Dal Foglio del 13 maggio 2003:
Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52
da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani
combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche.
Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era
un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario
Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti
al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.
Vive a Mosca dal ’58 al ’61, dove il padre è
corrispondente dell’Unità. Tornerà a Mosca nel 1990, a regime in
dissoluzione (lui ama i regime change) e otto anni dopo essere uscito
dall’apparato comunista, al seguito di una moglie americana che lavora
nel cinema (una settimana di turismo). Mai stato in un paese socialista
dopo il ’61 nonostante dieci anni di carriera come funzionario del Pci.
Le vacanze a Capri o a Parigi, invece che da Ceausescu, sono una specie
di blasone.
Ritorno da Mosca, 1961. Scuola pubblica. Primi
amori. Educazione sentimentale piuttosto occidentale. Ma dalla storia di
Garibaldi che gli raccontava il papà, versione allegramente frontista
(Fronte vince, vota Garibaldi: cose del 1948), il fanciullo trae forte
spinta ideologica comunista-nazionale. Maturità classica. Primo viaggio a
New York al seguito del fratello, aiuto regista di Luca Ronconi
nell’Orlando Furioso in trasferta (è il novembre del 1970, “quando morì
Charles de Gaulle” è il ricordo dell’adolescente che conosce tutto Dylan
a memoria e ama i politici forti).
Iscrizione all’Università di Roma, facoltà di
Filosofia, una bolgia ideologica. Polemiche da destra con il compianto
maestro Lucio Colletti, ancora un po’ trotzkista e sostenitore della
democrazia dei Soviet. Il bamboccio impertinente ripete in polemica col
maestro la lezione casalinga di Togliatti sulla “via italiana al
socialismo” (la madre era una collaboratrice del tremendo ma
intelligente capo del Pci e poi redattore capo della rivista ideologica
del partito, Rinascita). Ne nascerà lunga e onorata amicizia con il
maestro Colletti, che presto si convertirà con coraggio alla teoria
della crisi del marxismo e diventerà un ex comunista liberale
anticomunista un po’ pazzo, come l’allievo, ma tosto.
Primi lavori di militante alla Stampa e propaganda
con Gian Carlo Pajetta, che poi lo invia a Torino, dove arriva il 5
novembre del 1973, per “andare alla scuola della classe operaia e
sottrarsi alle insidie della curia romana” (parole di Pajetta). Resterà a
Torino fino al settembre del 1982, gli esami di Filosofia sono fermi a
undici su venti. Ricoprirà a Torino questi incarichi. Giornalista senza
bollini dell’ordine e senza praticantato presso la rivista Nuovasocietà,
ideata da Diego Novelli e poi a lungo diretta e rimessa all’onor del
mondo da Saverio Vertone (nel ’75 Novelli diventa sindaco della città).
Amicizia con Novelli, Vertone (vera amicizia, che continua nonostante le
sue follie politiche oneste e deliranti), e Adalberto Minucci,
supercapofunzionario. Altri incarichi.
Capo dell’organizzazione politica del Pci alla Fiat
Mirafiori (che porterà a duemila iscritti, perché è un buon attivista),
poi responsabile della sezione problemi dello Stato (lotta al
terrorismo), della sezione culturale e del comitato cittadino
(organizzazione del partito in città). Il soggetto si caratterizza, tra
l’altro, per una spiccata attitudine a parlare senza eufemismi, a
criticare l’inviolabile tradizione operaista torinese e la politica
della Camera del lavoro che porterà gli operai torinesi a essere
bastonati spietatamente da Cesare Romiti e dalla famiglia Agnelli nel
novembre del 1980. Coordina riunioni politiche (ha imparato il torinese,
che parla fluentemente) nella saletta del comitato federale di Torino,
sotto una grande riproduzione di Guernica, con Luciano Violante e Gian
Carlo Caselli: il tema è la lotta al terrorismo, Ferrara ci crede sul
serio, è esperto di estremismi contigui al terrorismo, si muove in una
logica emergenzialista e non garantista, assume con molti altri seri
rischi personali per via della sua visibilità (pesa già centotrenta
chili). Un suo articolo su Repubblica dell’epoca, dopo il varo del
questionario anti terrorismo, si intitola “Diritto di delazione”. Sempre
eccessivo, ma è con la delazione che le Br vengono sconfitte.
Un anno prima della sconfitta alla Fiat, nel 1979, i
sindacati Fiom torinesi combattono duramente la decisione di licenziare
61 dipendenti collegati al terrorismo, che miete vittime
quotidianamente in città, incendia le fabbriche e si collega con gli
estremisti nel vivaio di Mirafiori, dove cortei sbandati di operai
pestano i capi e li costringono a marciare alla testa della folla con la
bandiera rossa. La linea di Ferrara contro un sindacato che già allora
segue Dario Fo e altri pazzerelloni girotondini antemarcia è: “Siete
matti, queste cose fanno vergogna e sono anche la premessa di una
sconfitta del comunismo che piace a me” (si chiamava all’epoca
eurocomunismo, si estrinsecava nella rivolta berlingueriana contro il
partito comunista sovietico che lavorava con Cossutta per farlo fuori, e
precipitava nell’assunto secondo cui i comunisti dovevano andare al
governo, sacrificando ogni forma di estremismo e avviandosi verso una
socialdemocrazia europea con altre forze politiche popolari, in primis
la Dc, nel famoso “compromesso storico”, diciamo così bipartisan). Per
affermare questa linea nel bastione operaista torinese Ferrara fa
volentieri compromessi politici: appoggia per qualche tempo la parola
d’ordine dell’autoriduzione delle bollette elettriche, e quando alla
Fiat tutto precipita con i licenziamenti, si dà da fare ai picchetti
della fabbrica e fa la sua parte lanciando uova (vecchio vizio beffardo
ed estremista) agli impiegati che vogliono entrare.
Nel 1980, ma dopo aver consumato la sconfitta con i suoi compagni e aver salvato “con le mani” Pierre Carniti da un linciaggio (vecchio vizio), Ferrara si dimette spontaneamente dalla segreteria della federazione e da capo del comitato cittadino, dopo aver partecipato a due vittorie elettorali del Pci ed essere stato eletto (tredicesimo arrivato, secondo i piani, consigliere comunale). Il comunismo non gli piace più tanto. Quello di Breznev gli fa un po’ schifo (avendo egli dato del “fascista” a Breznev in un editoriale di Nuovasocietà, un incazzatissimo Pajetta gli dice, in una stanza del mitico Hotel Ligure: “Queste cose per favore le scrivi alla morosa, non su un giornale del partito”). La sua intenzione dichiarata è tornare a Roma e finire gli studi universitari interrotti. Novelli lo recupera abbisciandolo per il posto di capogruppo in Comune, perché F. può sempre servire (non è un servo?), e l’accordo (scandaloso per l’epoca) è che il funzionario, come chiede, si mette a metà tempo e metà stipendio, fa il capogruppo e riprende gli studi. Cosa che avviene sotto il magistero di Gennaro Sasso, un liberale e un grande storico delle idee e filosofo teoretico.
Nel 1980, ma dopo aver consumato la sconfitta con i suoi compagni e aver salvato “con le mani” Pierre Carniti da un linciaggio (vecchio vizio), Ferrara si dimette spontaneamente dalla segreteria della federazione e da capo del comitato cittadino, dopo aver partecipato a due vittorie elettorali del Pci ed essere stato eletto (tredicesimo arrivato, secondo i piani, consigliere comunale). Il comunismo non gli piace più tanto. Quello di Breznev gli fa un po’ schifo (avendo egli dato del “fascista” a Breznev in un editoriale di Nuovasocietà, un incazzatissimo Pajetta gli dice, in una stanza del mitico Hotel Ligure: “Queste cose per favore le scrivi alla morosa, non su un giornale del partito”). La sua intenzione dichiarata è tornare a Roma e finire gli studi universitari interrotti. Novelli lo recupera abbisciandolo per il posto di capogruppo in Comune, perché F. può sempre servire (non è un servo?), e l’accordo (scandaloso per l’epoca) è che il funzionario, come chiede, si mette a metà tempo e metà stipendio, fa il capogruppo e riprende gli studi. Cosa che avviene sotto il magistero di Gennaro Sasso, un liberale e un grande storico delle idee e filosofo teoretico.
Si arriva al dunque nel settembre dell’82. Il
Ferrara a mezzo tempo e mezzo stipendio, che ha ripreso gli studi, si
arrabbia contro il maestro Luciano Berio e l’assessore alla cultura
Giorgio Balmas. I due avevano organizzato un ridicolo “concerto per la
pace” in Piazza San Carlo a Torino, con ridicole poesie di Edoardo
Sanguineti che piovevano dal cielo. Solo che quella sera si seppe che
qualche migliaio di palestinesi, nei campi profughi di Sabra e Chatila,
erano stati ammazzati dai cristiani sotto i riflettori di Tsahal o
comunque con la sua connivenza. A Ferrara, che non ha mai avuto
posizioni filopalestinesi alla Mario Capanna e soci (perché è un
cacciatore professionale di eresie estremiste) sembra tuttavia normale
dedicare il concerto per la pace “ai martiri di Sabra e Chatila”. Di
fronte al rifiuto del grande musicista e dell’assessore gnomo,
s’incazza. Arringa in francese l’orchestra francese saltando sul palco a
pochi minuti dall’inizio del concerto (vecchi amori, vecchi odi). Un
impiegatuccio insolente dell’assessorato spettegola su di lui e lo
insulta, la cosa gli viene riferita, Ferrara scende dal palco e lo
prende a schiaffi. Crisi politica. Tutta la Torino perbene è contro
Ferrara, con il Maestro Berio e con Balmas (anche il compianto Massimo
Mila, che però è per la pena di morte). Ferrara disprezza moralmente
Diego Novelli per il modo in cui si è comportato nell’occasione, cioè
facendo lo gnorri, e lo critica sui giornali mentre fa le valigie
(abitava in una casa di ex ferrovieri a Borgo San Paolo, di proprietà di
un gagliardo redattore sportivo dell’Unità, Nello Pacifico) per
tornarsene a Roma e lasciare quello strano Pci dove ormai era sempre in
estrema minoranza: battaglia per il voto segreto e per le correnti,
critiche dure all’Unione Sovietica, animosità verso gli azionisti
torinesi bobbieschi che si stavano impadronendo dell’anima del partito e
del sindacato mentre i loro figli un po’ violentucci e contigui al
terrorismo scorrazzavano per la città, sola battaglia vinta quella per
la cittadinanza onoraria di Torino all’odiato Lech Walesa.
Se ne va dapprincipio in silenzio e nel dolore,
poiché sa che sta consumando un “tradimento” si appresta a farlo con
onestà senza strepito. Ma un amico, Mario Missiroli, gli dice: “Ma
scusa, non sei mica un ladro, perché te ne devi andare zitto zitto?”.
Ferrara gli dà retta e da allora ascolta (quasi) sempre i consigli degli
amici. Manda a quel paese il Pci di Torino, con una dichiarazione
pubblicata sull’Espresso di Livio Zanetti, e se ne va con le sue quattro
carabattole da una città che ha amato. Colletti gli dirà: “La tua
uscita è indecifrabile”. Mughini gli dirà: “Ma perché sei uscito da
sinistra, tu che sei di destra?”. Ferrara non pensa che la vera moralità
sia di destra o di sinistra, e si scandalizza della domanda (spiega il
suo scandalo indecifrabile in un articolo un po’ letterario su Nuovi
Argomenti, la rivista di Moravia).
F. prende sette milioni di liquidazione per dieci
anni di lavoro (niente male, ci sono funzionari del Pci che non hanno
preso niente), si installa a Roma prima a casa dei suoi, che gli
vogliono bene (il papà, in un libro confessione scritto con Mughini,
dirà del bamboccio: “Se ha tradito, ha tradito qualcosa che doveva
essere tradito”) ma giustamente lo trovano ingombrante, poi in un
piccolo appartamento di trentacinque metri quadrati con balcone in
Trastevere, che ha comprato sua madre e che si può vedere dalle finestre
della odierna redazione romana del Foglio. Va all’istituto di Filosofia
quando può, passa lunghi periodi in campagna, studia Machiavelli e
Spinoza, e scopre un maestro di filosofia che si chiama Leo Strauss, che
ora è detto anticipatore dei neoconservatori (ma è una lectio
giornalistica piuttosto abbreviata). Lasciata la tessera del Pci, prende
quella del Goethe Institut, impara il tedesco per leggere i testi
giovanili di Strauss (soggiorni a Friburgo, in casa di Frau Weeck come
pensionante, e a Berlino-Schoenberg in una casa di sessantottini la cui
ospite si chiamava Morlind Tuemler). Ferrara è sempre accompagnato dal
suo fedele cane trovatello, di nome Lupo. Mangia come un lupo. Si
innamora intellettualmente della questione ebraica, che è lo sfondo del
pensiero di Strauss.
Erano anni in cui fioriva il mercato del “dissenso
comunista”. Ferrara non partecipa a questo mercato, e quando Novelli
manda in galera i socialisti e anche i suoi più cari amici e compagni
per le stecche ai partiti (e non solo ai partiti) nel Comune di Torino
(1983), non accetta di fare il delatore e si sottrae alle richieste
giornalistiche che gli vengono rivolte nella casa di campagna dei suoi
(nonostante il vecchio “diritto alla delazione”). Chissà perché,
preferisce Spinoza e l’etica della banda. C’è Scalfari nel suo destino.
Il giustizialismo, e gli sgarri da capobanda del sindaco che aveva paura
della competizione politica da parte dei socialisti modernizzatori, non
gli piacciono. Ferrara guarda la tv e quando Berlinguer dice: “Tengo
Novelli in palmo di mano, perché ha denunciato tutto alla magistratura”,
trasecola. La mutazione genetica del Pci è cominciata. Sta diventando
un partito ridicolo: mezzo leninista (“Vivente e valida la lezione di
Lenin”, disse il secondo Berlinguer, quello che aveva abbandonato per
paura riformismo e governo tutti e due in una volta) e mezzo
giustizialista (la “questione morale”, la “diversità antropologica dei
comunisti”). Poi Berlinguer negherà a Novelli il posto in direzione,
altro che “palmo di mano”, e la Iotti gli dirà che avrebbe dovuto saper
“portare la croce” invece di fare il bullo sui finanziamenti illegali ai
partiti (compreso il suo) di cui ovviamente sapeva tutto, preferendogli
il pragmatico “uomo Fiat” Piero Fassino. Novelli si arrabbierà molto e
diventerà “retino” al seguito di Leoluca Orlando e F. non sa quante
altre cazzate ha fatto nel frattempo, perché le persone che disprezza
non le segue. Ferrara gioisce, come sempre quando i giustizieri vengono
per così dire giustiziati (caso Di Pietro, molti anni dopo).
Come vive Ferrara in questi due anni (’83-’84)? Studia, traduce per campare la vita (un bel librone ordinato da Vittorio Sereni sulla storia della misurazione del tempo, di David Landes, tradotto in coppia con Vertone), e un giorno incontra a una fila per il “passi” per il centro storico Pietro Favari, amico di Rita Cirio, che era diventata caposervizio culturale dell’Espresso. Aveva, come tutti i nuovi capi, bisogno di nuovi collaboratori per reinventare il servizio. Pietro chiede: “Che fai?”. Risposta: “Mi arrangio”. “Ti faccio chiamare da Rita?”, dice. “Grazie”, dice Ferrara. Ecco come entra nel giornalismo “professionale” il Ferrara: con una raccomandazione di Pietro Favari, che è un insigne semiologo e un critico teatrale, autore della nostra rubrica “Attori”. Insomma, F. si era messo in coda. Poi all’Espresso Ferrara ritrova Paolo Mieli e, con l’amico comune Pigi Battista e sotto la supervisione del “primario” (chiamavamo così il vecchio espressista Mieli), cura i libretti per i trent’anni dell’Espresso, lavorando nell’archivio del giornale e facendo una sterminata quantità di fotocopie. Impara a conoscere bene l’avversario lavorando nei suoi archivi. Una spia? Sì, una spia.
Lavoretti. Poi arriva Alberto Ronchey. Sono gli anni in cui l’establishment è interessato al destino politico di Bettino Craxi, che nel frattempo è diventato a calci e spintoni presidente del Consiglio. Alberto, persona a F. carissima, è un vecchio amico di famiglia, e lo onora di attenzioni per il suo lavoro, pur non essendo un tipo che dà troppa confidenza. Al Corriere della Sera è arrivato come direttore Piero Ostellino, un liberale ma molto, molto diverso da Piero Ottone, che appoggia Craxi e sarà poi congedato per questo (e perché il Corriere perse il primato di vendite nella battaglia con Scalfari e Repubblica). Ronchey manda Saverio Vertone e F. da Ostellino. Lettera contratto per qualche articolo, pagamento a cottimo. F. diventa ufficialmente un “convertito”. E’ risentito verso il Pci e la sua linea politica. Si vuole vendicare. Non nasconde il suo risentimento. Ma è una vendetta politico-intellettuale che dura ormai da vent’anni e più, non una faida da ex. Claudio Magris lo attacca e gli dà di “Maddalena pentita” sul Corriere. Lui risponde per le rime. C’è un’aria di ostracismo intorno agli ex comunisti. Il Pci è diventato il primo partito italiano alle elezioni europee, dopo la morte tragica di Enrico Berlinguer in un comizio anticraxiano che emoziona il popolo. E l’italiano è attento a chi vince e a chi perde. Craxi sembra già bollito. F. scrive di Amendola, suo maestro nella destra comunista, e delle sue battaglie contro il terrorismo e contro la scala mobile e la demagogia sindacale (Craxi ha appena infilzato la Cgil e salvato l’economia tagliando la scala mobile). I comunisti odiano F. quasi come Craxi (si parva licet), nessuno pensa che sia un venduto per ché tutti sanno come stanno le cose, ma molti lo odiano a tal punto da suggerirlo o da dirlo (e molti però lo rispettano, ciò che basta a F.). Scalfari e i filocomunisti sono felici di trattare a pesci in faccia gli ex, e lo fanno ogni volta che possono. Ma F. non porge mai l’altra guancia.
Arriviamo al 1985. Gli ex di Lotta continua fanno un giornale con i soldi di Martelli (chiedo scusa per la citazione). F. li ama e li odia, li ha combattuti aspramente quando facevano le loro cattive campagne contro Calabresi insieme con Scalfari, con Eco e con Vattimo (scusate la citazione), ma riconosce che il gesto di sciogliere Lc senza infamie (1976) e di appartarsi è stato magnifico, utile nella battaglia contro la violenza e per la verità su quel gran troiaio liberatorio ma anche pericoloso che fu il ’68. Giampaolo Pansa va da F. e lo intervista: l’ostracizzato gli risponde, gli dice che Craxi è in grado di guidare una sinistra socialdemocratica seria, che il Pci sbaglia tutto, e che Fassino “dà ordini come un caporale e obbedisce come un soldato semplice” (battuta cattiva, ma che ripeterebbe anche ora). Scandalo. Repubblica stampa il tutto a piena pagina con il titolo (malizioso?): “Giuliano il Convertito sulla via di Bettino”. Craxi chiama F. a Palazzo Chigi il giorno stesso, telefonata dell’indimenticabile Serenella Carloni. Lo aveva incontrato di striscio nel camerino di un teatro anni prima, perché amico di famiglia, per comuni radici milanesi, di sua cognata Adriana Asti. Niente più. F., come la sventurata, rispose. Va a Palazzo e Craxi gli dice: “Sono qui a battermi contro i serpenti con un esercito di Franceschiello, mi dai una mano? Vorresti fare il capolista a Torino dei socialisti?”.
Novelli era caduto perché il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, nuove elezioni a Torino tre anni dopo la sua uscita dal partito. F. risponde a Craxi: “Caro Bettino, una sfida è una sfida, ma che io torni a Torino alla testa dei socialisti non è una sfida, è una provocazione. Meglio di no”. “D’accordo, dice Bettino, e che altro possiamo fare?”. F. gli dice che sta nascendo il giornale degli ex Lc, Reporter (i simpatici colleghi di Repubblica lo chiamavano Revolver, sempre raffinati), e che gli piacerebbe avere un praticantato e lavorare per un giornale, perché a forza di collaborazioni qui si rimediava poco cibo e niente pensione (aveva trentatré anni, ed era previdente). Dice Craxi che va bene e che ne parlasse con Martelli (scuse per la…). Il giorno dopo il serpente senza sonagli lo chiama: “Dobbiamo avere un banco di lavoro comune, tu stai con me e con Craxi…”, dice, e già a F. gli girano le palle. Poi aggiunge: “E se tu facessi il presidente del club dei club?”. F. subodora la bufala e insiste: “Veramente con Craxi si era parlato di Reporter”. “Ah, va bene”, sibila il piccolo cobra de’ noantri. Così l’Editore lo assume a Reporter, Carlo Panella vicedirettore lo chiama e gli fissa lo stipendio (buono, due milioni al mese). Il giornale stava per uscire, Deaglio gli diede l’incarico di fare il cronista politico del giornale, Ostellino gli impose lo pseudonimo generico di Piero Dall’Ora perché sennò gli avrebbero impedito di continuare a collaborare al Corriere. Lavorò lì per un anno (perché Reporter costava troppo e durò solo un annetto). Ma che anno. Era l’85, l’anno del referendum sulla scala mobile e di Sigonella. Si occupò molto di Craxi e dei suoi nemici, il nostro F., e poco dell’Editore. Di qui il risentimento, ma sporco, che ha portato l’Editore a mentire per la gola e per ignobile frustrazione in una recente lettera al Foglio. Ma che ci può fare F. se gli piace più il caviale del succedaneo?
Nell’85 dunque a Ferrara succedono un paio di cose: diventa un leale craxiano e un praticante giornalista (insomma un venduto alla tenera età di trentatré anni), argomenta in pubblico scrivendo le sue tesi alle quali è tanto affezionato che lì è rimasto vent’anni dopo, ed è preso da passione divorante per gli ex Lc e per Adriano Sofri. E’ il sogno di una comunità che ha molto sbagliato ma si mantiene unita senza omertà e senza complicità per buone ragioni e intorno a una linea di intervento nella realtà italiana su cui, salvo grosse differenze, il grassone col cane e gli ex Lc a quel punto degli anni Ottanta concordano (con Sofri all’ingrosso gli capita di concordare ancora sull’essenza dei problemi, per comune sventura di quelli che detestano l’uno e l’altro). Nessuno come i traditori è alla ricerca di un Ersatz, di un sostituto della lealtà e della comunità perduta.
Poi Lanfranco Vaccari, tutt’altro che craxiano e direttore dell’Europeo della Rizzoli, gli offre di fare l’editorialista, ciò che farà finché Alberto Statera, anche lui credo un non craxiano, lo soffierà al concorrente per Epoca (questione di soldi). Pare che il ciccione se la cavasse, come cronista e opinionista. Succede. E il fatto di avere la connection con Craxi, certo, lo aiutava. Aiutava lui solo, per carità. E nessuno è mai stato aiutato come lui nella politica italiana. Ma un poco F. si aiutava anche da solo. O almeno, è comprensibile che lui la pensi così.
E questa è la prima puntata di un curriculum abbastanza dettagliato scritto per il piacere dei lettori più giovani. Infatti, a forza di dire la verità ai mozzorecchi giustizialisti, e di sputtanarli, loro tentano di sputtanare l’elefante che il ciccione è diventato, e inventano balle. Le precisazioni continueranno, sempre che non annoino. Segnatevelo. Siamo al 1985. C’è ancora tanto tempo da spiegare. Come dice Paolo Franchi, il passato ce lo dobbiamo raccontare tutto.
Come vive Ferrara in questi due anni (’83-’84)? Studia, traduce per campare la vita (un bel librone ordinato da Vittorio Sereni sulla storia della misurazione del tempo, di David Landes, tradotto in coppia con Vertone), e un giorno incontra a una fila per il “passi” per il centro storico Pietro Favari, amico di Rita Cirio, che era diventata caposervizio culturale dell’Espresso. Aveva, come tutti i nuovi capi, bisogno di nuovi collaboratori per reinventare il servizio. Pietro chiede: “Che fai?”. Risposta: “Mi arrangio”. “Ti faccio chiamare da Rita?”, dice. “Grazie”, dice Ferrara. Ecco come entra nel giornalismo “professionale” il Ferrara: con una raccomandazione di Pietro Favari, che è un insigne semiologo e un critico teatrale, autore della nostra rubrica “Attori”. Insomma, F. si era messo in coda. Poi all’Espresso Ferrara ritrova Paolo Mieli e, con l’amico comune Pigi Battista e sotto la supervisione del “primario” (chiamavamo così il vecchio espressista Mieli), cura i libretti per i trent’anni dell’Espresso, lavorando nell’archivio del giornale e facendo una sterminata quantità di fotocopie. Impara a conoscere bene l’avversario lavorando nei suoi archivi. Una spia? Sì, una spia.
Lavoretti. Poi arriva Alberto Ronchey. Sono gli anni in cui l’establishment è interessato al destino politico di Bettino Craxi, che nel frattempo è diventato a calci e spintoni presidente del Consiglio. Alberto, persona a F. carissima, è un vecchio amico di famiglia, e lo onora di attenzioni per il suo lavoro, pur non essendo un tipo che dà troppa confidenza. Al Corriere della Sera è arrivato come direttore Piero Ostellino, un liberale ma molto, molto diverso da Piero Ottone, che appoggia Craxi e sarà poi congedato per questo (e perché il Corriere perse il primato di vendite nella battaglia con Scalfari e Repubblica). Ronchey manda Saverio Vertone e F. da Ostellino. Lettera contratto per qualche articolo, pagamento a cottimo. F. diventa ufficialmente un “convertito”. E’ risentito verso il Pci e la sua linea politica. Si vuole vendicare. Non nasconde il suo risentimento. Ma è una vendetta politico-intellettuale che dura ormai da vent’anni e più, non una faida da ex. Claudio Magris lo attacca e gli dà di “Maddalena pentita” sul Corriere. Lui risponde per le rime. C’è un’aria di ostracismo intorno agli ex comunisti. Il Pci è diventato il primo partito italiano alle elezioni europee, dopo la morte tragica di Enrico Berlinguer in un comizio anticraxiano che emoziona il popolo. E l’italiano è attento a chi vince e a chi perde. Craxi sembra già bollito. F. scrive di Amendola, suo maestro nella destra comunista, e delle sue battaglie contro il terrorismo e contro la scala mobile e la demagogia sindacale (Craxi ha appena infilzato la Cgil e salvato l’economia tagliando la scala mobile). I comunisti odiano F. quasi come Craxi (si parva licet), nessuno pensa che sia un venduto per ché tutti sanno come stanno le cose, ma molti lo odiano a tal punto da suggerirlo o da dirlo (e molti però lo rispettano, ciò che basta a F.). Scalfari e i filocomunisti sono felici di trattare a pesci in faccia gli ex, e lo fanno ogni volta che possono. Ma F. non porge mai l’altra guancia.
Arriviamo al 1985. Gli ex di Lotta continua fanno un giornale con i soldi di Martelli (chiedo scusa per la citazione). F. li ama e li odia, li ha combattuti aspramente quando facevano le loro cattive campagne contro Calabresi insieme con Scalfari, con Eco e con Vattimo (scusate la citazione), ma riconosce che il gesto di sciogliere Lc senza infamie (1976) e di appartarsi è stato magnifico, utile nella battaglia contro la violenza e per la verità su quel gran troiaio liberatorio ma anche pericoloso che fu il ’68. Giampaolo Pansa va da F. e lo intervista: l’ostracizzato gli risponde, gli dice che Craxi è in grado di guidare una sinistra socialdemocratica seria, che il Pci sbaglia tutto, e che Fassino “dà ordini come un caporale e obbedisce come un soldato semplice” (battuta cattiva, ma che ripeterebbe anche ora). Scandalo. Repubblica stampa il tutto a piena pagina con il titolo (malizioso?): “Giuliano il Convertito sulla via di Bettino”. Craxi chiama F. a Palazzo Chigi il giorno stesso, telefonata dell’indimenticabile Serenella Carloni. Lo aveva incontrato di striscio nel camerino di un teatro anni prima, perché amico di famiglia, per comuni radici milanesi, di sua cognata Adriana Asti. Niente più. F., come la sventurata, rispose. Va a Palazzo e Craxi gli dice: “Sono qui a battermi contro i serpenti con un esercito di Franceschiello, mi dai una mano? Vorresti fare il capolista a Torino dei socialisti?”.
Novelli era caduto perché il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, nuove elezioni a Torino tre anni dopo la sua uscita dal partito. F. risponde a Craxi: “Caro Bettino, una sfida è una sfida, ma che io torni a Torino alla testa dei socialisti non è una sfida, è una provocazione. Meglio di no”. “D’accordo, dice Bettino, e che altro possiamo fare?”. F. gli dice che sta nascendo il giornale degli ex Lc, Reporter (i simpatici colleghi di Repubblica lo chiamavano Revolver, sempre raffinati), e che gli piacerebbe avere un praticantato e lavorare per un giornale, perché a forza di collaborazioni qui si rimediava poco cibo e niente pensione (aveva trentatré anni, ed era previdente). Dice Craxi che va bene e che ne parlasse con Martelli (scuse per la…). Il giorno dopo il serpente senza sonagli lo chiama: “Dobbiamo avere un banco di lavoro comune, tu stai con me e con Craxi…”, dice, e già a F. gli girano le palle. Poi aggiunge: “E se tu facessi il presidente del club dei club?”. F. subodora la bufala e insiste: “Veramente con Craxi si era parlato di Reporter”. “Ah, va bene”, sibila il piccolo cobra de’ noantri. Così l’Editore lo assume a Reporter, Carlo Panella vicedirettore lo chiama e gli fissa lo stipendio (buono, due milioni al mese). Il giornale stava per uscire, Deaglio gli diede l’incarico di fare il cronista politico del giornale, Ostellino gli impose lo pseudonimo generico di Piero Dall’Ora perché sennò gli avrebbero impedito di continuare a collaborare al Corriere. Lavorò lì per un anno (perché Reporter costava troppo e durò solo un annetto). Ma che anno. Era l’85, l’anno del referendum sulla scala mobile e di Sigonella. Si occupò molto di Craxi e dei suoi nemici, il nostro F., e poco dell’Editore. Di qui il risentimento, ma sporco, che ha portato l’Editore a mentire per la gola e per ignobile frustrazione in una recente lettera al Foglio. Ma che ci può fare F. se gli piace più il caviale del succedaneo?
Nell’85 dunque a Ferrara succedono un paio di cose: diventa un leale craxiano e un praticante giornalista (insomma un venduto alla tenera età di trentatré anni), argomenta in pubblico scrivendo le sue tesi alle quali è tanto affezionato che lì è rimasto vent’anni dopo, ed è preso da passione divorante per gli ex Lc e per Adriano Sofri. E’ il sogno di una comunità che ha molto sbagliato ma si mantiene unita senza omertà e senza complicità per buone ragioni e intorno a una linea di intervento nella realtà italiana su cui, salvo grosse differenze, il grassone col cane e gli ex Lc a quel punto degli anni Ottanta concordano (con Sofri all’ingrosso gli capita di concordare ancora sull’essenza dei problemi, per comune sventura di quelli che detestano l’uno e l’altro). Nessuno come i traditori è alla ricerca di un Ersatz, di un sostituto della lealtà e della comunità perduta.
Poi Lanfranco Vaccari, tutt’altro che craxiano e direttore dell’Europeo della Rizzoli, gli offre di fare l’editorialista, ciò che farà finché Alberto Statera, anche lui credo un non craxiano, lo soffierà al concorrente per Epoca (questione di soldi). Pare che il ciccione se la cavasse, come cronista e opinionista. Succede. E il fatto di avere la connection con Craxi, certo, lo aiutava. Aiutava lui solo, per carità. E nessuno è mai stato aiutato come lui nella politica italiana. Ma un poco F. si aiutava anche da solo. O almeno, è comprensibile che lui la pensi così.
E questa è la prima puntata di un curriculum abbastanza dettagliato scritto per il piacere dei lettori più giovani. Infatti, a forza di dire la verità ai mozzorecchi giustizialisti, e di sputtanarli, loro tentano di sputtanare l’elefante che il ciccione è diventato, e inventano balle. Le precisazioni continueranno, sempre che non annoino. Segnatevelo. Siamo al 1985. C’è ancora tanto tempo da spiegare. Come dice Paolo Franchi, il passato ce lo dobbiamo raccontare tutto.
Per un anno circa, tra la fine del 1985 e la fine
del 1986, tra i tanti lavoretti fatti da F. c’è anche quello di
informatore prezzolato della Cia. F. ha già spiegato ieri che nella sua
bulimia passionale aveva bisogno di una nuova comunità, e che l’aveva
trovata in una relazione professionale, civile e politica con gli ex di
Lotta continua che facevano Reporter. Ma una comunità e un leader (Craxi
era ormai entrato stabilmente nella sua vita, dopo l’outing) non gli
bastavano, al bulimico, e l’ex comunista si procurò un altro Stato
guida. Da eretico divenne, come nel rendiconto sublime di Isaac
Deutscher, un rinnegato. O un piccolo “lupo mannaro”, così la Pravda
definiva i sessantottardi come Marcuse e Cohn Bendit a cui dava di
agenti della Cia venti anni prima. F. ricorda ancora gli incontri, nella
stamberga di Trastevere con il giovane sveglio e simpaticissimo agente
americano, una cara persona che non vede da quasi vent’anni e di cui
serba un magnifico ricordo (il cui nome, naturalmente, F. non farebbe
non si dica a richiesta ma nemmeno, come si dice quando si è spavaldi,
sotto tortura). Qualcuno aveva corrotto F. e F. si lasciò corrompere
senza troppi problemi. E che faceva questo hijo de puta? Ammazzava la
gente con l’ombrello avvelenato? Trafugava documenti sulla sicurezza
dello Stato approfittando della sua amicizia con Craxi? Bè, purtroppo F.
non era così importante. Non era the quiet italian, non viveva in un
romanzo di Greene. Si limitava a “spiegare”, cosa che ha fatto tutta la
vita, dagli operai torinesi ai riveriti telespettatori. Era l’anno di
Sigonella, gli americani erano avidi di sapere chi cavolo fosse questo
omaccione che gli aveva mandato i carabinieri contro in una base Usa,
erano interessati a capire la sua logica politica. E F. si profondeva in
dettagli, analisi, interpretazioni: dalla parte di Craxi, dicendogli
quanto era fico e quanto era occidentale.
Dettagli molto apprezzati. Una specie di Radio Londra dall’interno del paese più complicato del mondo. Il frisson, il brivido, c’era già a far quattro chiacchiere con l’amico americano, ma tutto cambiò, in meglio, quando cominciarono a offrire qualche dollaro, poca cosa perché mi spiegò, l’amiko, che la legge Gramm-Rundmann aveva tagliato i fondi della Cia. I dollari erano avvolti in una busta giallina, fantastica, del peso giusto. E perdere l’innocenza era meraviglioso. Qualche conversazione avveniva al Pincio, tra i riverberi della più bella luce del mondo, vicino all’orologio ad acqua, e il passaggio di mano della busta aveva qualcosa di erotico, alludeva alla colpa come nell’adulterio perfetto. Nella politica italiana, buste mai: viste tante, prese nessuna. Non piaceva a F. quell’onesto lavoro dei funzionari di partito. Era un suo difetto (detto senza l’ombra dell’ironia). E non essendo ricattabile, era amato dai compagni che sapevano il fatto loro ma trattato come un alieno, perché in politica non è la capacità di ricatto che fa le carriere ma la disponibilità ad essere ricattati. L’innocenza, si diceva. In fondo poi, per tutta la vita, F. non ha fatto che cercare di capire che cosa sia l’innocenza e quanta vita ci voglia per perderla senza rinnegare un elemento spurio di onestà che negli uomini, per il fatto di essere uomini, deve starsene appartato, riservato, sennò si diventa sciaguratamente persone perbene.
La faccenda spionistica finì alla fine del 1986, complice la televisione. F. teneva su invito di Antonio Ghirelli, che era direttore del Tg2 e gli dava di Falstaff, a F., una rubrichina notturna di politica in cui spiegava Craxi, dalla sua parte, e Andreotti e De Mita e la solita Repubblica, che combatteva apertamente, nella disperazione di Biagione Agnes, rimestando con grazia, sì con molta grazia, nei labirinti avvelenati della prima Repubblica al suo apogeo. Ma se la scrittura è compatibile con la loscaggine, diverso è per la tv. F. la tv la capiva, per così dire, nel profondo della sua coscienza intima. E l’amava come strumento di lotta politica aperta, un altro Ersatz, non era possibile stringere mani di fan e avere quel tipo di riscontro personale, che la parola scritta non conosce, e contemporaneamente continuare con gli incontri al Pincio. Non era possibile per lui. Così disse: basta. L’amico americano era molto dispiaciuto, tra l’altro cambiava l’interlocutore perché lui se ne rientrava a Langley per altre destinazioni, e tutto venne più facile. Insistettero un po’, molto garbatamente, e poi tutto tacque. Molti anni dopo, ai tempi dell’Usa Day dopo la tragedia, ma anche prima in ogni contatto con loro, gli amerikani, F. si domandava: ma lo sanno o non lo sanno che dieci anni fa ero io a confezionargli le schede della politica italiana? E da qualche sguardo birichino, così, nelle more di un cocktail, gli sembrava che sapessero quel che ufficialmente si saprà solo dopo l’apertura degli archivi. Chissà quando.
A proposito di televisione. Dopo la rubrichina, che era già un successone ma per quattro, cinquecentomila spettatori notturni, venne il botto. F. fu chiamato da Angelo Guglielmi, che era un intellettuale dell’avanguardia letteraria (gruppo ’63) e il capo della terza rete, sì, quella “dei comunisti”. Il serpente a sonagli scriveva ieri con il veleno della sua lingua biforcuta, su un giornale anch’esso ogni tanto privo di sonagli, che ha raccomandato F. anche per la Rai, bestiale bugiardo per la gola e per la frustrazione che non è altro. Invece le cose andarono così, furono “i comunisti” a fare riccastro e reuccio dello schermo il panzone. Guglielmi era un eterodosso, infatti l’Ulivo così liberal la prima cosa che fece quando prese il potere fu di ammazzarlo, televisivamente parlando, e metterlo in pensione. L’eterodosso, poi caro amico sempre rispettato, per una trasmissione azzeccata, con una faccia e un ventre riconoscibili, avrebbe fatto carte false, tale la sua passione per il linguaggio televisivo che per un esperimento ben riuscito avrebbe venduto madre, padre e tutti i parenti. Figuriamoci se si sarebbe fermato davanti al problema di dare un’occasione a un ex comunista. E così nacque Linea rovente, un programma in cui F. indossava la toga (eh, eh: la toga, avete letto bene) e “processava” Verdiglione, l’amato Pannella, un ministro socialdemocratico colpito dalle solite accuse, e tanti altri. Da Tonino e dai suoi cari F. non aveva niente da imparare. Naturalmente quello era un gioco giustizialista, molto barocco e ben gestito dal suo inventore, il vecchio e caro a F. Lio Beghin, un supercattolico veneto che la tv ce l’aveva nel sangue. E da Anna Amendola, una generosa e geniale capostruttura della Rai, calabrese permalosa e comunista, che poi l’azienda non seppe più usare come avrebbe dovuto, deludendola a buon pro di qualche smaniosa o smanioso dei soliti. Era un gioco, ma a Craxi, dicevano a F. i suoi cortigiani, gli rodeva il fegato. Aveva la vista lunga, l’amato amico di F., ormai semplicemente Bettino, e quella toga in tv gli sembrava un cattivo presagio. “Sembra una cosa alla Pecchioli”, disse una volta a F. (il compianto Ugo Pecchioli era il ministro dell’Interno del vecchio Pci, un torinese di ferro che avrebbe fatto qualsiasi cosa per sbattere in galera i nemici del partito).
Dopo un sedici, diciassette puntate, F. fu assediato dagli Intini, dai Manca eccetera, che erano la pattuglia in battaglia televisiva nel duello tra Craxi e il vecchio regime che poi seppellirà il Psi con le sue malìe giustizialiste e le sue bugie e le sue monetine. F. doveva passare alla seconda rete, lì c’era ancora più pubblico, dicevano, tutti a sua disposizione. F., che aveva lavorato pagato un tanto a puntata, le prime assai poco ma le seconde il doppio (nel frattempo F. si era sposato con un’americana meravigliosa e pazza esattamente come lui, che sapeva come si trattano i contratti quando si diventa star o vitelli grassi), accettò di andare su Raidue per il resto della stagione, in cambio di una bella cifra tonda (un miliardo l’anno di allora) e inventò con Lino Jannuzzi, nel frattempo arrivato nel suo inimitabile stile come consigliori del consigliori, un fantastico programma, il Testimone, che faceva ascolti ultramilionari sbattendo in faccia al pubblico qualche esagerazione dietrologica sul caso Moro, tutta la verità sul caso di Tortora e dei suoi aguzzini (vecchio vizio, ma Tortora ne morì proprio in quei giorni, del vizio antigiustizialista). In giro c’era Agostino Saccà, capostruttura socialista, grande mediatore e ruffiano settecentesco, maschera indimenticabile di un certo modo di essere, insieme puttanesco e militante e competente, della vecchia Rai. Svenne quando F. e la sua banda di paese fecero sei milioni e mezzo di spettatori a metà giugno, un tempo in cui la gente la tv la trascura, del 1987.
Dettagli molto apprezzati. Una specie di Radio Londra dall’interno del paese più complicato del mondo. Il frisson, il brivido, c’era già a far quattro chiacchiere con l’amico americano, ma tutto cambiò, in meglio, quando cominciarono a offrire qualche dollaro, poca cosa perché mi spiegò, l’amiko, che la legge Gramm-Rundmann aveva tagliato i fondi della Cia. I dollari erano avvolti in una busta giallina, fantastica, del peso giusto. E perdere l’innocenza era meraviglioso. Qualche conversazione avveniva al Pincio, tra i riverberi della più bella luce del mondo, vicino all’orologio ad acqua, e il passaggio di mano della busta aveva qualcosa di erotico, alludeva alla colpa come nell’adulterio perfetto. Nella politica italiana, buste mai: viste tante, prese nessuna. Non piaceva a F. quell’onesto lavoro dei funzionari di partito. Era un suo difetto (detto senza l’ombra dell’ironia). E non essendo ricattabile, era amato dai compagni che sapevano il fatto loro ma trattato come un alieno, perché in politica non è la capacità di ricatto che fa le carriere ma la disponibilità ad essere ricattati. L’innocenza, si diceva. In fondo poi, per tutta la vita, F. non ha fatto che cercare di capire che cosa sia l’innocenza e quanta vita ci voglia per perderla senza rinnegare un elemento spurio di onestà che negli uomini, per il fatto di essere uomini, deve starsene appartato, riservato, sennò si diventa sciaguratamente persone perbene.
La faccenda spionistica finì alla fine del 1986, complice la televisione. F. teneva su invito di Antonio Ghirelli, che era direttore del Tg2 e gli dava di Falstaff, a F., una rubrichina notturna di politica in cui spiegava Craxi, dalla sua parte, e Andreotti e De Mita e la solita Repubblica, che combatteva apertamente, nella disperazione di Biagione Agnes, rimestando con grazia, sì con molta grazia, nei labirinti avvelenati della prima Repubblica al suo apogeo. Ma se la scrittura è compatibile con la loscaggine, diverso è per la tv. F. la tv la capiva, per così dire, nel profondo della sua coscienza intima. E l’amava come strumento di lotta politica aperta, un altro Ersatz, non era possibile stringere mani di fan e avere quel tipo di riscontro personale, che la parola scritta non conosce, e contemporaneamente continuare con gli incontri al Pincio. Non era possibile per lui. Così disse: basta. L’amico americano era molto dispiaciuto, tra l’altro cambiava l’interlocutore perché lui se ne rientrava a Langley per altre destinazioni, e tutto venne più facile. Insistettero un po’, molto garbatamente, e poi tutto tacque. Molti anni dopo, ai tempi dell’Usa Day dopo la tragedia, ma anche prima in ogni contatto con loro, gli amerikani, F. si domandava: ma lo sanno o non lo sanno che dieci anni fa ero io a confezionargli le schede della politica italiana? E da qualche sguardo birichino, così, nelle more di un cocktail, gli sembrava che sapessero quel che ufficialmente si saprà solo dopo l’apertura degli archivi. Chissà quando.
A proposito di televisione. Dopo la rubrichina, che era già un successone ma per quattro, cinquecentomila spettatori notturni, venne il botto. F. fu chiamato da Angelo Guglielmi, che era un intellettuale dell’avanguardia letteraria (gruppo ’63) e il capo della terza rete, sì, quella “dei comunisti”. Il serpente a sonagli scriveva ieri con il veleno della sua lingua biforcuta, su un giornale anch’esso ogni tanto privo di sonagli, che ha raccomandato F. anche per la Rai, bestiale bugiardo per la gola e per la frustrazione che non è altro. Invece le cose andarono così, furono “i comunisti” a fare riccastro e reuccio dello schermo il panzone. Guglielmi era un eterodosso, infatti l’Ulivo così liberal la prima cosa che fece quando prese il potere fu di ammazzarlo, televisivamente parlando, e metterlo in pensione. L’eterodosso, poi caro amico sempre rispettato, per una trasmissione azzeccata, con una faccia e un ventre riconoscibili, avrebbe fatto carte false, tale la sua passione per il linguaggio televisivo che per un esperimento ben riuscito avrebbe venduto madre, padre e tutti i parenti. Figuriamoci se si sarebbe fermato davanti al problema di dare un’occasione a un ex comunista. E così nacque Linea rovente, un programma in cui F. indossava la toga (eh, eh: la toga, avete letto bene) e “processava” Verdiglione, l’amato Pannella, un ministro socialdemocratico colpito dalle solite accuse, e tanti altri. Da Tonino e dai suoi cari F. non aveva niente da imparare. Naturalmente quello era un gioco giustizialista, molto barocco e ben gestito dal suo inventore, il vecchio e caro a F. Lio Beghin, un supercattolico veneto che la tv ce l’aveva nel sangue. E da Anna Amendola, una generosa e geniale capostruttura della Rai, calabrese permalosa e comunista, che poi l’azienda non seppe più usare come avrebbe dovuto, deludendola a buon pro di qualche smaniosa o smanioso dei soliti. Era un gioco, ma a Craxi, dicevano a F. i suoi cortigiani, gli rodeva il fegato. Aveva la vista lunga, l’amato amico di F., ormai semplicemente Bettino, e quella toga in tv gli sembrava un cattivo presagio. “Sembra una cosa alla Pecchioli”, disse una volta a F. (il compianto Ugo Pecchioli era il ministro dell’Interno del vecchio Pci, un torinese di ferro che avrebbe fatto qualsiasi cosa per sbattere in galera i nemici del partito).
Dopo un sedici, diciassette puntate, F. fu assediato dagli Intini, dai Manca eccetera, che erano la pattuglia in battaglia televisiva nel duello tra Craxi e il vecchio regime che poi seppellirà il Psi con le sue malìe giustizialiste e le sue bugie e le sue monetine. F. doveva passare alla seconda rete, lì c’era ancora più pubblico, dicevano, tutti a sua disposizione. F., che aveva lavorato pagato un tanto a puntata, le prime assai poco ma le seconde il doppio (nel frattempo F. si era sposato con un’americana meravigliosa e pazza esattamente come lui, che sapeva come si trattano i contratti quando si diventa star o vitelli grassi), accettò di andare su Raidue per il resto della stagione, in cambio di una bella cifra tonda (un miliardo l’anno di allora) e inventò con Lino Jannuzzi, nel frattempo arrivato nel suo inimitabile stile come consigliori del consigliori, un fantastico programma, il Testimone, che faceva ascolti ultramilionari sbattendo in faccia al pubblico qualche esagerazione dietrologica sul caso Moro, tutta la verità sul caso di Tortora e dei suoi aguzzini (vecchio vizio, ma Tortora ne morì proprio in quei giorni, del vizio antigiustizialista). In giro c’era Agostino Saccà, capostruttura socialista, grande mediatore e ruffiano settecentesco, maschera indimenticabile di un certo modo di essere, insieme puttanesco e militante e competente, della vecchia Rai. Svenne quando F. e la sua banda di paese fecero sei milioni e mezzo di spettatori a metà giugno, un tempo in cui la gente la tv la trascura, del 1987.
Svenne anche qualche uomo di marketing del Cav.,
allora il Dottore. Fine stagione, F. doveva chiudere il contratto per
l’anno successivo (siamo a giugno 1987). Il dolce Biagione Agnes, che lo
stimava nonostante l’avversione politica (“Caro Ggiuliano, ce lo diche
sembre a Ngiriaco: se giavesse un Verrara de’ nosctri, ce facesse nu
condratte. E’ che nun g’è”), gli propose un altro miliardo. Invece il
Cav. chiamò F. e lo ricevette con il vecchio Fedele Confalonieri in via
dell’Anima. All’epoca ricevevano sempre in due: uno seduceva e offriva,
il Cav., l’altro giudicava non visto, standosene un po’ di lato con
l’occhio furbo: “Sarà affidabile?”. F. sparò due miliardi, la metà
esatta di quanto estorse simpaticamente molti anni dopo al suo nuovo
editore, il canale indipendente La7, per il prossimo biennio 2003-2005
(ma guarda un po’ il mercato, uno se la cava anche senza i serpenti
privi di sonagli). Detto, fatto. Il contratto fu discusso con un
avvocato dalla parte di F., persona competente, e dall’avvocato Dotti
per la Fininvest. Non so se è vero, ma dissero in seguito a F. che lo
avevano corretto e rivisto nello studio Previti, perché a Dotti gli era
stata portata via tutta l’azienda, con quelle cifre e quelle norme.
F. firmò con molta allegria, e comunicò a Repubblica in un’intervista, ciò che non usava tra i giornalisti di allora e non usa tuttora, il suo stipendiuccio da calciatore. Repubblica, sempre raffinata, titolò in prima: “Berlusconi acquista Ferrara”. Non male. Però alt! F. la vuole dire tutta. Una malacosa e una buonacosa. Malacosa: il Cav. lo pregò di telefonare all’amico Bettino prima della firma, si usava così allora. Quegli stronzacci erano diffidenti e non sapevano valutare le persone: per loro i portaborse che li hanno traditi, compreso il serpente senza sonagli, e i militanti che poi si batterono, erano sullo stesso piano (almeno per certi versi).
E l’effetto di dominio di una telefonata preventiva era per loro, anche per un gigante come Craxi che adorava gli ex comunisti proprio perché avevano qualcosa di indomabile, un balsamo indispensabile. F. fece il patto col diavoletto. Telefonò, e disse a Bettino, mentre i suoi uomini Rai strepitavano per tenersi il vitello grasso: “Non rompere i coglioni, vado con Berlusconi perché mi paga il doppio di quello che mi ha offerto la Rai e da un privato, tra gli spot, mi diverto di più”. Craxi ridacchiò, disse che due miliardi erano troppo (ricordate? il favoloso Bettino faceva il populista con gli stipendi della Carrà, insomma voleva salvare la faccia, con ironia). Poi la firma, dopo questo piegamento di ginocchi di F., avido giornalista di regime. Buonacosa: F. disse chiaramente a Berlusconi, “guardi che il patto non scritto, quello che conta, è il seguente, lei mi può mandare in video anche 24 ore al giorno, ma se non c’è accordo tra noi su quel che si fa e si dice in video, insomma sui modi, io ho diritto di non andarci nemmeno per un secondo”. Il Dott. disse sì, e poi mantenne la parola. Di qui una bella amicizia. Il primo anno di F. fu infatti un fiasco e un trionfo. Trionfò Radio Londra, cinque, sette minuti prima di “Tra moglie e marito” su Canale5 alle 8 e mezzo di sera (destini), cinque milioni di spettatori dell’informazione politica in una rete abituata al quiz e senza telegiornali, e uno spazio televisivo inventato, di cui si approprierà un giornalista non di regime, e che non si fa mai pagare per il suo lavoro, di nome Enzo Biagi, che qualche anno dopo debuttò libero e indipendente nello stesso orario e con la stessa formula (bè, gli piacerebbe) su Raiuno, libera repubblica in era Moratti. Invece il Gatto, trasmissione pugnace di prima serata su Canale5, andava maluccio, il talk show in prime time non ha mai funzionato sulle commerciali (ne sa qualcosa l’eroe degli ascolti, Santoro, che fallì clamorosamente a Mediaset nonostante gli avessero dimezzato gli spot, perché lui nelle trasmissioni imbalsamate con Previti e Dell’Utri faceva servizio pubblico, lui). Ma il disastro fu politico: era il tempo in cui Confalonieri dichiarava apertamente, tra virgolette, che Fininvest avrebbe fatto un telegiornale per Craxi Andreotti e Forlani, e la tv spazzatura del maiale, tra scandali e bisbocce, travestiti e magistrati, non era il paludamento giusto per lo stile di un giornalismo ecumenico e pentapartitico. Sicché si litigò. Un corrucciato F. andò a Milano dal Cav., che stavolta era con Gianni Letta, e gli disse paro paro, sotto una tenda (chissà che manifestazione era): “Ricorda il patto? Ora lei ha dichiarato ai giornali che mi sposta su una rete minore, Italia1, senza nemmeno consultarmi. Eccole il contratto indietro, non c’è problema”. E il Cav., impressionato per tanto ardire (F. crede: impressionato favorevolmente, nonostante tutto), mantenne la parola e si tenne il servo sciocco per un anno, come voleva lui fuori dal video, a lavorare a un progetto di storia televisiva che non si fece mai (il Professore era il titolo). Accettò una punizione costosa, il Cav., un po’ perché non sa dire di no, nel bene e nel male, un po’ perché è di parola e quel patto lo ricordava.
Che ci faceva al Corrierone, intanto, l’ex comunista nel cui corpo ci sono “tonnellate di comunismo” come scriveva giusto ieri una compunta Unità, giornale liberal? Che ci faceva l’ex agente prezzolato degli americani, il convertito sulla via di Bettino, insomma un campione riciclato di questi “avanzi del totalitarismo” (come F. si definisce ogni giorno con il fascistissimo Buttafuoco e il comunista sentimentale Stefano Di Michele in redazione)? Ci faceva la nota politica, ci faceva, seduto nella vecchia sede di piazza del Parlamento a fianco di Paolo Franchi , che vuole raccontato tutto il passato, ma proprio tutto, e con il cane Lupo tra le gambe. Ostellino odiava la “nota politica” e volle un “taccuino”: la politica in pillole, blocchetto per blocchetto. Buona idea, apprezzata anche a sinistra (il politologo Gianfranco Pasquino era un ammiratore). Informazioni da Craxi poche, perché era un diffidente. Ma F. lo aveva sgamato, come si dice a Roma, sapeva le sue mosse nelle crisi arabescate della prima Repubblica perché invece si fidava del Cinghialone, pensava che avrebbe fatto quel che avrebbe fatto lui, il povero F. ovvero un réfoulé della politica, uno che per schifoso buonismo e perbenismo era capace solo di immaginare la politica degli altri. Così un bel po’ di buchi alla concorrenza, senza esagerare perché in giro c’erano altri lupi della notizia bene addestrati, il Corrierone li diede. Poi arrivò Ugo Stille dall’America, al posto di Ostellino, e De Mita nel frattempo cacciò Craxi in malomodo dal governo, non che Bettino ci stesse a modino, anche lui voleva la morte di De Mita e lo insidiava con certe pesantezze mica male. Ma la linea del Corriere cambiò, lo scontro con Repubblica finì, Misha (il vero nome di Stille) era politicamente e personalmente un uomo di mondo.
F. firmò con molta allegria, e comunicò a Repubblica in un’intervista, ciò che non usava tra i giornalisti di allora e non usa tuttora, il suo stipendiuccio da calciatore. Repubblica, sempre raffinata, titolò in prima: “Berlusconi acquista Ferrara”. Non male. Però alt! F. la vuole dire tutta. Una malacosa e una buonacosa. Malacosa: il Cav. lo pregò di telefonare all’amico Bettino prima della firma, si usava così allora. Quegli stronzacci erano diffidenti e non sapevano valutare le persone: per loro i portaborse che li hanno traditi, compreso il serpente senza sonagli, e i militanti che poi si batterono, erano sullo stesso piano (almeno per certi versi).
E l’effetto di dominio di una telefonata preventiva era per loro, anche per un gigante come Craxi che adorava gli ex comunisti proprio perché avevano qualcosa di indomabile, un balsamo indispensabile. F. fece il patto col diavoletto. Telefonò, e disse a Bettino, mentre i suoi uomini Rai strepitavano per tenersi il vitello grasso: “Non rompere i coglioni, vado con Berlusconi perché mi paga il doppio di quello che mi ha offerto la Rai e da un privato, tra gli spot, mi diverto di più”. Craxi ridacchiò, disse che due miliardi erano troppo (ricordate? il favoloso Bettino faceva il populista con gli stipendi della Carrà, insomma voleva salvare la faccia, con ironia). Poi la firma, dopo questo piegamento di ginocchi di F., avido giornalista di regime. Buonacosa: F. disse chiaramente a Berlusconi, “guardi che il patto non scritto, quello che conta, è il seguente, lei mi può mandare in video anche 24 ore al giorno, ma se non c’è accordo tra noi su quel che si fa e si dice in video, insomma sui modi, io ho diritto di non andarci nemmeno per un secondo”. Il Dott. disse sì, e poi mantenne la parola. Di qui una bella amicizia. Il primo anno di F. fu infatti un fiasco e un trionfo. Trionfò Radio Londra, cinque, sette minuti prima di “Tra moglie e marito” su Canale5 alle 8 e mezzo di sera (destini), cinque milioni di spettatori dell’informazione politica in una rete abituata al quiz e senza telegiornali, e uno spazio televisivo inventato, di cui si approprierà un giornalista non di regime, e che non si fa mai pagare per il suo lavoro, di nome Enzo Biagi, che qualche anno dopo debuttò libero e indipendente nello stesso orario e con la stessa formula (bè, gli piacerebbe) su Raiuno, libera repubblica in era Moratti. Invece il Gatto, trasmissione pugnace di prima serata su Canale5, andava maluccio, il talk show in prime time non ha mai funzionato sulle commerciali (ne sa qualcosa l’eroe degli ascolti, Santoro, che fallì clamorosamente a Mediaset nonostante gli avessero dimezzato gli spot, perché lui nelle trasmissioni imbalsamate con Previti e Dell’Utri faceva servizio pubblico, lui). Ma il disastro fu politico: era il tempo in cui Confalonieri dichiarava apertamente, tra virgolette, che Fininvest avrebbe fatto un telegiornale per Craxi Andreotti e Forlani, e la tv spazzatura del maiale, tra scandali e bisbocce, travestiti e magistrati, non era il paludamento giusto per lo stile di un giornalismo ecumenico e pentapartitico. Sicché si litigò. Un corrucciato F. andò a Milano dal Cav., che stavolta era con Gianni Letta, e gli disse paro paro, sotto una tenda (chissà che manifestazione era): “Ricorda il patto? Ora lei ha dichiarato ai giornali che mi sposta su una rete minore, Italia1, senza nemmeno consultarmi. Eccole il contratto indietro, non c’è problema”. E il Cav., impressionato per tanto ardire (F. crede: impressionato favorevolmente, nonostante tutto), mantenne la parola e si tenne il servo sciocco per un anno, come voleva lui fuori dal video, a lavorare a un progetto di storia televisiva che non si fece mai (il Professore era il titolo). Accettò una punizione costosa, il Cav., un po’ perché non sa dire di no, nel bene e nel male, un po’ perché è di parola e quel patto lo ricordava.
Che ci faceva al Corrierone, intanto, l’ex comunista nel cui corpo ci sono “tonnellate di comunismo” come scriveva giusto ieri una compunta Unità, giornale liberal? Che ci faceva l’ex agente prezzolato degli americani, il convertito sulla via di Bettino, insomma un campione riciclato di questi “avanzi del totalitarismo” (come F. si definisce ogni giorno con il fascistissimo Buttafuoco e il comunista sentimentale Stefano Di Michele in redazione)? Ci faceva la nota politica, ci faceva, seduto nella vecchia sede di piazza del Parlamento a fianco di Paolo Franchi , che vuole raccontato tutto il passato, ma proprio tutto, e con il cane Lupo tra le gambe. Ostellino odiava la “nota politica” e volle un “taccuino”: la politica in pillole, blocchetto per blocchetto. Buona idea, apprezzata anche a sinistra (il politologo Gianfranco Pasquino era un ammiratore). Informazioni da Craxi poche, perché era un diffidente. Ma F. lo aveva sgamato, come si dice a Roma, sapeva le sue mosse nelle crisi arabescate della prima Repubblica perché invece si fidava del Cinghialone, pensava che avrebbe fatto quel che avrebbe fatto lui, il povero F. ovvero un réfoulé della politica, uno che per schifoso buonismo e perbenismo era capace solo di immaginare la politica degli altri. Così un bel po’ di buchi alla concorrenza, senza esagerare perché in giro c’erano altri lupi della notizia bene addestrati, il Corrierone li diede. Poi arrivò Ugo Stille dall’America, al posto di Ostellino, e De Mita nel frattempo cacciò Craxi in malomodo dal governo, non che Bettino ci stesse a modino, anche lui voleva la morte di De Mita e lo insidiava con certe pesantezze mica male. Ma la linea del Corriere cambiò, lo scontro con Repubblica finì, Misha (il vero nome di Stille) era politicamente e personalmente un uomo di mondo.
A Milano agivano Giorgio Fattori e Enzo Biagi, un
clubbino che si ritrovava con Lamberto Sechi (quello dei fatti separati
dalle opinioni, l’inglese): erano loro, e lo sono restati per anni, il
vero potere mediatico dell’intolleranza. E volevano la pelle del
ciccione, e forse anche le sue trippe. Approfittando della televisione, e
spingendo sul tema dell’esclusiva professionale, volevano cacciarlo dal
Corriere. Stille, con il quale F. parlava amabilmente di Leo Strauss,
perché era anche una sua vecchia lettura, e che amava e stimava avendolo
conosciuto anni prima con suo padre nell’appartamento di Pietro Ingrao a
Monte Citorio, allora Ingrao era presidente della Camera (anni
Settanta), pensò di trovare la soluzione mandando un F. craxiano che a
Roma non si portava più direttamente a Mosca, come corrispondente.
Decise, F., che il Corriere era meglio della tv, e si mise a ristudiare
il russo con Elke Ibba, una bella donna bulgara moglie di Fausto Ibba,
vecchio e stimabile comunista dell’Unità. Ma sul più bello, mentre il
russo gli riveniva su e cominciava a parlottarlo e a scriverlo “con la
calligrafia di un bambino moscovita di cinque anni” (precisò la Elke),
tutto fallì, con grande sollievo della nuova meravigliosa moglie
americana, che non diceva niente ma all’idea di essere deportata a
Mosca, sia pure in tempi di perestroika, soffriva e parecchio. I soliti
fienghi del cdr dissero che un praticante non poteva andare a Mosca, e
salvarono Selmuschka dalla coda riformatrice del totalitarismo
sovietico. Niet. Veto. “Vabbè”, disse allora Stille al suo pupillo,
“dimettiti e ti riassumiamo con l’articolo 2, e fammi una bella rubrica
dal titolo Bretelle Rosse, visto che le tue bretelle sono popolari”, e
così cominciò quella rubrica, i cui titoli venivano messi tra virgolette
dal burbero Giulio Anselmi (non bastava la fotina e la firma per far
capire che quelle opinioni contropelo non erano del giornale), quando il
testo non era prefato da un distico “questa non è l’opinione del
Corriere” per salvare proprietà, baracca e burattini dai magistrati che
nel fatale ’93 il ciccione caricava di brutto; quella rubrica che sempre
nel fatale ’93, a sei anni dal suo inizio, direttore e scudo Paolo
Mieli, fece qualcosa, non si dica per salvare l’onore del giornalismo
italiano o del Corriere, non-lo-si-dica, ma almeno per salvare dalla
galera certi serpenti senza sonagli ma col conto protezione, che sognano
di aver raccomandato un bandito e spia che può sempre fargli uno
scaracchio in faccia senza problemi morali.
A proposito. F. non dimentica niente. Il serpente
senza sonagli attacca F. con la menzogna, epperò il suo veleno ha
l’effetto squisito di convincere F. a un ragguaglio curricolare (bella
l’espressione, vero?). E i ragguagli devono essere precisi, sennò il
computer si annoia. Per spiegare (“spiegare”, brutto vizio) le ragioni
per questa porcata inqualificabile del serpente senza sonagliera,
attaccare con la menzogna uno che ti ha difeso dalla galera per anni,
sapendo che in fondo proprio tu te la meritavi, deve citare, F., un
dettaglio decisivo. Diceva ieri che Reporter nacque con i soldi di
Martelli, aggiunge oggi che morì con i soldi di Craxi, che poi erano
sempre soldi nostri, imprese che amano fare cartello e flirtare con la
politica (tutte o quasi) e contribuenti che pagano le tasse (pochi, tra
cui F.), perché insomma, sì, era contante che veniva dal finanziamento
illegale dei partiti. F. ha alcuni ricordi. Deaglio e Panella che lo
pregano di andare da Craxi e porgli il problema degli stipendi e della
salvezza del giornale, perché gli amici del serpente avevano cessato di
versare in un’impresa in perdita. Altro ricordo. Craxi, interpellato,
che mette in imbarazzo F. dicendogli che il serpente voleva mettere su
una sua “cricca” e che il giornale doveva uscire dal suo raggio di
influenza, se voleva la grana (“non sono noccioline del Brasile”,
aggiunse con bella rozzezza). Ecco una delle scaturigini dell’odiosa
frustrazione che ha spinto il serp. s. sonagli a cercare di infangare,
citando il proprio nome reso fangoso dalla brutta storia di questi anni,
il nome suo.
Poi gli amici di Reporter, che fu un giornale assolutamente onesto, ve lo dice un bandito, nella cui cucina erano in pochi a guardare (F., al contrario di Giuliano Amato, ha sempre guardato nelle cucine delle case che ha frequentato) e che tutti sapevamo essere finanziato dalla politica socialista dell’epoca (Sofri si faceva il suo Finesecolo, smagliante supplemento culturale, ma a Firenze), mi informarono del fatto, gli amici di Reporter, che Cornelio Brandini, simpatico e matto mozzo di Bettino, era arrivato a chiudere qualche conto con quella che la raffinata Ilda la Rossa definirebbe “una paccata di milioni”. Ma neanche i forzieri di Craxi sarebbero bastati a salvare quell’impresa, troppi giornalisti, troppo costosa la diffusione, troppo cara la piccola officina di fotocomposizione del Testaccio, costava troppo il sistema Atex, troppo le foto, troppo il settore grafico (informazioni venute utili quando fu fondato il Foglio, undici anni dopo).
Che cosa è più scandaloso? La consulenza alla Cia? Essere stati comunisti? Essere usciti dal comunismo ed essere diventati anticomunisti? La raccomandazione di Ronchey per il Corriere? Scrivere per il Corriere liberamente contro i disegni non condivisi di De Mita e a favore di Craxi, contro i mozzorecchi e per gli inquisiti del ’93, senza mai insultare o leccare il culo? Avere imposto uno stile non falsamente paludato al giornalismo finto dei Biagi&Fattori, una roba in cui si sa cosa pensa chi scrive o parla, si sa da che parte sta? O è più scandaloso aver fatto come Ugo La Malfa il Grande, usare soldi neri per stampare un giornale, non proprio una prima volta nella storia della libertà di stampa, e raccontarlo adesso per la verità, e con una punta di orgoglio? Che cosa conta davvero, il retrobottega o la vetrina, i mezzi o i fini? F. non lo sa, e fa questo tuffo nel passato perché sa che non lo saprà mai.
Poi gli amici di Reporter, che fu un giornale assolutamente onesto, ve lo dice un bandito, nella cui cucina erano in pochi a guardare (F., al contrario di Giuliano Amato, ha sempre guardato nelle cucine delle case che ha frequentato) e che tutti sapevamo essere finanziato dalla politica socialista dell’epoca (Sofri si faceva il suo Finesecolo, smagliante supplemento culturale, ma a Firenze), mi informarono del fatto, gli amici di Reporter, che Cornelio Brandini, simpatico e matto mozzo di Bettino, era arrivato a chiudere qualche conto con quella che la raffinata Ilda la Rossa definirebbe “una paccata di milioni”. Ma neanche i forzieri di Craxi sarebbero bastati a salvare quell’impresa, troppi giornalisti, troppo costosa la diffusione, troppo cara la piccola officina di fotocomposizione del Testaccio, costava troppo il sistema Atex, troppo le foto, troppo il settore grafico (informazioni venute utili quando fu fondato il Foglio, undici anni dopo).
Che cosa è più scandaloso? La consulenza alla Cia? Essere stati comunisti? Essere usciti dal comunismo ed essere diventati anticomunisti? La raccomandazione di Ronchey per il Corriere? Scrivere per il Corriere liberamente contro i disegni non condivisi di De Mita e a favore di Craxi, contro i mozzorecchi e per gli inquisiti del ’93, senza mai insultare o leccare il culo? Avere imposto uno stile non falsamente paludato al giornalismo finto dei Biagi&Fattori, una roba in cui si sa cosa pensa chi scrive o parla, si sa da che parte sta? O è più scandaloso aver fatto come Ugo La Malfa il Grande, usare soldi neri per stampare un giornale, non proprio una prima volta nella storia della libertà di stampa, e raccontarlo adesso per la verità, e con una punta di orgoglio? Che cosa conta davvero, il retrobottega o la vetrina, i mezzi o i fini? F. non lo sa, e fa questo tuffo nel passato perché sa che non lo saprà mai.
Nessun commento:
Posta un commento