Non sbaglia l’arcivescovo di Ferrara Luigi Negri a definirlo nella
sua effervescente introduzione «uno straordinario testo». È il saggio su
Paul Claudel e Charles Péguy, esaminati quasi al microscopio da Henri
De Lubac, uno dei padri del Concilio Vaticano II, e Jean Bastaire,
giornalista e discepolo del grande gesuita francese. Il primo morirà
cardinale nel 1991. Il secondo, classe 1927, approdato al cristianesimo
grazie a Péguy, ha consacrato la vita allo studio del poeta di Orléans,
caduto in guerra il 5 settembre 1914, primo giorno della battaglia della
Marna. Così, allo scoccare dei quarant’anni dell’edizione francese,
arriva finalmente la prima traduzione italiana di un saggio tanto
penetrante quanto avvincente sulle relazioni, al tempo stesso di stima e
di allergia reciproca, tra i due maggiori scrittori cristiani del
secolo scorso.
Edito dalla fondazione veneziana (Marcianum) voluta dal patriarca e
ora arcivescovo di Milano Angelo Scola, il volume fu concepito in vista
del centenario della nascita di Péguy e doveva essere una presentazione
del carteggio custodito presso il Centro Charles Péguy di Orléans.
Quattro lettere di Claudel, una di Péguy e quattro dediche di Péguy a
Claudel. «Così verso la fine – annoterà De Lubac – ho avuto l’occasione
di salutare due geni che ho abbinato (quasi di nascosto, perché intorno a
me nessuno sembrava riconoscerne il valore) fin dall’inizio del mio
noviziato nel 1913, in un taccuino che mi ha accompagnato per lungo
tempo. La lettura di Claudel mi esaltava e mi esauriva; quella di Péguy,
anche nelle sue polemiche più fumose, mi rilassava sempre».
Problemi di salute impediranno a De Lubac di proseguire l’impresa
oltre il centinaio di pagine introduttive. Così toccò a Bastaire
annodare il filo dell’opera. Il risultato appare così convincente che
l’unica domanda che sorge nel lettore è: com’è possibile che un gioiello
del genere sia rimasto insabbiato per quasi mezzo secolo? Il peguyano
Antonio Socci risponderebbe: «Sono le curie che interessano ai media,
non i cristiani (e neanche i santi). Come diceva Péguy, le “curie
clericali” e le “curie anticlericali” si trovano sempre accomunate dal
loro orizzonte, che infine è un orizzonte politico e di potere.
Paradossalmente fra coloro che si possono definire “non clericali” ci
sono proprio Joseph Ratzinger e Jorge M. Bergoglio». È talmente giusta
questa osservazione che, a fronte dell’irrilevanza culturale
dell’editoria cattolica, la sorpresa di questo libro sembra della stessa
luminosa natura dell’imprevedibilità di papa Francesco e dell’amicizia
tra i due, Bergoglio e Ratzinger.
Cosa dice la Lumen Fidei a
proposito dell’amore se non, essenzialmente, che «non esiste amore
senza verità»? Sembra l’enciclica fatta apposta per illuminare ciò che
ha unito anche Péguy e Claudel, pur nel contrasto di temperamenti così
apparentemente opposti. «Mi spiace non averlo conosciuto», scriverà
all’indomani della morte dell’autore del trittico dei Misteri
il poeta ambasciatore Claudel. «Aveva una cattiva opinione di me.
Credeva fossi un franco-massone», aveva sospettato Péguy. «Claudel è un
grande artista, ma non è intelligente». E in un certo senso il giudizio
sembrava cogliere nel segno se è vero che l’autore dell’Annuncio a Maria
una volta confidò a un amico: «Ma in fin dei conti, chi è questo Péguy?
E cosa vuole? I suoi figli non sono neppure battezzati ma li affida
alla Santa Vergine. Non riesco proprio a capire».
In realtà l’intelligenza di Claudel, che era stato avvicinato alla
lettura di Péguy niente meno che dal giovane André Gide, aveva capito
una cosa essenziale dell’anarco-socialista e cattolico escluso da tutti i
sacramenti: «Definire Péguy un convertito… Sarebbe più giusto affermare
che un giorno egli si accorse di essere diventato cristiano. È così che
il Cher o l’Indro avvertono impercettibilmente di essere confluiti
nella Loira e di avere iniziato a dare impulso ai suoi flutti e al suo
corso». Solo Péguy fu più esatto. «È per un approfondimento costante del
mio cuore sul medesimo cammino e non è affatto per un’evoluzione né per
un ripensamento che ho trovato la strada del cristianesimo». Una volta
sola Péguy chiese appuntamento a Claudel. E quell’unica volta Claudel
non rispose. «Onoro Péguy ma con distacco. Camminiamo su due binari
completamente separati che si incontrano solo idealmente». Era il 1930.
L’amministratore dei Cahiers era morto da sedici anni. E dire
che lui, l’«istitutore sporco d’inchiostro fino alla punta del naso»
come lo chiamava Claudel, ci ha avvertiti: «Dobbiamo guardarci dai
parroci. Essi non hanno fede o ne hanno poca. La fede, quando c’è, si
può trovare nei laici».
Sconvolgente Péguy che condivideva con Cartesio la ripugnanza per l’inazione e anche per la sola esitazione. «Qualunque cosa è meglio che girare a vuoto. Muoversi, avanzare, arrivare da qualche parte. Arrivare altrove piuttosto che non arrivare… L’errore più grande ancora una volta è errare». Comprensibile che l’ultima parola di Claudel su Péguy sia stata la conferma di una fraternità vera, ma nella radicale diversità. «Siamo ambedue cristiani giunti alla religione in maniera particolare… non per la via abituale. Ma devo riconoscere che non abbiamo scalato dallo stesso lato, eravamo su versanti differenti… avremmo potuto incontrarci soltanto in cima».
Contrasti apparenti, insisterà a spiegare il gesuita Pierre Ganne.
«Claudel, che si definiva un “uomo d’ordine”, era profondamente
anarchico; Peguy, il “rivoluzionario”, portava in sé quasi l’ossessione
dell’“ordine organico” della “città Armoniosa”». Il fatto curioso è che
doveva arrivare De Lubac a puntualizzare con dovizia di particolari il
controverso quadro culturale e la filologia degli opposti che
convivevano nei Cahiers (i grandi della letteratura francese
sono passati di lì, ma per decenni il loro editore restò un signor
nessuno). E dimostrare che piuttosto che una “rivista” letteraria «i Cahiers non cesseranno mai di essere uno strumento di lotta».
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