«Ma in quali mani si trovano, gran Dio! Perché mai il Cielo invia tali ricchezze a gente così poco in grado di apprezzarle?». La celebre invettiva lanciata nel 1776 da Alphonse de Sade davanti alle rovine di Pompei sarà stata ripetuta chissà quante volte, parola più parola meno, dai turisti bloccati dai cancelli chiusi nel «venerdì nero» dei beni culturali. Scaricare sui custodi tutta la colpa di questa figuraccia mondiale, che ha spinto l'Unesco a lanciarci un umiliante ultimatum pochi giorni dopo averci riconosciuto altri tre siti patrimonio dell'umanità, però, è troppo facile.
Certo, scegliendo di lasciar fuori dalla porta, sotto il sole, da un capo all'altro della penisola, com'era già successo al Colosseo, migliaia di turisti venuti dalle più lontane contrade perché innamorati del nostro Paese, i custodi si sono assunti pesanti responsabilità. In momenti come questo la reputazione dell'Italia dovrebbe venire prima di qualunque altra cosa. Perfino delle battaglie contrattuali giuste.
Ed è francamente inaccettabile che il comunicato ufficiale di tutte le organizzazioni sindacali diffuso a Napoli per spiegare l'agitazione non contenga neppure un cenno di scuse, manco uno, verso quei visitatori bloccati a Pompei, Oplontis o Ercolano dopo essere arrivati da Vancouver o da Tokio. Non si fa così.
Detto questo, le assemblee destinate a bloccare gli ingressi dei musei il 28 giugno erano state comunicate al ministero, come prova un documento ufficiale, il 10 giugno. In questi casi, dicono i sindacati, «un ministro subito si muove, convoca, discute, ascolta, propone. Invece Massimo Bray cosa fa? Ci dà appuntamento per l'8 luglio! Quattro settimane dopo!».
Beghe contrattuali loro? No. Episodi come il «venerdì nero» dei nostri musei e dei nostri siti archeologici, infatti, finiscono per rimbalzare sui giornali di mezzo mondo. Rinsaldano antichi pregiudizi sulla inaffidabilità degli italiani. E vanno a incidere profondamente nelle tabelle che poi pesano sul nostro credito internazionale quindi anche sulla nostra economia.
Basti dire che il Country Brand Index 2013, la classifica sulla reputazione di 118 Paesi stilata dall'agenzia FutureBrand, vede il «marchio Italia» primo tra i sogni dei visitatori stranieri, primo nella tabella del patrimonio culturale, primo nella cucina. Eppure perdiamo cinque posizioni su 2012 scivolando al 15º posto. Per non dire della graduatoria Travel & Tourism del World Economic Forum sulla competitività turistica che ci vede arrancare al 26º posto.
Non basta possedere il Colosseo e Taormina, le mura di Palmanova o Selinunte: devi occupartene. Garantire trasporti, una rete web decente, alberghi e ristoranti decorosi ma non avidi, sicurezza sul fronte della piccola criminalità. Ma soprattutto devi mostrarti consapevole delle ricchezze che hai e coscienzioso nella loro gestione. E qui non ci siamo proprio.
Dal 2001 ad oggi, mentre gli altri Paesi si muovevano in direzione opposta, gli investimenti sulla cultura sono calati dal 39% al 19% del nostro Pil. E i risultati si vedono. Anche nelle carenze del personale di chi dovrebbe occuparsi dei nostri tesori. Come ha scritto Vittorio Emiliani, in tutta l'Italia «gli archeologi in organico sono 343 per oltre 700 siti archeologici e monumenti dello Stato, spesso di dimensioni imponenti, e magari in località decentrate. Più altri 1.300 siti su cui vigilare. Non va meglio con gli storici dell'arte scesi a 453 per altrettanti musei dello Stato, più altri tremila circa su cui vigilare, centomila fra chiese e cappelle (nel Sud veri e propri musei), 734 musei ecclesiastici, ecc...».
Un panorama agghiacciante, per un Paese che si vanta di avere più siti Unesco di qualunque altro. Fatto sta che gli stranieri, davanti alle condizioni in cui versano le cascine di Tavola di Lorenzo il Magnifico o la reggia di Caserta, il castello di Cusago o la residenza borbonica di Carditello, la cittadella di Alessandria o l'anfiteatro di Paestum segato a metà dalla strada mai rimossa per non infastidire i gelatai e i mercanti di souvenir, restano allibiti.
Quanto ai custodi in carico al ministero, sono meno di 9 mila (contro un organico fissato in 12 mila), hanno in media 58 anni (dopo una giornata passata in piedi sono a pezzi), lavorano per contratto non più di 26 turni festivi all'anno, vanno in pensione senza essere reintegrati e denunciano di non ricevere da mesi la mercede concordata per gli straordinari. Risultato: dopo esser stato esteso dalle 9 alle 19 con aperture nei festivi fino a mezzanotte, l'orario rischia d'essere ridotto.
Di idee per marcare una svolta ce ne sarebbero pure. Ad esempio Gianfranco Cerasoli, storico punto di riferimento della Uil per i beni culturali, propone di far pagare almeno un euro, il costo di un caffè, a quei 20 milioni di visitatori che entrano gratis grazie alle tante esenzioni: basterebbero ad assumere duemila persone nei periodi di piena. Ma ce l'hanno, le controparti, l'elasticità necessaria?
In Sicilia l'assessore Mariarita Sgarlata, tirandosi addosso le ire dei pezzi più corporativi del sindacato, ha denunciato ad esempio l'assurdità di avere oltre 1.200 custodi di cui 484 a Palermo con vuoti da incubo nei musei e nei siti disagiati. Per non dire di certi furbetti che avendo concordato con la giunta Lombardo di fare solo 10 domeniche l'anno pagate in soldoni e non con riposi compensativi, si autogestiscono bruciando i turni nei mesi invernali coi musei vuoti per poi battere cassa per altri straordinari quando arriva l'emergenza a Pasqua e in estate.
Ecco: Pompei, come hanno scritto il New York Times o Le Monde, è la metafora di tutto questo. Cioè dell'abuso di un patrimonio immenso sprecato giorno dopo giorno per sciatteria, egoismi, cecità. Basti leggere il dossier degli inviati dell'Unesco. Scandalizzati dalla scoperta che 50 domus su 73 sono chiuse al pubblico, compresa quella dei Vettii, sbarrata per restauri dal lontano 2003.
O che su terreno archeologico, come inutilmente aveva denunciato il presidente dell'osservatorio archeologico Antonio Irlando, sono stati edificati nuovi magazzini «impressionanti» mentre l'Antiquarium resta chiuso dal 1977. O che esiste una carenza «allarmante» di tecnici addetti alla manutenzione, come i mosaicisti (l'ultimo è andato in pensione il 1° aprile 2001: dodici anni fa) con il risultato che perfino il mosaico più famoso, quello del «cave canem» all'ingresso della domus del Poeta Tragico, è ormai sfigurato dall'incuria.
Come ricorda Vincenzo Esposito sul Corriere del Mezzogiorno, gli esperti dell'Unesco scrivono nel loro rapporto che «in quasi tutte le domus sono stati trovati affreschi in pericolo, mosaici a rischio e una allarmante vegetazione che invade peristili e atri. Molto preoccupanti sono giudicate le infiltrazioni d'acqua».
Il giudizio sulla ristrutturazione del teatro decisa da Marcello Fiori, il commissario della protezione civile mandato da Bondi, denunciata dal Corriere e seguita da un'inchiesta giudiziaria, è pesantissimo: «Nella prospettiva di organizzare spettacoli numerosi e grandiosi (...) il teatro ha subito una ripugnante ristrutturazione in tufo dei suoi gradini di marmo e l'installazione dietro la scena di un certo numero di baracche tipo container da cantiere...».
E torniamo ad Alphonse de Sade: «Cosa direbbero questi maestri, questi amatori delle arti belle, se bucando lo spessore delle lave che li hanno inghiottiti potessero tornare alla luce e vedere i loro capolavori affidati a mani così?».
fonte, Corriere della Sera, G.A. Stella, 1 luglio 2013
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