mercoledì 12 ottobre 2011

Il diritto all'insolvenza

Diritto all'insolvenza. Insieme con salario minimo garantito, cancellazione dell'art. 8 della finanziaria e dell'accordo tra sindacati e Confindustria del 28 giugno, c'è anche questa tra le richieste messe nero su bianco dagli indignati. E finite in una lettera che la delegazione del Coordinamento milanese che raggruppa diverse associazioni e sigle sindacali - da San Precario a Cub e Usb - ha consegnato il 12 ottobre nelle mani del vicedirettore di Bankitalia Giovanni Mario Alfieri, indirizzata «all'attenzione dei direttori della Banca Centrale italiana e europea Mario Draghi e Jean-Claude Trichet».
CARTEGGIO PROVOCATORIO. Una «risposta provocatoria», hanno spiegato gli attivisti, «al documento che i due banchieri hanno indirizzato lo scorso 5 agosto al governo italiano».
Gli indignati nostrani - che mercoledì hanno inaugurato una quattro giorni di proteste in vista della Giornata contro l'Austerity del 15 ottobre - hanno così sconfessato il dogma del momento: linserimento del pareggio di bilancio in Costituzione. E chiesto, semplicemente, la cancellazione sia del debito pubblico, sia di quello che grava sulle spalle delle famiglie messe in difficoltà dalla crisi economica. In barba al paventato rischio default.
NO AUSTERITY, SÌ WELFARE. La piattaforma dei 'draghi ribelli' è dunque lontana anni luce da quei suggerimenti 'riservati' giunti al governo italiano dall'Eurotower a inizio agosto. I manifestanti chiedono più spesa e nessun taglio al welfare, investimenti in ricerca e formazione e non flessibilità nei licenziamenti, più presenza (produttiva) dello Stato e regole ferree contro la speculazione internazionale. E la bancarotta? Non è più un problema, almeno non è il più urgente, pare.

Negli ultimi 20 anni diverse nazioni hanno assistito al collasso della propria economia: dal Messico alla Russia, fino all'Argentina. Più di recente, è stata l'Islanda a risvegliarsi, all'indomani del crac Lehman Brothers, con le prime tre banche del Paese che avevano un debito 10 volte superiore all'intero Pil nazionale.
IL CASO ISLANDESE. L'Isola dei ghiacci dichiarò bancarotta: la Borsa di Reykjavik perse l'80% e la corona si svalutò del 70%.
Il piccolo Stato ottenne 2,1 miliardi di prestito dall'Fmi e avviò un lento percorso di risanamento che oggi lo ha portato ad avere una crescita annua che si assesta attorno al 2%.
Certo, vige ancora il blocco dei capitali, l'inflazione è al 4,5% nonostante i recenti progressi e gli islandesi che vanno all'estero non possono portare con sé più di 2.500 euro. Inoltre l'economia dipende tuttora in gran misura dalle importazioni e la moneta rimane svalutata. Malgrado ciò, le prospettive di ripresa sono concrete e in molti sognano addirittura di entrare nel pur traballante euro. Il default dunque non è stato quindi l'apocalisse.
«INSOLVENZA APOCALITTICA». «Sì, ma l'Italia è tutta un'altra storia», ha spiegato a Lettera43.it Fabiano Schivardi, professore straordinario di Economia politica all'Università di Cagliari. «La nostra insolvenza rappresenta uno scenario ancora improbabile e comunque apocalittico».
Il default dello Stato si trasferirebbe immediatamente alle banche che hanno il debito sovrano in portafoglio. Queste, a loro volta, chiuderebbero i rubinetti del credito alle imprese portando a un crollo dell'occupazione, portandosi dietro anche i consumi. «E in tutto questo, lo Stato non riuscirebbe a ottemperare le sue funzioni fondamentali».
A RISCHIO EUROLANDIA. Insomma, in caso di bancarotta, secondo Schivardi, «servirebbe al Paese almeno un decennio per rinascere dalle macerie», inoltre «in queste condizioni, è improbabile che la costruzione europea possa rimanere in piedi».
Certo, non c'è alcuna connessione automatica tra insolvenza e uscita dalla moneta unica, visto che i trattati europei non prendono nemmeno in considerazione l'ipotesi che un Paese membro abbandoni Eurolandia.
«La caduta dell'Italia aprirebbe scenari imprevedibili», ha fatto notare l'economista. «Il problema è che la moneta unica, paradossalmente, è un progetto che non si basa su teorie economiche, bensì sull'idea tutta politica di unificare l'Europa in un regime di pace. Gli economisti hanno sempre saputo», ha aggiunto Schivardi, «che Eurolandia non era un'area sufficientemente omogenea».

Se l'Italia abbandonasse l'euro, potrebbe però tornare a usare la leva monetaria, svalutare, far volare le esportazioni e monetizzare il debito pubblico, riducendolo attraverso l’acquisto sul mercato aperto di grossi quantitativi di titoli.
RISTRUTTURAZIONE BLOCCATA. Tuttavia il porfessore non ha auspicato uno sbocco del genere: «D'impatto ci darebbe una spinta in avanti, ma poi bloccherebbe la ristrutturazione del sistema industriale che ancora va completata e che in passato è stata frenata proprio dalle svalutazioni competitive». Secondo Schivardi si tratta di un meccanismo funzionale per le economie in via di sviluppo, «non per l'Italia che è già pienamente sviluppata esi trova a competere non sul prezzo ma su innovazione e qualità del prodotto».
PAREGGIO DI BILANCIO. L'introduzione del pareggio in bilancio nella Carta costituzionale, osteggiata dagli indignati, è secondo il docente, una misura più simbolica che altro. «Sarebbe inutile nel mondo ideale», ha concluso l'economista, «nel mondo in cui una politica responsabile non scarica sulle generazioni future il peso delle spese, come si è fatto negli Anni 80 e nei primi Anni 90. Anzi, in quel caso sarebbe giusto avere la libertà di bilancio e la possibilità di spendere nei momenti di crisi per poi rientrare quando l'economia torna a tirare».
Però, ha osservato Schivardi, «con questa politica senza briglie che spende più di quanto tassa, la norma del pareggio di bilancio nella Carta non rappresenta una misura concreta, utile solo a rassicurare i mercati».

Lettera 43, 12 Ottobre 2011

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