martedì 6 settembre 2011

Un richiamo che resta

«Per noi non c’è che il tentare/ Il resto non ci riguarda». Più volte questo verso di Eliot tornava nei discorsi di Mino Martinazzoli, morto domenica mattina a Caionvico, vicino a Brescia, a poche settimane dal suo ottantesimo compleanno. Non era questo verso l’unico riferimento di questo politico atipico e sostanzialmente “solitario” nel panorama italiano – nonostante i prestigiosi incarichi ricoperti nella Democrazia Cristiana e nel governo in quegli anni ’80 del secolo scorso che videro l’occupazione sempre più degradante della società, la fine del comunismo, l’esplodere di Tangentopoli.

C’erano in Martinazzoli a più riprese il richiamo al lombardo Alessandro Manzoni ma anche a Gadda, a Luzi, e, sul piano più politico, a Rosmini, a Tocqueville, a Sturzo. «Martinazzoli coltiva il vezzo decadente dell’esteta – ha notato il giornalista Massimo Franco – Litoti, ossimori, altri artifici retorici. E poi citazioni dotte, tipiche di chi ama sfoggiare buone letture». Nessuna superbia intellettuale in lui, ma questi richiami lo aiutavano a cogliere – e i suoi ascoltatori lo avvertivano – la voglia di cambiamento della società italiana al quale avrebbe contribuito anche la breve esperienza del Partito Popolare. Certo, le elezioni dei 27 marzo 1994 con la vittoria del centrodestra di Berlusconi e la sconfitta della “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto avevano svuotato il suo progetto. Era mancato infatti al Pp «la capacità di decisioni lucide, continuità di scelte, un lavoro accorto ed intenso», come avrebbe scritto Martinazzoli del partito nel fax inviato da Brescia il 30 marzo ai responsabili del Pp annunciando le sue dimissioni ( e consegnandoci il testo manoscritto, ndr). Una decisione che gli è valsa l’accusa di aver liquidato frettolosamente il Partito Popolare, ponendo fine ad una presenza organizzata dei cattolici democratici e favorendo in tal modo una diaspora di partiti e partitini a ispirazione cristiana ininfluenti nello scenario dominato da Berlusconi.

In realtà la storia è più complessa. Inserito nel filone di quel cattolicesimo bresciano che tanta parte ha avuto nella storia del nostro Paese, Martinazzoli aveva iniziato l’impegno politico come consigliere comunale ed assessore nel suo paese natale Orzinuovi, approdando poi alla presidenza della provincia di Brescia. In un partito come la Dc, dove avevano sempre più peso le correnti organizzate attorno a questo o quel leader, Martinazzoli, pur riconoscendosi nelle posizioni della “Base”, restava un “solitario” ma con autorevolezza crescente che avrebbe portato questo strano democristiano, prima a Montecitorio, poi a Palazzo Madama, arrivando a presedere il gruppo parlamentare, a ricoprire l’incarico di presidente della commissione inquirente e poi a divenire ministro della Giustizia(e con l’ironia che lo ha sempre contraddistinto avrebbe rivendicato a suo merito la riforma delle buste per la trasmissione degli atti giudiziari), della Difesa e poi delle Riforme istituzionali. Un crescere d’incarichi al quale egli guardava con distacco ma che si sarebbe scontrato con la crisi, irreversibile, della Democrazia Cristiana travolta da Tangentopoli. “Mino il solitario” veniva percepito in un partito sempre più allo sbando come il politico in grado, per la sua rettitudine e per il suo percorso politico senza macchie, di guidarlo fuori dalla tempesta. Nell’ottobre 1992 il Consiglio nazionale lo acclamava segretario del partito. Ma Martinazzoli avvertiva l’esigenza di una discontinuità – anche nel nome – dell’impegno politico dei cattolici democratici. Nasceva il Partito popolare, che avrebbe dovuto aprire una nuova fase nella vita democratica del Paese. Intanto sullo scenario italiano si era affacciato, alla guida del centrodestra, Silvio Berlusconi con il suo carisma di modernizzatore contro la sinistra. Alcuni democristiani come Casini e Mastella scelsero di accompagnare il suo progetto. Il Partito Popolare alleato con Segni e con Tremonti, dovette affrontare le elezioni politiche in una posizione scomoda. Dopo un fallito tentativo di accordo con il Cavaliere: «Berlusconi non voleva un’intesa, ma assorbirci», avrebbe commentato asciuttamente Martinazzoli. Il voto avrebbe penalizzato il polo imperniato sul Ppi, sebbene il centrodestra – con Forza Italia più la Lega al Nord e il Movimento sociale al Sud – avesse mancato la maggioranza assoluta al Senato. Ma al varo del governo Berlusconi una piccola pattuglia di senatori popolari scelsero il sì o l’assenza dall’aula. Martinazzoli, a quel punto, era già dimissionario. Non avrebbe abbandonato comunque il suo impegno. Pochi mesi dopo sarebbe stato eletto sindaco di Brescia, poi sarebbe stato candidato, sconfitto, per il centrosinistra alla presidenza della Lombardia contro Formigoni.

Fino all’ultimo, ancora pochi giorni fa, Martinazzoli non ha smesso di richiamare i cattolici a un impegno nuovo, originale contro l’imbarbarimento della politica. Un richiamo che resta
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Antonio Airò, Avvenire, 6 settembre 2011

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