Quando Matteo Renzi partì per la sua avventura, Europa scrisse
che sulle sue spalle cadevano due compiti. Il primo era quello di
presidiare per conto del Pd la frontiera durissima della rabbia contro i
partiti cercando di far rifluire nell’alveo del voto (e del voto per il
centrosinistra) tutto ciò che è distacco, rifiuto oppure attrazione per
Grillo. L’altro compito era dare forza, sostanza e rappresentanza a una
linea liberal che nella sinistra c’è sempre stata (in minoranza) e che
aveva avuto un ruolo protagonista nella fondazione del Pd prima di
essere ricacciata nella sua tradizionale marginalità.
Dei due compiti, solo il primo viene davvero svolto. Un po’ per calcolo, un po’ per adeguarsi allo “spirito unitario” di questa campagna di primarie, Renzi ha ammorbidito le posizioni che l’avrebbero portato a più duro contrasto con la sinistra del centrosinistra.
L’ostilità verso Casini, Monti e Fornero sono solo espressioni tattiche di questa scelta. Quando si paragona il sindaco di Firenze a Tony Blair si dimentica che il New Labour si affermò dopo uno scontro senza rete contro l’influenza delle Unions sul partito. In queste settimane Renzi s’è ben guardato anche solo dal citare genericamente i sindacati, non diciamo poi la Cgil o Camusso: non perché si illuda di ricevere qualche voto da lì, ma perché sa – D’Alema docet – che nel centrosinistra chi tocca quei fili si ustiona.
In questo modo si è ridimensionata una delle potenzialità rivoluzionarie della candidatura, in compenso possiamo salutare – cosa cruciale per l’elettorato Pd – il clima unitario del confronto su Sky. E il sindaco può reggere senza altri patemi l’altro fronte, quello che potremmo definire del rovesciamento della casta dall’interno invece che dall’esterno.
È una battaglia alla quale Renzi è naturalmente portato, infatti la conduce bene con notevoli effetti (chiedere a Veltroni e D’Alema). Inoltre è un ruolo che lo rende più complementare che bruscamente alternativo rispetto a Bersani, come invece sarebbe stato se il sindaco avesse provato a «toccare quei fili»: una spia che forse ci anticipa qualcosa a proposito del dopo- primarie.
Dei due compiti, solo il primo viene davvero svolto. Un po’ per calcolo, un po’ per adeguarsi allo “spirito unitario” di questa campagna di primarie, Renzi ha ammorbidito le posizioni che l’avrebbero portato a più duro contrasto con la sinistra del centrosinistra.
L’ostilità verso Casini, Monti e Fornero sono solo espressioni tattiche di questa scelta. Quando si paragona il sindaco di Firenze a Tony Blair si dimentica che il New Labour si affermò dopo uno scontro senza rete contro l’influenza delle Unions sul partito. In queste settimane Renzi s’è ben guardato anche solo dal citare genericamente i sindacati, non diciamo poi la Cgil o Camusso: non perché si illuda di ricevere qualche voto da lì, ma perché sa – D’Alema docet – che nel centrosinistra chi tocca quei fili si ustiona.
In questo modo si è ridimensionata una delle potenzialità rivoluzionarie della candidatura, in compenso possiamo salutare – cosa cruciale per l’elettorato Pd – il clima unitario del confronto su Sky. E il sindaco può reggere senza altri patemi l’altro fronte, quello che potremmo definire del rovesciamento della casta dall’interno invece che dall’esterno.
È una battaglia alla quale Renzi è naturalmente portato, infatti la conduce bene con notevoli effetti (chiedere a Veltroni e D’Alema). Inoltre è un ruolo che lo rende più complementare che bruscamente alternativo rispetto a Bersani, come invece sarebbe stato se il sindaco avesse provato a «toccare quei fili»: una spia che forse ci anticipa qualcosa a proposito del dopo- primarie.
Stefano Menichini, Europa, 16 novembre 2012
Mi è capitato in queste settimane di sostegno militante a Matteo di
attraversare molti stati d’animo: dal fastidioso senso di isolamento che
si vive nel “palazzo” (il mio gruppo conta più di duecento membri,
apertamente a sostegno di Renzi siamo meno di dieci) all’esaltazione del
rapporto con i cittadini, con le piazze, con i teatri sempre strapieni
che qualsiasi iniziativa del sindaco di Firenze ha prodotto in chi l’ha
vissuta da vicino.
L’analisi di Menichini pecca per un elemento: valuta correttamente lo spirito appassionato dei cittadini, in gran maggioranza giovani, che si riavvicinano alla politica grazie alla battaglia di Matteo, sfuggendo così alla tentazione populista di Grillo; non spiega invece perché nelle quattro mura recintate del Pd, dei suoi dirigenti e rappresentanti istituzionali, la diffidenza verso Renzi sia così plateale.
L’analisi di Menichini pecca per un elemento: valuta correttamente lo spirito appassionato dei cittadini, in gran maggioranza giovani, che si riavvicinano alla politica grazie alla battaglia di Matteo, sfuggendo così alla tentazione populista di Grillo; non spiega invece perché nelle quattro mura recintate del Pd, dei suoi dirigenti e rappresentanti istituzionali, la diffidenza verso Renzi sia così plateale.
Il direttore di Europa, come molti osservatori, pensa che la
diffidenza derivi da mere questioni relative a equilibri di potere
infranti dalla sola presenza della candidatura di Matteo Renzi. Non è
così. Quel che mette paura al corpaccione della dirigenza democratica è
proprio l’istanza politica che arriva dalla Leopolda: un’istanza che
trasformerebbe in tutta evidenza la natura stessa del Partito
democratico e a questa trasformazione il tradizionalismo antico che
definirei proprio tradeunionista del Pd oppone la sua naturale
resistenza.
Durante il confronto televisivo Matteo Renzi è stato l’unico a
parlare esplicitamente di abbassamento della pressione fiscale, mentre
gli interventi di Bersani e Vendola puntavano tutto sull’attacco ai ceti
medio alti; Matteo Renzi si è detto esplicitamente d’accordo con la
riforma Fornero delle pensioni, non è un mistero che la maggioranza
bersaniana del gruppo parlamentare del Pd punta a una controriforma per
tornare alle quote; Matteo Renzi ha usato la parola chiave del “merito”
per tutta la sua campagna di queste primarie, quando a Bersani è stato
chiesto esplicitamente di parlare di meritocrazia ha voluto subito
precisare che per lui il valore cardine è l’uguaglianza ed è noto che
per l’area dei Giovani turchi la meritocrazia è valutata come una
bestemmia in chiesa; Matteo Renzi ha parlato con la finanza, tra gli
interventi di apertura alla Leopolda c’è stato quello di Davide Serra,
da Bersani e Vendola sono arrivati insulti; sempre alla Leopolda ha
parlato Pietro Ichino e Matteo Renzi ha twittato che c’è più sinistra
nelle ricette sul lavoro di Ichino che in mille convegni.
Potrei continuare in materia di politiche culturali, di spinta alla
ricerca e all’innovazione tecnologica, di gestione delle risorse
pubbliche, di rapporto con l’Europa e i suoi fondi: in ogni territorio
programmatico Matteo Renzi ha proposto e ripetuto e quasi gridato
ricette politiche estremamente innovative rispetto al mortorio della
sinistra tradizionale tradeunionista.
Io il 25 novembre non voterò Matteo Renzi perché ha proposto la
rottamazione o perché in qualche momento girando con lui per le piazze
d’Italia mi sono emozionato e riappassionato alla politica. Sarebbero
ragioni importanti ma superficiali. Io il 25 novembre voterò Matteo
Renzi perché la sua proposta politica per il paese è la più adeguata ai
tempi e trasforma radicalmente in meglio il modo di intendere la parola
“sinistra”. La sua sfida è legata alla radice originaria profonda
dell’intuizione del Pd del 2007. La sua vittoria la realizzerà
pienamente.
Mario Adinolfi, Europa, 17 novembre 2012
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