Sapevo che stava male e lo avevo sentito circa una settimana prima.
Affettuosamente burbero, come sempre, si negava oramai agli incontri, chiuso nella tormentosa attesa della fine, di cui era consapevole.
Per quanti, come me, sono nati alla politica con lui, nel glorioso tentativo di dar vita, a fine 1993, al nuovo “Partito Popolare Italiano”, è un fatto che va oltre il significato della scomparsa dell’uomo politico.
Martinazzoli, infatti, esprimeva il fascino di una personalità che conquistava per il rimando ad un’idea di politica che trascende la contingenza, per risalire alle ragioni ultime di un impegno che trova nella centralità della persona e nell’ispirazione cristiana i suoi primi ed ultimi significati.
Ascoltarlo era sempre un’esperienza straordinaria, che all’apparente timbro del pessimismo faceva seguire, quasi magicamente, la forza della tenacia, sull’onda della suggestione morotea secondo cui il destino dell’uomo rimane quello di “avere sempre fame di sete e di giustizia”. Ineguagliabile, in proposito, era proprio quella citazione di Moro, che era solito offrirci e che costituiva per lui, e divenne per noi che ci affacciavamo alla politica, una sorta di manifesto esistenziale:"Probabilmente, malgrado tutto, l’evoluzione storica, di cui noi saremo stati determinatori, non soddisferà le nostri ideali esigenze; la splendida promessa, che sembra contenuta nell’intrinseca forza e bellezza di quegli ideali, non sarà mantenuta. Ciò vuol dire che gli uomini dovranno pur sempre restare di fronte al diritto e allo stato in una posizione di più o meno acuto pessimismo. E il loro dolore non sarà mai pienamente confortato. Ma questa insoddisfazione, ma questo dolore sono la stessa insoddisfazione dell’uomo di fronte alla sua vita, troppo spesso più angusta e meschina di quanto la sua ideale bellezza sembrerebbe fare legittimamente sperare.
Il dolore dell’uomo che trova di continuo ogni cosa più piccola di quanto vorrebbe, la cui vita è tanto diversa dall’ideale vagheggiato nel sogno. Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino".
Il dolore dell’uomo che trova di continuo ogni cosa più piccola di quanto vorrebbe, la cui vita è tanto diversa dall’ideale vagheggiato nel sogno. Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino".
Da lui molti di noi hanno appreso tutto. Hanno appreso del valore della libertà, sul registro della quale Martinazzoli inscriveva lo stigma peculiare del primo popolarismo, quello sturziano, al quale rinviava lo statuto del nuovo PPI: “Il popolarismo – ci diceva – è innanzitutto un metodo per l’esercizio della libertà”, un esercizio che va coniugato con quello della responsabilità e della solidarietà, sapendo che la libertà viene prima della solidarietà o meglio, per così dire, “la solidarietà è il fiore che fiorisce sullo stelo della libertà”. Per poi aggiungere subito che la politica deve innanzitutto onorare quell’idea e lo deve fare con mitezza, anche se la “la mitezza non va confusa con la rassegnazione”.
Era un uomo politico “diverso”, Mino Martinazzoli. Non a caso non valorizzato come meritava, in un Paese come il nostro, che lui amava profondamente, ma che con i suoi figli migliori ha preso il vezzo di mostrare il suo volto patrigno.
Adesso ha finito i suoi giorni e, chissà?, forse verrà riscoperto.
Ha vissuto gli ultimi anni in compagnia della malattia e, alla fine, in attesa della fine, che si aspettava e quasi a volte sembrava volesse affrettare.
Il cammino verso la fine, in un uomo che già di per sé dava l’idea di vivere un esistenzialismo tormentato e nello stesso tempo illuminato dalla fede, mi ha fatto venire alla mente quanto ha scritto il nostro amato cardinal Martini, a commento del Pensiero sulla morte di Papa Paolo VI:
“Io (…) mi sono più volte lamentato col Signore perché morendo non ha tolto a noi la necessità di morire. Sarebbe stato così bello poter dire: Gesù ha affrontato la morte anche al nostro posto e morti potremmo andare in Paradiso per un sentiero fiorito. Invece Dio ha voluto che passassimo per questo duro calle che è la morte ed entrassimo nell’oscurità, che fa sempre un po’ paura. Mi sono rappacificato col pensiero di dover morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto pieno di fiducia in Dio. (…) La morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio. Ciò che ci attende dopo la morte è un mistero, che richiede da parte nostra un affidamento totale. Desideriamo essere con Gesù e questo nostro desiderio lo esprimiamo a occhi chiusi, alla cieca, mettendoci in tutto nelle sue mani” (…) Come papa Montini “… capace di perdersi in Dio con l’animo di un fanciullo”, termina il cardinale “…desideriamo anche noi godere di quella pace interiore che vince ogni ansietà e si affida a Dio con tutto il cuore”.
Di questo straordinario commento avevamo discusso proprio con Martinazzoli in tempi non sospetti. Ora, con l’affetto che non può non provare chi con animo sereno lo ha conosciuto, io confido che Mino abbia vissuto la fine “con l’animo di un fanciullo”, destinato a trovare la gioia che viene riservata agli uomini giusti.
A quanti di noi si considerano “martinazzoliani non pentiti” il compito di onorare la sua memoria. Seguendo il suo esempio e magari non rinunciando, con Sturzo, a “ricominciare daccapo ad indovinare la via”. La via di una politica che continua ad aspirare alla sua potenziale grandezza, come Mino Martinazzoli ci ha insegnato con l’esempio della sua vita.
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