BOLDRINI VUOLE IL VOCABOLARIO AL FEMMINILE
Alessandra Longo per “la Repubblica”
Mai
più «signor presidente» ma «signora presidente; mai più «signor
ministro» ma «signora ministro»; mai più «signor capogruppo» ma «signora
capogruppo». La presidente della Camera Laura Boldrini scrive una
lettera ai deputati, al «caro collega» e «alla cara collega», in cui
invita, ancora una volta, ma in maniera più perentoria, ad usare la
declinazione al femminile.
Per
Boldrini è un tema sensibile, non un capriccio: «Tra i tanti diritti, a
cominciare dal lavoro che manca, a un welfare degno di questo nome, le
donne hanno anche il diritto ad essere definite rispetto al genere di
appartenenza, di non essere espropriate della loro identità quando
ricoprono dei ruoli che storicamente sono stati riservati agli uomini e
dunque declinati al maschile».
L’appello
a voltare pagina è «rappresentato anche alla segretaria generale della
Camera», responsabile della pubblicazione dei resoconti parlamentari.
Resoconti che sovente violano il principio della parità di gender. Alla
vigilia dell’8 marzo, approfittando di un convegno sul linguaggio di
genere, la battaglia della presidente si riaccende, con la massima
approvazione da parte della signora vicepresidente del Senato Valeria
Fedeli che annuncia intenzioni analoghe a Palazzo Madama.
Ereditato
il posto di Gianfranco Fini, Laura Boldrini fece cambiare subito la
carta intestata (era scritto: il presidente). Questione vecchia,
obiettivo alto: «Adeguare il linguaggio parlamentare al ruolo
istituzionale, sociale e professionale assunto dalle donne». Dal web
arrivano ora proteste e insulti: «Certo che hai un sacco di lavoro da
fare per pensare a queste s.».
E
ancora: «Brava e intelligenta!». Lei tira avanti, abituata alla
«misoginia» dei social di cui è stata più volte bersaglio. Il termine al
femminile sarebbe cacofonico? «Affermazione da smontare — dice Boldrini
— la lingua evolve con la società. E’ brutto dire la sindaca,
l’assessora ma va benissimo dire la maestra, la contadina... smontiamola
questa cosa!».
Una
parte del mondo femminile è prudente forse perché ministro evoca più
attributi metaforici di ministra, forse perché secoli di estromissione
dai ruoli di vertice hanno reso le donne «conservatrici nella lingua».
Andando a spulciare i resoconti parlamentari, ci imbattiamo negli
interventi di Giorgia Meloni, Michaela Biancofiore, Nunzia De Girolamo.
Si rivolgono tutte a Boldrini con un tuonante «signor presidente!».
Mara
Carfagna è in linea: «Non mi sono mai offesa quando mi chiamavano
ministro. Il linguaggio è importante ma le priorità sono altre». «A
quelli che mi dicono che “i problemi sono altri”, che “non è questo è il
momento” — ribatte ferma la presidente — rispondo che tutto si tiene:
l’immagine, la parola, il riconoscimento delle donne e il loro ruolo
nella società. Se rimandiamo sempre, il momento non viene mai».
Quindi
tutti/tutte in riga. L’Accademia della Crusca sembra appoggiare la
“necessaria” rivoluzione. Leggete l’analisi di Cecilia Robustelli
sull’«androcentrismo» linguistico. L’ostilità al nuovo? Nasce anche da
una valutazione estetica: ministra è considerato meno bello di ministro;
ingegnera fa davvero i brividi. Tuttavia dietro queste ritrosie,
secondo la professoressa Robustelli, si celano «ragioni di tipo
culturale».
A
farla breve, il mondo è ancora maschio. Altro che «impuntatura
tardofemminista». Boldrini invidia la Francia dove la signora presidente
dell’Assemblea nazionale francese, Sandrine Mazetier, ha inflitto una
multa da 1378 euro a un deputato che continuava ostinatamente a
chiamarla «il presidente».
2 - DAI MONITI SUL JOBS ACT AL CONFLITTO COL PREMIER: IL PROTAGONISMO DELLA PRESIDENTE LAURA
LAURA BOLDRINI 3
Filippo Ceccarelli per “la Repubblica”
Fare
il presidente della Camera non è per niente facile, in Italia, perché
non si capisce se si tratta ancora di una repubblica parlamentare, o se
già divenuta presidenziale, o se magari nel frattempo si è insediato un
caotico miscuglio di forme istituzionali, comunque aperto alle
meraviglie e alle nequizie del possibile.
In
quest’ultimo caso, che poi appare forse come il più plausibile, ampio
spazio si conquistano le risorse spettacolari e dell’immaginario. Così
se ieri il presidente del Consiglio Renzi ha detto all’ Espresso che
Laura Boldrini a suo parere «è uscita dal suo perimetro di intervento
istituzionale», e lei non gli ha (ancora) risposto, magari è bene sapere
che dopodomani, domenica 8 marzo, festa della donna, nella sala della
Regina e nel quadro dell’iniziativa «Montecitorio a porte aperte»,
insieme alla presidente della Camera dei deputati interverrà l’attrice
Gabriella Germani, che della Boldrini è la più nota imitatrice
(radiofonica, nel programma di Fiorello).
La
performance ha come titolo: «Gabriella e le sue donne». Germani
simulerà dinanzi al pubblico altre figure della vita pubblica italiana,
Meloni, Santanché, Finocchiaro, Mussolini e così via. Rispetto al severo
richiamo del premier può sembrare una questioncina di colore o
d’intrattenimento.
Sennonché,
come Renzi sa meglio di chiunque altro, al giorno d’oggi la conquista
dell’attenzione vale quanto la sostanza politica, anzi a volte fa parte
della medesima e non di rado vi si identifica secondo le logiche di una
personalizzazione portata alle estreme conseguenze.
In
questo senso si può aggiungere che quando l’iniziativa è stata discussa
al vertice degli organi di autogoverno della Camera, il vicepresidente
Simone Baldelli, di Forza Italia, che a suo tempo più e più volte, anche
vestito da donna, pure in pubblico e perfino su YouTube, ha prodotto
una discreta imitazione di Boldrini, ecco, si è un po’ dispiaciuto, o
ingelosito, e comunque non ha escluso di farsi vedere anche lui nella
Sala della Regina.
Quasi infinite sono dunque
le vie del protagonismo e ben tre Boldrini, sommate all’avvertimento
renziano, qualcosa senza dubbio segnalano.
Con
scrupolo forse degno di migliori analisi, gli osservatori della
politica si stanno ormai abituando a tenere e a vedere insieme l’alto e
il basso, le questioni pesanti e le scorrerie nella leggerezza. I
rilievi, per dire, sul Jobs act e l’altolà sulla decretazione d’urgenza
in campo Rai e la fotografatissima partecipazione della presidente della
Camera alla benedizione degli animali, fra i quali il gatto di casa, a
nome Gigibillo (deciso in un referendum su Facebook).
Ora,
a parte i felini domestici, è abbastanza chiaro che il governo ha
fretta e gli secca parecchio che il Parlamento rivendichi il diritto di
legiferare e in vari modi si metta di traverso - sia pure in modo non
risolutivo come dimostrano ghigliottine, tagliole e canguri.
Ma
l’impressione è che Boldrini, da qualche tempo, non solo sta cambiando
suo profilo personale, per così dire. Più loquace, meno ingessata, meno
spaventata.
Ma
in questo processo ha capito che a lei, più che ad altri, spetta il
compito di ricordare a chi di dovere che l’Italia, per ora, resta
appunto una Repubblica parlamentare; e che tale forma, al di là della
necessità di far presto, si rispecchia pur sempre in una quantità di
corpi intermedi. I quali ritarderanno pure le grandi riformissime
renziane, però, diamine, non è che sia obbligatorio abbandonarsi
all’«uomo solo al comando».
Lei
l’ha detto e lui, che è fumantino e non prova alcuna simpatia personale
(la notte dell’ostruzionismo, mentre presiedeva, non ha esagerato in
saluti) la ha inserita nella lunga lista dei personaggi di cui diffidare
e in futuro da sistemare a puntino.
Cosa
sia intervenuto, oltre al contesto e alle circostanze, in questo
cambiamento è già più difficile da analizzare. Forse il cambio della
Segreteria Generale di Montecitorio l’ha resa più sicura; forse
l’elezione di Sergio Mattarella, professore di diritto parlamentare, sul
Colle le consente di guardare al suo ruolo con maggiore energia e a
svolgerlo secondo una logica che in senso lato non può che risultare più
politica.
Forse
ha capito che è arrivato il momento di essere più se stessa. Forse sente
di dovere di esserlo. Forse altro. Certo i precedenti consigliano la
massima prudenza. Pivetti, Violante, Casini, Bertinotti e Fini non sono
un prezioso esempio, o magari sì. Fare il presidente, nel frattempo, è
difficile. Ma non farlo può essere peggio.
Nessun commento:
Posta un commento