domenica 31 gennaio 2016

Vent’anni dopo

Vent’anni dopo che cosa è cambiato? Vent’anni dopo che cosa è rimasto? Vent’anni dopo qual è l’eredità politica di Silvio Berlusconi? Incontriamo Silvio Berlusconi nel pomeriggio di ieri a Roma, alla sede del Foglio, il giorno prima del compleanno del nostro giornale, che oggi festeggia i suoi primi vent’anni (cin cin), e cogliamo l’occasione dei brindisi per il nostro ventennio per riavvolgere il nastro con l’ex presidente del Consiglio e provare a capire, a poco più di vent’anni dalla sua discesa in campo, cosa è cambiato nel nostro paese e cosa avrebbe l’occasione di fare, in questa fase storica delicata, quello che a noi sembra (ma non a Berlusconi) un possibile e naturale erede del berlusconismo: il Royal Baby, Matteo Renzi.

Cominciamo dall’inizio, cominciamo da lì. Presidente. Sono passati ventidue anni da quel 26 gennaio 1994 in cui lei ha annunciato la sua discesa in campo. Se dovesse fare oggi un altro video di nove minuti per spiegare cinque cose in cui è cambiata l’Italia e cinque cose in cui non è cambiata rispetto a quel giorno che cosa direbbe? “Una domanda troppo difficile. L’Italia del 1994, quando mi rivolsi agli italiani con quel messaggio, era un paese in profonda crisi, non solo economica ma anche politica, di fronte alla scomparsa – anzi all’eliminazione violenta – dei partiti democratici da parte della magistratura. Sull’onda del consenso, effimero ma diffuso, intorno all’operazione Mani pulite, la sinistra post comunista sembrava avere il potere a portata di mano. Oggi quella sinistra non esiste quasi più, e credo sia merito nostro. La maggioranza naturale degli italiani si è potuta riunire in un centrodestra di governo, parola questa che per tutta la Prima repubblica era stata impronunciabile. E questo è il secondo cambiamento. Il terzo è che gli italiani hanno scoperto il bipolarismo e l’alternanza di governo, sia pure imperfetta. Il quarto è che – almeno a parole – i valori liberali, allora sostenuti solo da una piccola minoranza, sono condivisi da tutti. E tutti oggi – così siamo arrivati a cinque – sostengono la necessità di fare quelle riforme delle quali allora parlavamo soltanto noi. Insomma, abbiamo ottenuto non poco, ma naturalmente c’è il rovescio della medaglia. C’è sempre una magistratura di sinistra che condiziona pesantemente la politica, c’è il livello della tassazione, già altissimo e cresciuto ancora, nonostante i miei governi lo abbiano contenuto in ogni modo possibile. Il conformismo dei mezzi di comunicazione non è cambiato, salvo poche ammirevoli eccezioni la prima delle quali è rappresentata dal giornale che oggi festeggiamo, la burocrazia è inefficiente e pervasiva come allora, l’Italia è tornata a essere irrilevante sul piano internazionale, dopo aver svolto, negli anni in cui abbiamo governato, un ruolo di primo piano. E’, insomma, un bilancio dolceamaro”.

Ventidue anni dopo al governo c’è un leader di un partito avverso al suo che su molte battaglie si ispira chiaramente al primo programma elettorale di Forza Italia. Che cos’è che Matteo Renzi ha provato a riproporre delle vostre idee? E cosa invece non riuscirà mai a fare, di quelle idee, essendo un leader di un partito di sinistra? “Sento dire spesso che Renzi si ispirerebbe in qualche modo a Forza Italia. Se questo è vero, allora devo dire che l’imitazione non gli è riuscita bene. Renzi con noi non ha nulla in comune, se non una cosa: la consapevolezza che il vecchio linguaggio della politica ha stancato gli italiani. Ma di fronte a questo noi abbiamo scelto la strada della concretezza, della chiarezza, della realtà. Lui, quella delle battute, dell’arroganza, degli annunci. Per il resto, Renzi è un democristiano di sinistra nell’accezione peggiore del termine: somiglia più a Ciriaco De Mita che ad Aldo Moro. La sua è la versione 2.0 della vecchia teoria enunciata nel ‘Gattopardo’: bisogna che tutto cambi affinché non cambi nulla. Questo vale per la riforma costituzionale, studiata per consolidare il suo potere, come per i provvedimenti più pubblicizzati, dall’inefficace Jobs Act alla riforma della Pubblica amministrazione, al mai realizzato taglio delle tasse”. 

Se Matteo Renzi, come dice lei, non avesse “tradito” il patto del Nazareno, secondo lei sarebbe stato possibile immaginare nel futuro la nascita di un movimento unico capace di aggregare le forze moderate del centrodestra e del centrosinistra? “Non abbiamo mai pensato al patto del Nazareno in questa chiave. L’idea nella quale abbiamo creduto era solo quella di lavorare insieme per modernizzare il paese attraverso riforme condivise. Purtroppo, ci siamo resi conto che ci avevamo creduto solo noi”.

Ventidue anni dopo, anche la sinistra ha scoperto che una parte della magistratura italiana agisce con finalità politica e che non è un’eresia criticare le procure che si muovono con tempistiche sospette. Quali sono secondo lei le principali riforme che in questi vent’anni, anche nei vostri governi, non sono state fatte e che avrebbero potuto riequilibrare tutti gli squilibri che esistono nella magistratura italiana? “C’è una riforma-simbolo, quella che Fini e Casini ci hanno sempre impedito di realizzare: la separazione delle carriere. Come avviene in tutti i paesi civili, in tutto l’occidente, chi rappresenta l’accusa dev’essere del tutto distinto e distante rispetto a chi deve giudicare. Il pubblico ministero per parlare con il giudice deve mettersi in coda davanti alla sua porta esattamente come l’avvocato difensore. Fini e Casini più volte minacciarono di far cadere il governo se avessi portato sul tavolo del Consiglio dei ministri anche solo questa riforma. Per loro era indispensabile contare sulla protezione dell’Associazione nazionale magistrati. Immaginatevi quale sarebbe stata la loro reazione se avessi tentato di far approvare dal Parlamento una vera riforma della magistratura, da quella del Csm fino alla non appellabilità delle sentenze di assoluzione!”.

Ventidue anni dopo, la politica si ritrova oggi a dover fare i conti con – diciamo così – il “fenomeno Grillo”. Su quali basi culturali secondo lei nasce il grillismo? Non pensa che sia responsabilità della sinistra la nascita di questo movimento? E non pensa che sia un errore, per il centrodestra, essere percepito come una forza politica che su alcune battaglie fa un’opposizione non così diversa da quella di Beppe Grillo?

“Grillo nasce dalla pericolosa sintesi di stati d’animo diversi: i rimasugli della sinistra ‘antisistema’, l’invidia per chi ha avuto successo nella vita e la ricorrente voglia di jacquerie, di rivolta contro tutto e contro tutti, senza un obiettivo chiaro che non sia la distruzione. Da questo cocktail di ideologia, di giustizialismo e di ribellismo sono nati nel Ventesimo secolo movimenti pericolosissimi. Quando ho spiegato che Grillo ripeteva molte parole d’ordine di Adolf Hitler, non era affatto un’esagerazione polemica, era una constatazione tecnica. Il fatto che poi i grillini nelle istituzioni si siano rivelati inconcludenti, contraddittori e del tutto incapaci non deve tranquillizzare. Aumenta il pericolo, non lo diminuisce. Quanto al fatto che accada a Forza Italia di votare nello stesso modo dei grillini, certamente succede, essendo entrambi all’opposizione. Ma credo che nessuno possa confondere il nostro modo e le nostre ragioni di opposizione con quelle dei grillini. Siamo all’opposto, sia nei contenuti che nello stile. E il centro-destra, per essere vincente, deve rimanere se stesso”.

Proviamo a giocare. Ci dice cinque caratteristiche che dovrà avere un buon leader del centrodestra per essere competitivo quando si andrà a confrontare alle elezioni con Matteo Renzi? “E’ facile… Deve aver ottenuto una laurea con il massimo dei voti portando una tesi sulla pubblicità, deve aver costruito alcuni quartieri modello alla periferia di una grande città, deve aver fondato almeno tre televisioni commerciali, deve avere vinto almeno 3 Champions League, deve aver ottenuto decine di milioni di voti dagli italiani… Uno con queste caratteristiche lo conoscevo, solo che, per non correre rischi, i signori della sinistra con l’aiuto dei loro amici magistrati lo hanno reso incandidabile”. Presidente, in che cosa secondo lei il berlusconismo ha cambiato l’Italia? E quali sono a suo avviso le battaglie che avrebbe voluto e dovuto vincere e che invece, in questi anni, non è riuscito a portare a termine? “In questi vent’anni io ho una colpa della quale non mi do pace: non sono riuscito a convincere gli italiani a darmi il 51 per cento dei voti. Questo non mi ha permesso, in tante occasioni, di realizzare quella rivoluzione liberale che avevo chiarissima nella mente e nel cuore, e che rimane ancora oggi un mio obiettivo. Sottolineo, la rivoluzione liberale, non il ‘berlusconismo’ che è un termine che non mi piace e un concetto che non esiste. Abbiamo fatto tante riforme importanti, dalla scuola al lavoro, dal fisco alle infrastrutture, all’Alta velocità che ha ravvicinato il nord al sud. Abbiamo dato un ruolo internazionale all’Italia non sbagliando alcunché, abbiamo posto fine alla Guerra fredda, abbiamo sventato il pericolo comunista. Ma tutto questo non basta. Abbiamo cambiato l’agenda della politica, questo sì. Oggi i diritti dell’individuo, le sue libertà, i valori dell’impresa e del lavoro, la questione decisiva delle garanzie, sono tutti percepiti come fondamentali. I cittadini sono ben più consapevoli che nel passato dell’importanza di queste cose. Ma da qui a vederle realizzate, ce ne corre”.

Secondo lei perché, in tutta Europa, quando la sinistra va al governo capita spesso che sia costretta a fare politiche che la stessa sinistra fino a un secondo prima considerava di “destra”? “Perché è costretta a fare i conti con la realtà, e al tempo stesso non è vittima dell’aggressione conformistica del politicamente corretto, di solito sostenuta dai grandi mezzi di informazione, dal mondo della cultura, dai sindacati, dalla magistratura”. In tutto il mondo, compresa l’Italia, si sta rafforzando sempre di più la retorica del “non esiste alcuna differenza tra destra e sinistra”. Proviamo a rigirare la frittata. Secondo lei, oggi, esiste una differenza profonda tra un elettore che vota a destra e un elettore che vota a sinistra? “Si tratta, appunto, di retorica. Forse sono finite – e sarebbe una fortuna – le ideologie, ma non sono affatto finite le idee. Un elettore liberale pone al primo posto la libertà ed è convinto che essa significhi ‘meno stato’ in ogni ambito della vita dei cittadini a cominciare dall’economia. Pensa che questa sia la migliore soluzione per il suo benessere personale e per quello della collettività. Un elettore di sinistra pensa che tocchi allo stato garantire con il suo intervento il benessere e l’equità, anche togliendo a chi ha di più per amministrare direttamente più risorse, nonostante sia sempre più ovvio che lo stato queste risorse le amministra male… Per questo è disposto ad accettare anche una limitazione della propria libertà, a pagare tasse più alte, a considerare tutti i suoi diritti una elargizione dello stato di cui si sente al servizio e via dicendo. Mi sembra una distinzione fondamentale”.

La provochiamo. Ma se oggi Berlusconi fosse presidente del Consiglio, quali sarebbero le cinque cose che farebbe domani mattina in Consiglio dei ministri? “Prima sintetizzo: meno tasse, meno stato, meno Europa, più aiuto a chi ha bisogno, più sicurezza per tutti, più garanzie per ciascuno con una completa riforma della giustizia. Meno tasse: la riforma complessiva del fisco, introducendo la flat tax, sostitutiva di tutte le imposte sul reddito, uguale per tutti, famiglie e imprese, con un’esenzione per i primi 12.000 euro. Via le tasse sulla casa, via l’imposta di successione, via l’Irap alle imprese, via l’Imu agricola, via le autorizzazioni preventive. Andiamo avanti. La riforma della magistratura: la separazione delle carriere e una nuova disciplina delle intercettazioni, della custodia cautelare e della legittima difesa. Stanziamenti adeguati per il comparto sicurezza. E poi le norme necessarie per far ripartire le grandi opere. E ancora: l’abolizione di ogni sanzione nei confronti della Russia. Ma c’è molto altro, ci sono anche altre grandi questioni, che non vanno in Consiglio dei ministri, ma che sono decisive per il nostro futuro. Una politica estera del tutto diversa, e una vera riforma della Costituzione, che allarghi e non restringa, come fa quella di Renzi, la sovranità dei cittadini e l’efficienza dello stato”. Riprovochiamo. Secondo lei come sarebbe cambiata l’Italia se Berlusconi fosse stato presidente della Repubblica? “Ci sarebbe stato un Quirinale arbitro e garante, non un protagonista fazioso come è stato in un passato recente. Ma proprio per questo non ho mai aspirato al Quirinale. Sono consapevole dell’importanza dell’arbitro e ne ho grande rispetto, ma io sono un giocatore in campo, attaccante, non un arbitro”. Presidente, ma se qualcuno della sua famiglia un giorno decidesse di fare politica lei sarebbe orgoglioso o, ventidue anni dopo, crede che fare politica non valga la pena? “Sono un padre liberale, che ha sempre rispettato le scelte dei propri figli. Ma se qualcuno di loro mi annunciasse di voler fare politica diventerei di colpo autoritario. Non accetterei mai che qualcuno dei miei figli possa subire quello che ho subìto io. Il che non significa affatto che per quanto mi riguarda non ne sia valsa la pena”. Riavvolgiamo il nastro e torniamo all’inizio. Ventidue anni dopo il suo primo discorso alla nazione come è cambiato l’elettore italiano? C’è qualcosa in cui, secondo lei, anche l’italiano più distante da lei non può non dirsi in un certo senso berlusconiano? “Direi che gli elettori sono sempre più consapevoli e sempre più scettici. E questo è un bene e un male insieme. Un bene, perché rende più difficile per i politici prenderli in giro, un male perché allontana la gente dalla partecipazione democratica. Ma l’assenteismo elettorale mina alle radici la democrazia, e ottiene l’effetto opposto a quello voluto: rafforza i politici più lontani dalla gente. In cosa ogni italiano non può non dirsi berlusconiano? Mi auguro nell’amore per la libertà”. Che cosa le piacerebbe che fosse scritto del berlusconismo un domani nei libri di storia? “Francamente non mi sento pronto per i libri di storia. Me ne occuperò quando avrò vinto definitivamente la battaglia per la democrazia e per la libertà. E questo accadrà quando in Italia la rivoluzione liberale sarà davvero compiuta. Come vede, c’è tempo”. Domanda sul presente e in un certo senso anche sul futuro. La legge elettorale che oggi è in vigore, l’Italicum, a noi sembra quanto di più berlusconiano possa esistere: premio alla lista e dunque niente coalizioni rissose e possibilità di promuovere il bipolarismo e un giorno forse anche il bipartitismo. E’ d’accordo? E cosa invidia lei oggi del sistema politico americano? “In America esistono due Camere, nessuno si sogna di abolirle, i cittadini le eleggono entrambe, eppure il sistema funziona, i compiti dei due rami del Parlamento non si sovrappongono, e il numero totale dei parlamentari, in un paese che ha il quadruplo della nostra popolazione, è inferiore al nostro. Forse il sistema funziona perché gli Stati Uniti sono una repubblica presidenziale, la soluzione che invoco per l’Italia da molti anni. Quanto all’Italicum, va sempre visto nel quadro complessivo della riforma costituzionale. Non vedo cosa ci sarebbe di berlusconiano – le ripeto, non mi piace questa parola – nel consentire a una sola forza politica, che raccolga appena il 20 per cento del consenso degli aventi diritto al voto, di governare senza controlli e senza contrappesi”.

Qualche mese fa lei ha deciso di partecipare a un incontro del Ppe e ha avuto anche l’occasione di incontrare la signora Merkel. Secondo lei il centrodestra del futuro, anche quello italiano, farà bene a ispirarsi alle idee dei due grandi leader conservatori europei di oggi, ovvero Angela Merkel e David Cameron? “Angela Merkel e David Cameron sono certamente modelli ai quali un moderno centrodestra non può non guardare, questo è naturale. Ma le loro idee non coincidono del tutto né tra di loro né con le nostre. In particolare, con la Cdu abbiamo in comune i valori di fondo espressi nel Ppe, e  quindi la centralità e la sacralità della persona, il riconoscimento della matrice giudaico-cristiana dell’idea di Europa, il valore della solidarietà non assistenziale. Con i Conservatori britannici l’idea di libertà economica, di riduzione del carico fiscale, di limiti al potere dello Stato, di solidarietà atlantica. Sono le idee del futuro. Valgono non solo per l’Italia, ma per l’occidente e probabilmente per il mondo intero”. Giornali. Come immagina i prossimi vent’anni dell’industria editoriale dei giornali italiani? Che prodotti saranno vincenti e quali andranno lentamente a morire? “Sono convinto che il futuro dei giornali sia proprio quello che il Foglio e pochissimi altri in Italia già anticipano. Il giornale come fonte di notizie è fatalmente anticipato dalla televisione e dal web. Il giornale come strumento di riflessione, di critica, di dibattito, di approfondimento, rimarrà insostituibile”. Oggi il Foglio  compie vent’anni presidente. “Per me il Foglio rappresenta uno spazio di libertà, una coscienza critica preziosa, che non esita a fare scelte libere e non scontate. Che ci costringe ogni giorno a riflettere e a verificare le nostre opinioni. Un giornale saldo nel valori di libertà ma alieno da ogni conformismo, anche da quello della libertà”. Cin cin.
 
fonte: Il Foglio, 30 gennaio 2016

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