritto nel bando per reclutare talenti informatici che vengano a lavorare con noi: "Bisogna sapere che ci troveremo di fronte a burocrazie, regole complicate, a tecnologie obsolete e a una mancanza di coordinamento, ma anche a isole di eccellenza in grado di ottenere molto con poche risorse".
Dove sono queste isole di eccellenza?
"Per me è stata una sorpresa positiva trovare gruppi di alto livello tecnologico nella pubblica amministrazione italiana, penso alla Sogei o al Poligrafico dello Stato, per fare due esempi. Ho incontrato ragazzi che troverebbero subito posto nella Silicon Valley e che avrebbero successo in un batter d'occhio".
Che squadra vuole costruire?
"Un gruppo di una ventina di persone di altissima competenza tecnologica, una sorta di startup all'interno di una macchina antica come l'amministrazione statale. Il nostro ufficio sarà a Palazzo Chigi".
Quanto pagherete gli esperti digitali per convincerli a venire a Roma?
"Abbiamo un tetto massimo di 150.000 euro l'anno per le posizioni tecniche più esperte ma la maggior parte dei ruoli saranno remunerati tra i 40 e 120.000 euro".
Perché nel bando ha scritto che "occasionalmente si dovrà essere eleganti ma normalmente ci si può vestire anche in modo sportivo"?
"Perché uno sviluppatore nemmeno si avvicina se pensa di dover lavorare in giacca e cravatta, allora deve sapere che può venire con le scarpe da tennis, certo non in ciabatte come in California... Siamo pur sempre a Palazzo Chigi".
E questo Palazzo com'è?
"È il primo posto che ha bisogno di una trasformazione tecnologica. Come in molti uffici e luoghi pubblici italiani c'è un problema di wi-fi, mi sono reso conto in queste prime settimane quanto sia penalizzante per chi lavora in Italia non avere accesso alla banda larga in modo continuativo e quotidiano".
Lei ha lavorato con Steve Jobs, cosa ha imparato da lui?
"La capacità di individuare le cose importanti, focalizzarci sui punti fondamentali all'interno di un sistema complesso".
E dal fondatore di Amazon Jeff Bezos?
"Che non esiste nulla che non si può cambiare. Per riuscirci bisogna creare le condizioni: assumere le persone più preparate, fare gli investimenti giusti, guardare sempre avanti, diffondere una cultura nuova anche nei gesti quotidiani e non perdere tempo a fare convegni".
C'è qualcosa che accomunava Jobs e Bezos?
"Sì, ho imparato da entrambi l'importanza di essere diretti con le persone, di dire davvero quello che si pensa, senza finzioni. Anche se Bezos è più gentile. Steve a volte era davvero duro e, diciamo, poco educato. Ma era un autentico genio".
Ha detto che questa squadra digitale che sta nascendo è come una startup, che percentuali di successo vede?
"Le percentuali di successo di una startup sono tra l'uno e il cinque per cento, mi auguro di avere qualche possibilità in più, perché se ci riusciamo allora il cambiamento per l'Italia sarà davvero notevole".
Momenti di pentimento in queste prime settimane romane?
Piacentini si toglie gli occhiali e strizza gli occhi da miope, ci pensa un po' e sospira: "A Seattle mi sarei sicuramente divertito a inventare cose nuove, ma un giorno mi
sarei guardato allo specchio e avrei detto: "Ma perché non ci ho provato?". Meglio correre il rischio di non farcela che rimpiangere di non aver avuto il coraggio".
Suo padre ora non c'è più, ma probabilmente sarebbe stato di nuovo d'accordo.
fonte: La Repubblica
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