Monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara, rilegge I promessi sposi.
Quella che segue è l’illustrazione dell’iniziativa che si è svolta nel
teatro cittadino di Ferrara, in cui l’arcivescovo ha affrontato il testo
del capolavoro manzoniano in chiave non tanto letteraria, ma pastorale e
catechetica. Da essa è stato tratto un libro e un video, edito da Mimep.
Insieme al cofanetto con le conferenze di Negri, Mimep ripropone per il
Natale 2015 con una nuova sovracopertina la riproduzione anastatica
della edizione integrale del 1840 de I promessi sposi e Storia della colonna infame di
Alessandro Manzoni. Il volume contiene tutte le illustrazioni originali
di Francesco Gonin realizzate sotto l’attento controllo del Manzoni.
Uno degli insegnamenti più preziosi che ho ricevuto, dalla
lunghissima convivenza con Mons. Giussani e dai fervidi anni vissuti in
seminario a Venegono, è che la grande letteratura costituisce uno
strumento formidabile per approfondire il senso della fede e per
comunicarlo in modo suggestivo. Ho pensato, così, di utilizzare il
romanzo de “I Promessi Sposi” per aiutare il popolo cristiano di
Ferrara-Comacchio, e non solo, a ritrovare le linee fondamentali del
cristianesimo come annuncio di vita vera e quindi la possibilità di
essere educato a sperimentarla e viverla in pienezza, comunicandola a
tutti gli uomini.
Ho
scelto come esergo delle sette lezioni, seguendo alcuni dei
protagonisti di questa grande epopea del popolo cristiano, il brano in
cui don Rodrigo afferma che “Lucia, Agnese e Renzo sono gente perduta sulla terra che non hanno neanche un padrone”.
Tale scelta tematica vuole mostrare come si può anche non avere padrone
sulla terra ma, se si vive da figli di Dio, si può fare un’esperienza
di novità umana e cristiana tale da costituire la più vera e grande
contestazione al nulla, rappresentato dal potere e dai suoi orgogliosi epigoni.
L’incontro con Cristo, nel mistero della Chiesa, è
l’incontro con l’uomo così com’è, nelle sue circostanze positive, con le
sue aperture d’animo e di cuore ma anche con le sue grettezze e
meschinità, che sono il peso inesorabile dei condizionamenti sociali in
cui ciascuno di noi vive.
Si può essere nella fede, come Lucia, quasi per una
buonissima e istintiva consuetudine. Si può aver recuperato la fede,
come padre Cristoforo, sotto l’urto di vicende drammatiche e tragiche.
Si può pensare che la fede sia semplicemente il contesto, anche
scenografico, di una vita dominata dal potere, come la concepiscono
tutti i potenti che compaiono nel romanzo fino al più turpe e mellifluo:
il Conte Zio del consiglio segreto. Si può essere povera gente
sballottata e manipolata dai più forti di questo mondo.
L’uomo così com’è può vivere una vita chiusa al mistero, e
avviarsi verso il suo annullamento, ma può anche vivere attento ai
segni che Dio gli manda e agli incontri che gli fa fare, e questa è la
grande esperienza di una vita cristiana che diventa inesorabilmente
consapevole di sé.
Da qualsiasi punto si parte, l’incontro con la fede è
qualche cosa di radicalmente nuovo, nel quale si annodano i fili di una
lontana innocenza dimenticata. Lo dimostra il dialogo straordinario fra
l’Innominato e Lucia.
Nell’incontro con una semplice contadina quest’uomo,
detentore del potere e dominato dal potere, ritrova il significato più
profondo della sua esistenza, che aveva inopinatamente dimenticato e
tradito. Nella figura di padre Cristoforo l’incontro con la fede,
l’obbedienza alla fede e la dedizione caritatevole agli uomini in nome
della fede, raggiungono le vette più alte dentro la concretezza di ogni
giorno. Un gigante della fede nella vita quotidiana – che, attraverso di
lui, viene inesorabilmente trasformata -, un uomo di fede che diventa,
per tutti quelli che l’incontrano, un segno di novità. Gli insegnamenti
più grandi che ho colto da questa serie d’incontri, in cui il popolo di
Ferrara-Comacchio ha saputo implicarsi in maniera profondamente
cordiale, sono stati quelli che peraltro ho imparato nel cammino
ecclesiale e catechetico che ho fatto con Mons. Giussani.
Come punto di partenza c’è l’inevitabilità del senso
religioso che, anche quando sembra eliminato, ritrova la sua esistenza e
la sua vivacità proprio nell’incontro con la testimonianza della fede.
La fede è un avvenimento di novità di vita dentro un popolo nel quale la
persona è chiamata a vedere per la prima volta la sua fisionomia vera e
cominciare a perseguirla ogni giorno; educata, sfidata, qualche volta
messa in questione gravemente dalle circostanze e dalla malvagità che si
annida inesorabilmente in tanti incontri. Una vita nuova che si vede
presente come un ideale vivente da perseguire e da attuare, e
contemporaneamente convive con l’esperienza del limite, della
meschinità, dell’egoismo, della soggezione alla mentalità dominante, di
quella diffusa vigliaccheria che trova in don Abbondio una delle
immagini più negativamente emblematiche.
Si diventa cristiani anche partendo da queste situazioni –
se si ama l’incontro fatto più di quanto non si ami se stessi – e se
non si rende nessuna circostanza come obiezione. Nella gigantesca
statura del cardinale Federigo, e nel suo dialogo di straordinaria
importanza umana e cristiana con don Abbondio, sta il fatto che il
Manzoni non ha chiuso la vita di nessuno. Tutte le vite, anche quelle
che sembravano segnate dalla negatività, rimangono sospese ad un ultima
possibilità, non soltanto quella evidente dell’Innominato che cambia
vita e diventa cristiano, ma anche quella della monaca di Monza il cui
futuro è celato da una discrezione che rivela quello che avvenne
effettivamente, ovvero che questa donna, dopo una lunga mortificazione,
morì veramente cristiana.
Penso inoltre a don Rodrigo, alla cui inerte e silenziosa
presenza di uomo che ha perduto qualsiasi capacità di intendere e di
volere non è preclusa la possibilità che infine Dio gli tocchi il cuore.
Penso a don Abbondio che nel dialogo con il Cardinale Federigo ritrova
una possibilità di freschezza come adesione alla fede che non aveva mai
sperimentato nei lunghi anni in cui aveva servito, comunque malamente,
la Chiesa del Signore.
Benedetto XVI ci ha tante volte insegnato che la vita
cristiana è una vita vera, buona e perciò bella: solenne proclamazione
del tutto di Dio di fronte al nulla del demonio. Credo di aver
incominciato ad insegnare al mio popolo che il cristianesimo è l’unica
possibilità di una vita vera, buona e bella, e che la sua stessa
presenza contesta la presunta forza del potere del nulla.
È quel sentiero luminoso verso la vita di cui ha parlato
spesso il grande filosofo Robert Spaemann, grande amico di papa
Benedetto. Questo sentiero della vita, bella e buona è l’unica
alternativa al sentiero polveroso del nulla nel quale si annichilisce
ogni autentico desiderio di umanità.
Luigi Negri
fonte: Tempi.it
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