«Ciao Mino, come va?». Quante volte Helmut Kohl telefonava per informarsi delle vicende della Dc italiana. Non poteva accettare il Cancelliere che un partito che «aveva fatto l’Italia» si dissolvesse per colpa di alcuni suoi esponenti furfanti.
Era preoccupato per l’Italia e per l’Europa. Un giorno lo disse chiaramente Martinazzoli: «Da solo, senza l’appoggio di una Dc italiana forte, non ce la faccio a garantire la linea europeista del Ppe e, se ci molla il Ppe, l’Europa sarà un’altra cosa da come l’avevano pensata i padri fondatori».
A Martinazzoli infatti la Dc aveva affidato la missione impossibile della sua salvezza negli anni dell’uragano tangentopoli. Ma era troppo tardi. Il popolo democristiano in effetti avrebbe voluto già alcuni anni prima che Martinazzoli fosse segretario, almeno dalla fine degli anni ’80 quando De Mita andò a Palazzo Chigi. Martinazzoli era infatti “la carta” della discontinuità, del possibile ricominciamento come si diceva allora. Ma non tutto il gruppo dirigente del partito ne era convinto. Anzi, la caduta del muro nel 1989 secondo alcuni avrebbe aperto praterie infinite alla Dc, tanto valeva approfittarne! Arrivò così la prima discesa sotto il 30% nelle elezioni del 1992, le prime contestazioni periferiche dei dirigenti nazionali e poi l’esplosione di tangentopoli.
Martinazzoli, acclamato a quel punto a gran voce, non poté fare alcun miracolo. Anche se la base si infiammò subito come ai tempi di Zaccagnini e le piazze e i teatri tornarono a riempirsi, ma non altrettanto le urne. Privo della solidarietà vera di gran parte del precedente gruppo dirigente che per lo più assisteva in modo passivo alla demolizione di ciò che pur si doveva, e anche di quanti dall’esterno dichiaravano di parteggiare per il rinnovamento del partito ma non erano disposti ad esporsi più di tanto, Martinazzoli, con la sola forza della propria coscienza e del proprio disinteresse personale, tentò di tracciare il solco di un altro percorso dando vita a un partito nuovo, il Ppi, che conservasse nel nome la fedeltà alle antiche radici e insieme a un nuovo progetto.
Progetto. Su questo Martinazzoli, evocando l’insegnamento di Sturzo, si soffermava spesso riuscendo a mobilitare intelligenze e competenze anche esterne, ma i tempi erano poco propensi a valutare la qualità delle proposte. Alle elezioni del 1994 la lista “Alleanza per l’Italia” presentata insieme a Mario Segni, Giorgio La Malfa e Giuliano Amato raccolse poco meno del 18%, non poco ma troppo poco per quanti dall’interno, spesso dimentichi delle proprie colpe, gridarono subito alla sconfitta. Fu a quel punto che Martinazzoli ritenne di lasciare ad altri il cammino appena iniziato. Si ritirò a Brescia ma non si ritirò dalla politica.
Non si ritirò dall’interesse, dalla passione e dall’intelligenza per le vicende politiche. Sempre disponibile anche ultimamente, negli spazi che gli consentiva la grave malattia, a conversare e dispensare suggerimenti, con il rigore e la severità intellettuale di sempre. Le caratteristiche che avevano fatto di lui un personaggio atipico, scomodo, mai appagato, un po’ solitario, riflessivo, sempre alla ricerca di un punto di approdo.
Un intellettuale solido, i suoi aforismi non erano mai vezzi o civetterie raccolte dal “libro delle citazioni” ma frutto della ruminazione spirituale e culturale di letture classiche oltreché dalla consuetudine di colloqui gratificanti con amici veri come furono per lui Firpo, Galante Garrone, Luzi, Montanelli e, nell’area del partito, Andreatta, Elia, De Rosa e Scoppola.
«Le idee non valgono per quel che rendono ma per quel che costano», amava ripetere ricordando il suo conterraneo padre Bevilacqua. E questa per lui era una regola che applicava a sé e anche al suo partito, quando si esponeva su frontiere del pensiero rischiose perché ritenute da chi gli era vicino troppo innovative.
Si definiva un cattolico liberale, e lo era, anzi “manzoniano” e “rosminiano” per non confondersi con i troppo facili liberisti.
Laico, consapevole della specifica responsabilità posta in capo ai credenti, sulla scia della tradizione cattolico democratica bresciana le cui radici precedono lo stesso Ppi di Luigi Sturzo, si sentiva fortemente coinvolto dal dibattito ecclesiale.
Con lui ho avuto modo, ancora poco tempo fa, di discutere del “testamento biologico”, tema che lo intrigava anche per la sua condizione personale di cui ha sempre posseduto lucida consapevolezza, riscontrando una convergenza di preoccupazioni per la difficoltà a trovare soluzioni a questioni del tutto inedite che confermassero l’idea di uno stato amico dell’uomo: «Del resto non è vero che abbiamo sempre voluto un cambiamento che desse sempre più spazio alla società, equità ai cittadini, che ridefinisse le regole, la moralità, l’autorevolezza di uno stato concepito come stato del valore umano?». Si sentivano in queste riflessioni ascendenze del pensiero di Aldo Moro di cui fu amico e discepolo.
Martinazzoli soffriva moltissimo l’accusa di aver liquidato la Dc: «La Dc l’hanno liquidata altri, io non sono riuscito a farla rinascere perché i danni erano gravi e, per la verità, perché un ciclo storico si era concluso», e perché non vennero raccolte le sue esortazioni, «potevamo essere più democristiani di prima, meno il nostro potere e di più il nostro progetto». Ed era infastidito dagli insistenti richiami al moderatismo, come se fosse possibile costringere la potenza dell’ispirazione cristiana entro i confini angusti di una formula e di una ambizione contratta: «La moderazione è tutto tranne che moderatismo, neutralità, spirito conservatore. La parola moderazione raffigura vocazione trasformatrice e capacità di tolleranza, di armonia, di equità. Significa soprattutto esaltazione della libertà come espressione di verità e di ordine, di autonomia e di responsabilità, di rispetto della persona e di solidarietà fra le persone». In conclusione mi pare si possa dire che ci ha lasciato un uomo politico non consueto, il cui nome sarà per sempre associato al tentativo di evitare con le sole armi dell’intelligenza e della generosità il tracollo della cosiddetta prima repubblica. Ma contro la forza della storia, che chiude e apre le fasi quando cambiano le condizioni, quelle armi non bastarono.
Era preoccupato per l’Italia e per l’Europa. Un giorno lo disse chiaramente Martinazzoli: «Da solo, senza l’appoggio di una Dc italiana forte, non ce la faccio a garantire la linea europeista del Ppe e, se ci molla il Ppe, l’Europa sarà un’altra cosa da come l’avevano pensata i padri fondatori».
A Martinazzoli infatti la Dc aveva affidato la missione impossibile della sua salvezza negli anni dell’uragano tangentopoli. Ma era troppo tardi. Il popolo democristiano in effetti avrebbe voluto già alcuni anni prima che Martinazzoli fosse segretario, almeno dalla fine degli anni ’80 quando De Mita andò a Palazzo Chigi. Martinazzoli era infatti “la carta” della discontinuità, del possibile ricominciamento come si diceva allora. Ma non tutto il gruppo dirigente del partito ne era convinto. Anzi, la caduta del muro nel 1989 secondo alcuni avrebbe aperto praterie infinite alla Dc, tanto valeva approfittarne! Arrivò così la prima discesa sotto il 30% nelle elezioni del 1992, le prime contestazioni periferiche dei dirigenti nazionali e poi l’esplosione di tangentopoli.
Martinazzoli, acclamato a quel punto a gran voce, non poté fare alcun miracolo. Anche se la base si infiammò subito come ai tempi di Zaccagnini e le piazze e i teatri tornarono a riempirsi, ma non altrettanto le urne. Privo della solidarietà vera di gran parte del precedente gruppo dirigente che per lo più assisteva in modo passivo alla demolizione di ciò che pur si doveva, e anche di quanti dall’esterno dichiaravano di parteggiare per il rinnovamento del partito ma non erano disposti ad esporsi più di tanto, Martinazzoli, con la sola forza della propria coscienza e del proprio disinteresse personale, tentò di tracciare il solco di un altro percorso dando vita a un partito nuovo, il Ppi, che conservasse nel nome la fedeltà alle antiche radici e insieme a un nuovo progetto.
Progetto. Su questo Martinazzoli, evocando l’insegnamento di Sturzo, si soffermava spesso riuscendo a mobilitare intelligenze e competenze anche esterne, ma i tempi erano poco propensi a valutare la qualità delle proposte. Alle elezioni del 1994 la lista “Alleanza per l’Italia” presentata insieme a Mario Segni, Giorgio La Malfa e Giuliano Amato raccolse poco meno del 18%, non poco ma troppo poco per quanti dall’interno, spesso dimentichi delle proprie colpe, gridarono subito alla sconfitta. Fu a quel punto che Martinazzoli ritenne di lasciare ad altri il cammino appena iniziato. Si ritirò a Brescia ma non si ritirò dalla politica.
Non si ritirò dall’interesse, dalla passione e dall’intelligenza per le vicende politiche. Sempre disponibile anche ultimamente, negli spazi che gli consentiva la grave malattia, a conversare e dispensare suggerimenti, con il rigore e la severità intellettuale di sempre. Le caratteristiche che avevano fatto di lui un personaggio atipico, scomodo, mai appagato, un po’ solitario, riflessivo, sempre alla ricerca di un punto di approdo.
Un intellettuale solido, i suoi aforismi non erano mai vezzi o civetterie raccolte dal “libro delle citazioni” ma frutto della ruminazione spirituale e culturale di letture classiche oltreché dalla consuetudine di colloqui gratificanti con amici veri come furono per lui Firpo, Galante Garrone, Luzi, Montanelli e, nell’area del partito, Andreatta, Elia, De Rosa e Scoppola.
«Le idee non valgono per quel che rendono ma per quel che costano», amava ripetere ricordando il suo conterraneo padre Bevilacqua. E questa per lui era una regola che applicava a sé e anche al suo partito, quando si esponeva su frontiere del pensiero rischiose perché ritenute da chi gli era vicino troppo innovative.
Si definiva un cattolico liberale, e lo era, anzi “manzoniano” e “rosminiano” per non confondersi con i troppo facili liberisti.
Laico, consapevole della specifica responsabilità posta in capo ai credenti, sulla scia della tradizione cattolico democratica bresciana le cui radici precedono lo stesso Ppi di Luigi Sturzo, si sentiva fortemente coinvolto dal dibattito ecclesiale.
Con lui ho avuto modo, ancora poco tempo fa, di discutere del “testamento biologico”, tema che lo intrigava anche per la sua condizione personale di cui ha sempre posseduto lucida consapevolezza, riscontrando una convergenza di preoccupazioni per la difficoltà a trovare soluzioni a questioni del tutto inedite che confermassero l’idea di uno stato amico dell’uomo: «Del resto non è vero che abbiamo sempre voluto un cambiamento che desse sempre più spazio alla società, equità ai cittadini, che ridefinisse le regole, la moralità, l’autorevolezza di uno stato concepito come stato del valore umano?». Si sentivano in queste riflessioni ascendenze del pensiero di Aldo Moro di cui fu amico e discepolo.
Martinazzoli soffriva moltissimo l’accusa di aver liquidato la Dc: «La Dc l’hanno liquidata altri, io non sono riuscito a farla rinascere perché i danni erano gravi e, per la verità, perché un ciclo storico si era concluso», e perché non vennero raccolte le sue esortazioni, «potevamo essere più democristiani di prima, meno il nostro potere e di più il nostro progetto». Ed era infastidito dagli insistenti richiami al moderatismo, come se fosse possibile costringere la potenza dell’ispirazione cristiana entro i confini angusti di una formula e di una ambizione contratta: «La moderazione è tutto tranne che moderatismo, neutralità, spirito conservatore. La parola moderazione raffigura vocazione trasformatrice e capacità di tolleranza, di armonia, di equità. Significa soprattutto esaltazione della libertà come espressione di verità e di ordine, di autonomia e di responsabilità, di rispetto della persona e di solidarietà fra le persone». In conclusione mi pare si possa dire che ci ha lasciato un uomo politico non consueto, il cui nome sarà per sempre associato al tentativo di evitare con le sole armi dell’intelligenza e della generosità il tracollo della cosiddetta prima repubblica. Ma contro la forza della storia, che chiude e apre le fasi quando cambiano le condizioni, quelle armi non bastarono.
Pierluigi Castagnetti, Europa 6 settembre 2011
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