giovedì 8 settembre 2011

Sul cattolicesimo democratico

La morte di Mino Martinazzoli (1931-2011) è un’occasione per riflettere su che cosa ha rappresentato quel “cattolicesimo democratico” di cui viene considerato, impropriamente, l’ultimo esponente. L’uomo, il suo disinteresse personale, la sua complessità e altre sue virtù sono e saranno celebrate da molti, in questi giorni, ma il cattolicesimo democratico rischia di essere una sigla usata anche a sproposito, e ciò non aiuta a capire un passaggio importante della storia italiana ed europea, e della storia del movimento cattolico. Come al solito, se si vuole capire qualcosa bisogna tornare indietro, all’inizio, alla radice del problema. Più si scava, meglio si comprende.

Di un cattolicesimo democratico si comincia a parlare a fronte del 1789, di quella rivoluzione che cambia l’assetto politico della Francia, e tramite Napoleone, anche dell’Europa. La fine dell’unità fra Chiesa e Stato che aveva contrassegnato l’Antico Regime costringe i cattolici a diventare una componente in competizione con altre: nascono i movimenti cattolici in conflitto con quelli liberali, nazionalisti e socialisti. Ma i cattolici si dividono e i cattolici democratici sono quelli che “leggono” con entusiasmo la novità della Rivoluzione e cercano di far nascere un progetto culturale e politico che “metta insieme” il cristianesimo con diversi aspetti dell’ideologia rivoluzionaria. Semplifico, ma non troppo.

Diversa è la posizione dei cattolici liberali (o considerati tali) e dei controrivoluzionari, che sono quelli meno conosciuti e più confusi con la nostalgia per l’Antico Regime. Joseph de Maistre verrà correttamente definito “un pensatore dell’origine”, per indicare il fatto che voleva tornare al progetto originario di Dio sull’uomo, non a una situazione storica. In realtà pochissimi vogliono tornare a quel legame troppo stretto fra trono e altare che era soprattutto una conseguenza delle guerre di religione successive alla Riforma protestante e alla nascita di quegli Stati assoluti che prevedevano (soprattutto i Paesi protestanti) la religione di Stato.

In Italia, le cose assumono caratteristiche particolari per via del Risorgimento e del potere temporale della Chiesa, che finisce nel 1870. Il movimento cattolico sarà caratterizzato fino alla fine del secolo da una posizione “intransigente”, di condanna e rifiuto dei “fatti compiuti” appunto con la conquista militare di Roma da parte del nuovo Stato italiano, nel 1870. Sarà verso la fine del secolo che i cattolici democratici o democratici cristiani arriveranno alla guida del movimento cattolico, che allora si chiamava Opera dei Congressi, provocando reazione e condanna da parte della Santa Sede, che scioglierà l’Opera nel 1904, dopo trent’anni di attività. Il nome più famoso, allora, è quello di don Romolo Murri, che però finisce fuori dalla Chiesa, scomunicato sia per i suoi legami con l’eresia modernista, sia per le scelte personali e politiche (sarà eletto nelle fila del partito radicale, abbandonerà il sacerdozio, aderirà al fascismo, per finire riconciliato con la Chiesa nel 1944 dopo un percorso tortuoso). Altri democratici cristiani che lo avevano seguito e ritenuto un maestro, come don Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi, non lo seguiranno sulla strada della rottura con la Chiesa.

Il cattolicesimo liberale, che spesso viene sovrapposto a quello democratico, ha un’altra storia. Proviene dal filone transigente, costituito da quei cattolici che volevano la costituzione di un partito conservatore che permettesse ai cattolici di partecipare alle elezioni dopo la costituzione del Regno d’Italia nel 1861, a conclusione del Risorgimento. Alcuni di essi erano assolutamente ortodossi, altri avevano idee più problematiche, a proposito della Chiesa. Giudicheranno con favore gli accordi fra cattolici e liberali moderati in funzione antisocialista e per la difesa dei “principi non negoziabili” di allora (il cosiddetto eptalogo composto da sette punti irrinunciabili per la dottrina sociale della Chiesa) che culmineranno nel Patto Gentiloni del 1913, inviso invece ai democratici cristiani.

Poi si arriverà al partito, dopo la tragedia della Prima guerra mondiale, con il Partito popolare di Sturzo, e dopo la Seconda guerra mondiale, con la Dc, il partito del quale appunto Martinazzoli sarà l’ultimo segretario. In questo partito entrano anime diverse, come gli ex popolari, fra cui De Gasperi, i cosiddetti “professorini” dell’Università Cattolica, Giuseppe Dossetti, Giuseppe Lazzati, Amintore Fanfani, esponenti come Giorgio La Pira, i sindacalisti di Giovanni Gronchi e i neoguelfi di Piero Malvestiti e gli uomini dell’Azione Cattolica, che avevano come punto di riferimento il fondatore dei Comitati Civici Luigi Gedda.

Il partito avrà una lunga storia
e si dividerà in molte correnti, soprattutto dopo la sconfitta politica e la morte di De Gasperi, nel 1954. L’importante vittoria alle elezioni del 18 aprile 1948 rimarrà senza eredi e, così come accadrà anche per i governi centristi successivi, sarà celebrata più dai vinti che dai vincitori, come ha scritto lo storico Pietro Scoppola. Questa anomalia peserà sulla storia italiana e accompagnerà tutta la Prima Repubblica, fino alla sua fine in occasione delle elezioni del 1994, che vedranno la vittoria della coalizione di centro-destra sulla “gioiosa macchina da guerra” dell’ex segretario comunista Achille Occhetto.

Martinazzoli, nel frattempo, aveva sciolto la Dc e fondato, meglio rifatto nascere un Partito popolare che si collocò al centro in una elezione con sistema maggioritario, risultando sconfitto e ininfluente. Come dirà lui stesso in un’intervista al Corriere della Sera, i democratici cristiani non avevano capito la portata storica della caduta del Muro di Berlino, nel 1989, che “liberava” l’elettorato dall’obbligo di votare la Dc.

Marco Invernizzi, La bussola quotidiana

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