Come spesso succede nel
nostro amato Paese, il dibattito ha immediatamente preso la peggiore delle
pieghe: quella del surreale scontro sugli 'stranieri'. Colpa della Lega, di Maurizio
Gasparri, e anche del Movimento 5 Stelle che hanno sfoderato una penosa, e
incomprensibile, retorica nazionalista: al (patetico) grido di «L'Italia agli
italiani».
A onor del vero anche i
commenti di alcuni degli esclusi hanno, poco decorosamente, cavalcato questa
risibile tigre. Il direttore degli Uffizi Antonio Natali ha ironizzato in
questi termini: «I
knew I would not win the bid for the Uffizi when the government statistics
office told me I could not change my name to Anthony Christmas». E il direttore
dell'Accademia Angelo Tartuferi ha parlato di «sconfitta del nostro Paese»,
aggiungendo: «abbiamo inventato in Italia la tutela dei beni culturali e
schiere di tedeschi sono venuti a studiarla da noi... Senza risentimento, ma mi
pare che questi colleghi non siano idonei a colmare questo presunto vuoto».
A questo punto, osservatori
come Roberto Saviano e Michele Serra hanno preso la parola per dire l'unica
cosa sensata: e cioè che non c'è nulla di strano, né tantomeno di sbagliato, in
un tedesco che dirige gli Uffizi. Sbagliato e strano è, anzi, trovarlo
sbagliato o strano.
Tuttavia anche queste ovvie
considerazioni sono state subito travisate, strumentalizzandole fino a leggerle
come un endorsement alle scelte di Franceschini. Ma dire che è normale nominare
un non italiano, non significa dire che la nomina di quel non italiano
sia giusta a prescindere: altrimenti si cade nell'errore speculare. Perché
esiste il provincialismo xenofobo di Gasparri, ma esiste anche il
provincialismo esterofilo di chi pensa che basti non essere italiani per essere
'nuovi', o perfetti per la parte. Mentre il ministro Franceschini ha
giustamente detto al New York Times che «it's your CV that counts, not
nationality».
Ma il punto, larghissimamente
eluso dai commentatori, è proprio questo: le nomine sono o non sono
giustificate dai curricula dei candidati? Perché il problema non sono
gli stranieri: ma semmai gli estranei, e cioè coloro che non hanno nulla che a
fare (culturalmente e scientificamente) con i musei che andranno a dirigere.
Lo stesso ministro
Franceschini ha scritto, in un editoriale sulla prima pagina dell'Unità renziana, che «Con queste 20 nomine di così grande levatura scientifica
internazionale il sistema museale italiano volta pagina e recupera un ritardo
di decenni. La commissione di selezione ha fatto un grande lavoro ed ha offerto
al Direttore Generale dei Musei del Mibact, Ugo Soragni, e a me la possibilità
di scegliere in terne di assoluto valore. I nuovi direttori sono sia stranieri
che italiani e alcuni di questi ultimi tornano nel nostro Paese dopo esperienze
di direzione all’estero».
Sul presunto ritardo tornerò
nel terzo e ultimo punto di questo post. Qui vorrei notare che, per poter
vendere il proprio compitino, il ministro è costretto a dire il falso,
sbandierando una «grande levatura scientifica internazionale» che
semplicemente non esiste. Idem per il «valore assoluto»: che manca.
Attenzione: non voglio dire
che tra i direttori non ci siano ottimi storici dell'arte e bravi curatori. Ma
– come in queste ore stanno notando in molti (come la Associazione Bianchi Bandinelli o la Uil)
– in quasi tutti i casi si tratta di curatori di sezioni di musei, e solo in
pochissimi di direttori di (piccoli) musei (provinciali): nemmeno uno ha avuto
esperienze nemmeno lontanamente comparabili alle responsabilità che si accinge
ad assumere.
Con questa selezione, insomma, lo Stato italiano ha fatto una
scommessa, scegliendo di affidare direzioni a persone non ritenute mature per
una direzione nelle stesse istituzioni in cui finora lavoravano. È giusto,
sensato, prudente scommettere contemporaneamente sui nostri venti più
importanti musei? Quante possibilità ci sono che ci vada bene in tutti e venti
i casi? E cosa staremmo rischiando, se andasse male?
E qui cominciano i dubbi –
gravi dubbi – sulla procedura. È responsabile fondare una simile scommessa su
un colloquio di quindici minuti, e sulla lettura di un curriculum?
Un elemento di comparazione:
per scegliere l'ex direttore della Galleria Estense Davide Gasparotto come
curatore della collezione di dipinti, il Getty Museum di Los Angeles ha
ritenuto necessari un'intervista skype di 2 ore, un colloquio privato col
direttore di 2 ore, due visite di tre giorni durante le quali il candidato ha
trascorso molto tempo col direttore e il vicedirettore, e poi un lungo
colloquio col presidente dei Trustee. E in questo caso era un direttore di
museo che diventava curatore di sezione: mentre noi abbiamo fatto il contrario
in soli 15 minuti!
Sarebbe imbarazzante
discutere i singoli nomi dei nuovi direttori: ma è impossibile non notare che
nella stragrande maggioranza dei casi (prescindendo dal valore scientifico dei
candidati) non c'è alcuna competenza specifica sul museo e sulle collezioni che
andranno a dirigere. E se la nazionalità non è un argomento, forse la
competenza dovrebbe esserlo.
Infine: la commissione non ha
scelto i direttori, ma ha presentato rose di tre nomi al ministro e al
direttore generale dei musei. Il primo ha scelto i direttori dei sette musei
più grandi e importanti il secondo quello degli altri tredici. Domanda: è
possibile leggere i nomi che componevano queste terne? Sarebbe fondamentale
poterle conoscere, se vogliamo provare a capire in base a quali criteri Dario
Franceschini e Ugo Soragni hanno usato un potere incredibilmente discrezionale.
Un potere che, nel caso del ministro, sostanzia in modo clamoroso, e per me
clamorosamente sbagliato, un'ingerenza politica diretta nella vita dei più
grandi musei della nazione.
Una finestra aperta da cui
entra finalmente aria nuova. Un gesto di rottura. Un bel segnale. Un sasso
nello stagno. Sono queste le metafore che hanno incarnato il giudizio di chi si
è espresso a favore delle nomine: come Gian Antonio Stella sul Corriere e Francesco Bonami sulla Stampa. È un modo di pensare molto
diffuso nell'Italia di oggi, e non solo a proposito dei musei: è questo l'unico
vero 'argomento' a favore di Matteo Renzi, e del suo governo. Sarebbe meglio
qualunque scuola di questa scuola, e meglio qualunque Senato di questo Senato:
e così via. Un simile modo di guardare al potere e ai suoi atti non è,
tuttavia, una novità: semmai una costante nella nostra storia. Piero
Calamandrei annota nel suo diario che perfino il grande filologo Giorgio
Pasquali pensava e diceva: «Il fascismo sarà aria buona, sarà aria cattiva, ma
insomma è aria».
Invece io non credo che gli
atti di governo si possano giudicare sul piano simbolico, o metaforico. Siamo
allo storytelling del governo senza il governo. Al racconto delle
riforme senza le riforme. Ma la bontà di un metodo (di un gesto, di una
finestra aperta, di una ventata d'aria...) va giudicata sulla base dei
risultati che produce, non su quello degli effetti mediatici che suscita.
In questi giorni, tuttavia,
anche molti colleghi e amici mi hanno detto che tutto quello che ho appena
scritto è verissimo, ma che la situazione dei musei era così compromessa che
qualunque 'novità' era comunque preferibile al 'vecchio'. Insomma, Franceschini
avrebbe fatto bene a comportarsi, rispetto al nostro patrimonio, come l'amante
descritto da una splendida canzone di Fabrizio De André: «E sarà la prima che
incontri per strada / che tu coprirai d'oro per un bacio mai dato, /per un
amore nuovo».
Io non sono d'accordo. Riconosco
– e credo di averlo scritto più di tutti – le infinite, gravissime
insufficienze, e perfino i veri e propri tradimenti, di molti dei funzionari
delle soprintendenze a cui erano affidati quei musei. Ma credo che la strada
imboccata da Franceschini aggiungerà danno a danno, stortura a stortura, errore
ad errore. O davvero pensiamo che affidare la Reggia di Caserta a un esperto di
marketing e il Museo Archeologico di Napoli a un funzionario comunale
(per approfondimenti rinvio ad un mio articolo uscito oggi sulla cronaca
napoletana di Repubblica) sia la soluzione? O anche solo che sia meglio del
'vecchio'?
Quando, nella Commissione
Bray per la riforma del Mibact, cominciammo a discutere dell'autonomia di
alcuni grandi musei italiani, pensammo e dicemmo che l'autonomia doveva essere
funzionale a rendere questi musei dei veri centri di ricerca, capaci di tornare
a produrre, e quindi a redistribuire, conoscenza. Tutto questo non è avvenuto: come ammette Paolo Baratta, che sedeva in quella commissione e oggi ha presieduto
quella per la scelta dei direttori. Oggi l'Archeologico di Napoli ha 6
archeologi e Capodimonte 5 storici dell'arte, Brera 4, la Galleria Estense di
Modena 2 e la Galleria Borghese 3: di quali supermusei stiamo parlando? E di
quale rivoluzione culturale? Qua nemmeno un direttore come Roberto Longhi
potrebbe fare qualcosa di serio!
Infine, quando pensavo che i
musei sarebbero potuti ritornare ad essere luoghi civici e centri di
umanizzazione, avevo in mente la triste sorte degli Uffizi, asserviti
alle più spietate logiche del mercato. In questi anni ho più volte scritto che
l'enorme responsabilità di questa mutazione era anche da ascrivere al
tradimento di chi ha governato negli ultimi decenni la Soprintendenza di
Firenze: e ho deplorato il fatto che le encomiabili resistenze del direttore
degli Uffizi non avessero mai trovato la forza, né peraltro avessero gli
strumenti di autonomia, per emergere esplicitamente ed efficacemente.
Ebbene, la prime
dichiarazioni del nuovo direttore Eike Schmidt non hanno riguardato la ricerca
o l'accesso dei cittadini alla conoscenza, ma – suscitando il giusto sdegno di Jean Clair – la
sua determinazione ad affittare ai privati le sale del museo per eventi
commerciali e convention di imprese. Evidentemente, Franceschini ha dunque
raggiunto il suo scopo: eliminare anche quell'ultimo residuo di timide
resistenze alla completa mercificazione del nostro patrimonio. Ecco qual era il
famoso ritardo finalmente recuperato.
Spero di sbagliarmi: magari –
nonostante la loro diretta nomina ministeriale – i nuovi direttori saranno più
liberi, coraggiosi e forti dei loro predecessori. Forse si getteranno in quelle
battaglie che sono state disertate dai loro predecessori. Lo spero davvero. Ma
per ora non riesco a vedere nessuna novità, nessuna rivoluzione culturale. Vedo
solo che il lungo smantellamento del progetto della Costituzione sul nostro
patrimonio culturale conosce in questi giorni un nuovo, deprimente traguardo.
fonte: Tomaso Montanari, La Repubblica
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