“ESSERE E NON PARERE E’ SANTITA' "
All'interno del movimento francescano, la questione della povertà continuò a tenere campo anche nei secoli XVII e XVIII.
Per gli appartenenti agli Ordini mendicanti, il Concilio di Trento aveva stabilito la facoltà di esercitare il possesso dei beni "in communi", con divieto assoluto della proprietà privata.
L' orientamento fu duramente ostacolato, in particolare, dai frati di ceto nobiliare: celebre fu il caso del Ministro Generale dei Conventuali, Antonio Savioz D'Aosta, che nel 1566, in punto di morte, fece testamento.
Ripetuti comportamenti, in aperto contrasto con il voto di povertà, suscitarono la reazione veemente della Santa Sede che giunse, in un primo tempo, a minacciare la soppressione dell' Ordine dei Conventuali e, successivamente, a statuire la chiusura dei piccoli conventi in base alla nuova regola delle "12 bocche", da intendersi come numero minimo di religiosi per consentire la vita di una fraternità in condizioni di sufficiente autonomia finanziaria.
Per quanto riguarda Jesi, la decisione pontificia provocò l'assorbimento della comunità di San Marco da parte del convento di San Floriano (1620). Gli insediamenti “ruralia et silvestria” saranno, invece, definitivamente abbandonati.
Nonostante la stringente attività di controllo esercitata da Roma, gli atteggiamenti contraddittori in tema di povertà saranno destinati a perdurare.
Lo storico (nonchè frate conventuale) Gustavo Parisciani così descrive la vita delle comunità nel settecento:
"Le religiose comodità aumentarono fino ad avere due, tre, quattro ed anche più stanze, ottimamente ammobiliate, con fratello laico di servizio, assegnamento di legna piccola e grossa per i vari caminetti. La moda non tardò a corrompere anche i frati: saie costose, fatte venire da Francia e da Olanda, dal colore sempre meno cinerino (ritenuto allora di disdoro), camicie di seta, scarpe con tacchi di legno e fibbie, calzetti di seta o colorati, coccarde al collo e fascettoni e cravattine, barbe coltivate, capelli arricciati, tuppè, cincinnature e perfino parrucche e grandi cappelli con fiocchi e fettucce (...) E , ovviamente, amici, giochi di carte e, verso fine secolo, cioccolato caffè e liquori, accesso a teatri e fiere, risse con altri religiosi e liti sostenute in tribunali, scandali morali senza fine".
Alcune problematiche penali riguardanti le comunità francescane vennero registrate anche nella nostra zona.
La cronaca giudiziaria del luglio 1811 riferisce di un ricercato sui generis: si tratta di un certo “Tommaso Fraticelli, ex laico dei Minori Riformati, nativo di Treja, di anni 45…capelli neri misti a bianchi tagliati alla villica, calvo in testa e tarlato dal vajolo, vestito alla villica. Reato: “Propinazione di veleno a cinque frati suoi compagni apprestato con fortissima dose di sublimato”.
D’altra parte la risposta al crimine, ancorchè perpetrato da religiosi, non fu affatto lieve neppure in ambiente francescano . A tale proposito possiamo leggere la dichiarazione di un certo Fra Bernardo di Chiaravalle, cappuccino, il quale, nella breve epoca repubblicana di fine settecento, denunciò all’autorità municipale la tremenda situazione carceraria: “Il convento dei cappucini della Città di Jesi è uno di quelli destinati a tormentare l’umanità capucinesca con un carcere forte e non troppo umano, le supeletili del quale sono li marettoni (?), la collana e li ceppi di ferro li più pesanti, che senza fare molta indagine si troveranno esistenti al convento dei cappuccini nella stanza denominata: la Comunità”.
In questo quadro non esaltante, emersero, comunque, fulgide figure di francescani.
Nella nostra terra il secolo XVIII , “metà razionalista e metà epicureo”, reca l’impronta del frate conventuale P. Angelo Antonio Sandreani, definito l’Apostolo della Vallesina.
Nato ad Arcevia nel 1675, abbracciò l’ideale francescano, sino ad assumere la carica di superiore della fraternità di Jesi dal 1734 al 1752, anno della sua morte.
Teologo di solida dottrina, maestro di spiritualità, consigliere di Vescovi e di Papi (tra cui il marchigiano Clemente XVI), predicatore dalla parola ardente, seppe unire l’azione al nascondimento.
Al proposito è nota una sua massima che ripeteva di frequente per sé e per gli altri: “Non essere e parere è vanità; essere e parere è verità; essere e non parere è santità”.
Rifiutò, con gesto umile, la designazione episcopale preferendo rimanere nell’amata Vallesina.
E’ in corso la causa di beatificazione.
GIOVANNI BATTISTA PERGOLESI: UN DESTINO FRANCESCANO
E’ il 16 marzo del 1736.
Un compositore di appena 26 anni muore, consunto dalla tisi, in una cella del convento dei Padri
Cappuccini di Pozzuoli.
Il suo nome è Giovanni Battista Pergolesi e, sebbene povero, lascia in eredità una musica di sublime purezza.
La sua fama è già assurta ai vertici europei, quale massimo esponente dell’Opera Buffa (A Parigi
“La Serva Padrona” sarà rappresentata per 190 serate consecutive!).
Sul letto di morte è rapito in estasi dinnanzi all’immagine della Madonna Addolorata , colei che considerava la sua celeste musa per la scrittura dello Stabat Mater, il grandioso capolavoro, portato
a compimento appena pochi giorni prima della fine:
Stabat Mater dolorosa
iuxta Crucem lacrimosa,
dum pendebat Filius
Il mondo della musica si inchinò di fronte a quell’opera:
“Udii lo Stabat di Pergolesi e ne fui commosso fino alle lacrime. Quella musica raggiunge l’ultima bellezza” (Gioacchino Rossini).
“Lo Stabat di Pergolesi è il poema del dolore” (Vincenzo Bellini).
“Non ascolto mai lo Stabat Mater senza un oscuro desiderio di lacrime. Per quanto grandi siano i maestri, che verranno di poi, essi non sorpasseranno mai l’autore dello Stabat. Solo Mozart potrà uguagliare Pergolesi” (Camille Bellaigue).
“Pergolesi è un genio superiore, il suo lavoro di compositore è un esempio sublime, lo Stabat è un
capolavoro” (Richard Wagner).
“Quando sentii per la prima volta lo Stabat Mater mi vennero le lacrime agli occhi per la grande
commozione che mi prese (Johann A.P. Schulz).
“Avrei dato tutta la mia musica, se mi fosse stato dato di comporre lo Stabat di Pergolesi” (Gaetano
Donizetti).
Il lettore ci consenta di abbandonare, per un momento, l’ambientazione jesina del nostro racconto,
per fare tappa nel Golfo di Napoli.
Lo spunto per questa deviazione geografica è fornito da Padre Pietro Rossi che nella sua opera “Il
capolavoro di San Francesco” annovera Pergolesi tra i professi del Terz’Ordine!
La notizia - che è veramente sensazionale e farebbe di Pergolesi il più illustre dei Terziari nati a Jesi - non trova conferma nelle principali biografie.
Se potessimo, tuttavia, applicare alla ricerca storica un famoso adagio in voga tra gli investigatori (“una coincidenza è una coincidenza, due coincidenze costituiscono un indizio e tre coincidenze
fanno una prova”) dovremmo, quanto meno, riconoscere le tracce di un destino francescano in tutta la vita dell’artista.
Giovanni Battista Pergolesi nacque in un’abitazione a fianco del Palazzo della Signoria il 4 gennaio del 1710 da Francesco Andrea e Anna Vittoria Giorgi e venne battezzato, il giorno stesso, nella Cattedrale di San Settimio. Il padre oltre alla professione di perito agronomo e di sergente della pubblica milizia era amministratore di quella Confraternita del Buon Gesù, fondata da San Giacomo della Marca tre secoli prima (e siamo alla prima coincidenza!).
Le straordinarie capacità artistiche dimostrate sin da fanciullo, convinsero la famiglia Pergolesi, grazie al sostegno economico del Marchese Pianetti, ad iscrivere il sedicenne Giovanni Battista al Conservatorio napoletano dei Poveri di Gesù Cristo.
Napoli, con i suoi quattro Conservatori, era, all’epoca, una delle capitali internazionali della musica. Il Conservatorio prescelto per Pergolesi aveva una singolare caratteristica: era stato fondato nel 1590 dal terziario Marcello Fossataro e, nella sua impostazione, si ispirava a principi educativi di matrice francescana (e siamo alla seconda coincidenza!).
E’, quindi, certo che, durante gli anni di permanenza, a Pergolesi venisse impartita, oltre ad una solida istruzione musicale, anche una rigorosa formazione religiosa.
Addirittura gli studenti del Conservatorio avevano l’obbligo di indossare, come divisa, il “panno bigio francescano” (Radiciotti).
Anche la storia dell’amore infelice di Pergolesi per la nobile Maria Spinelli è segnata da una dolorosa svolta con esito claustrale.
Scrive il biografo Florimo:
Giambattista Pergolesi fu vittima d’un amore infelice; ed io, per la storia di questo amore,riporterò trascritto letteralmente il seguente brano ricavato da private carte. “Nella prima metà del decorso secolo si presentarono un giorno in questa città a Maria Spinelli i tre fratelli di lei,e colle spade sguainate le dissero: come fra tre giorni ella non iscegliesse a sposo un uomo pari a lei per l’altezza del nascimento, con quelle tre spade avrebbero trafitto e morto il maestro di musica Giovan Battista Pergolesi di lei amante riamato; e sì dicendo partirono. Fra i tre giorni ritornarono alla sirocchia: costei loro disse aver prescelto a sposo un Essere sublime, poiché il suo sposo era Iddio, domandando andare monaca a S. Chiara, si veramente che la messa di monacazione si avesse a dirigere da quel maestro di musica che ella aveva cotanto amato,e che ora mandava in oblio rivolgendo tutta l’anima sua solo ai celesti affetti. E così fu fatto.
L’anno appresso il dì 11 marzo 1735 funebri rintocchi della campana di S. Chiara annunziavano mestamente funerali. In quel tempio celebravasi la messa di requie di Maria Spinelli, e dirigevala Giovan Battista Pergolesi!”.
Appena un anno dopo, nello stesso mese di marzo, il musicista moriva nel convento di Pozzuoli.
Già gravemente malato, era stato accolto dai Padri Cappuccini ( e anche questa è una terza coincidenza non da poco) nella speranza di poter beneficiare di un situazione climatica migliore per la sua salute.
Per riconoscenza e affetto verso i Padri Cappuccini, Pergolesi dedicò ai frati uno “scherzo” musicale intitolato: “ Venerabilis barba inculta cappuccinorum”.
LA CAPITALE DEI “BOZZI BONI”
Il prestigioso titolo di “piccola Milano delle Marche”, evoca, a partire dalla prima metà del XIX secolo, l' epopea industriale della città di Jesi nel settore della produzione della seta.
Pochi numeri sono sufficienti per comprendere l'effettiva importanza dell'attività serica nel contesto economico locale.
Nel 1837, per opera del pioniere Pasquale Mancini, nasce la prima filanda, situata in via dei Macelli (oggi via Castelfidardo) nei pressi del Vallato: nel breve arco di un anno, la produzione di bozzoli salirà da 129.000 a 175.000 libbre.
Venti anni dopo, nel 1858, le filande diventeranno sette per arrivare al numero di dodici agli albori del nuovo secolo.
All’epoca, su una popolazione di 23.000 abitanti, si conteranno ben 1.055 operaie occupate negli stabilimenti cittadini.
Non molti sanno che la straordinaria avventura jesina della seta ha radici francescane, grazie all'opera del frate conventuale P. Vincenzo Rinaldi, nato a S. Anatolia (oggi Esanatoglia) nel 1779, laureato in Filosofia, Teologia e Scienze, ma anche valente cultore di agronomia.
Alla professione di insegnante presso il Ginnasio di Jesi, Padre Rinaldi abbinò l’impegno di studioso in materia di produzione del baco da seta: in una serie di convegni scientifici di settore, il francescano ebbe l’opportunità di presentare una tipologia innovativa di bigattiera, che riscontrò un consenso unanime.
Per impulso di Padre Rinaldi e sotto l’egida del lungimirante Cardinale Pietro Ostini, Vescovo di Jesi, nacque, nel 1838, la Società Agraria Jesina, fondata da 63 soci, tra i quali figuravano personalità del calibro di Gaspare Spontini.
La presidenza del sodalizio venne affidata al Gonfaloniere Alessandro Ghislieri, mentre al Rinaldi fu demandato l’incarico di organizzare una scuola tecnico-pratica di agricoltura, con l’obiettivo di addestrare le nuove generazioni di contadini, in età compresa tra i 14 e i 18 anni, alla coltivazione del baco secondo metodologie moderne.
A due anni dalla fondazione, il numero dei membri della Società salì ad oltre 100, con unanime compiacimento per gli obiettivi raggiunti, come risulta da una relazione del segretario:
“Torna poi a sommo onore ed utile di questa Città l’educazione dei vermi da seta ed il felice loro risultato. Non più in uso l’antico barbaro disutile sistema; ma bigattaje si vedono erette nell’abitazioni della Città, nelle case di signorile villeggiatura e nei rusticani ricoveri.
La seducente ed utile qualità delle gallette delle bigattaje jesine e de’ limitrofi paesi ha in quest’anno maggiormente attirato la folla de’ compratori in questa piazza che è arrivata a gareggiare colle più rinomate dei dintorni”.
Nel 1841, nonostante i brillanti risultati conseguiti, Padre Rinaldi, per motivazioni mai rese pubbliche,venne trasferito in altra città e dovette abbandonare la sua benemerita attività didattica.
Invano si tentò, attraverso appositi bandi di concorso, di trovare un sostituto, tanto che nel 1843 il Presidente della Società Agraria si vide costretto a rivolgersi ad uno stretto collaboratore del Papa Gregorio XVI per perorare il ritorno a Jesi di Padre Rinaldi:
“La lontananza, avvenuta per Sovrana disposizione da questa Città da circa un anno del P. Rinaldi appartenente a questo Convento dei PP. Conventuali, già Professore di Scuola in questa Società di Agricoltura, mi offre motivo di venire a incomodare la S.V. per tale circostanza.(…) In tale stato di cose si aprì il Concorso ma senza alcun risultato, nessuno essendosi presentato; ed è perciò che per procurare la continuazione di que’ vantaggi che sonosi già ottenuti in diversi rami, come risulta dagli atti di questa Società, mercè le istruzioni del predetto P. Rinaldi, il quale se non possiede una estesa teoria, è però fornito di molta prattica, cosa la più essenziale nella scienza Agraria, vengo a pregare la bontà della S.V.I.R.(…) allorchè ciò non sia contrario alla intenzione di Nostro Signore, di interporre la valevole sua mediazione per ottenere dalla stessa S.S. il permesso che il medesimo P. Rinaldi possa stabilmente tornare in questo Convento ed essere di vantaggio a questa Società di Agricoltura come lo fu in addietro”.
Successivamente, anche il cardinale Lambruschini, Segretario di Stato della Santa Sede, venne investito della problematica dal Ghislieri.
Grazie all’intervento del nuovo Vescovo Corsi, nel 1846 Padre Rinaldi ritornò a Jesi, per trovarvi morte dopo appena pochi mesi.
Soltanto nel 1849 - dopo 8 anni di “cattedra vacante” - fu individuato nella persona di Antonio Galanti il successore di Padre Rinaldi. Il nuovo titolare ebbe parole di elogio per il francescano: “caldo amatore dell’arte, benemerito della scienza agraria e milite coraggioso contro il pregiudizio che allora fervea maggiore”.
Toni meno diplomatici utilizzò il marchese Giacomo Ripanti nel suo studio dal titolo: “Cenni sull’industria della seta in Jesi”, laddove non mancò di evidenziare come rimasero “svergognati e confusi” quanti avevano diffidato di Padre Rinaldi e dei suoi primi seguaci, considerati come “inopportuni novatori”.
Lo stesso Ripanti sintetizzò in un solo pensiero, l’esito di quella “rivoluzione” agricola ed industriale che aveva visto Padre Rinaldi tra i protagonisti principali: “Le sete di Jesi, prima tenute a vile anzi a dispregio, sono assai in credito fin sui mercati di Londra”.
1860: GARRISCE IL TRICOLORE
Il 18 settembre 1860, nella zona di Castelfidardo, si combatté la celebre battaglia che sancì la vittoria dell’esercito Sardo su quello Pontificio, determinando una svolta definitiva nel cammino verso l’unità d’Italia.
Tre giorni prima, nel primo pomeriggio del 15 settembre 1860 il vento risorgimentale squassò la Jesi papalina.
Il Reggimento dei lancieri di Milano oltrepassò Porta Marina (oggi Porta Bersaglieri), mentre, nello stesso giorno, migliaia di uomini si accamparono lungo le rive dell’Esino, in previsione dell’imminente trasferimento sul teatro della battaglia.
Un anonimo cittadino dell’epoca così descrive i sentimenti della popolazione jesina all’arrivo delle truppe: “Nella sera illuminazione per tutta la città con bandiere a tre colori e coperte per tutte le finestre tutto il giorno, e la Banda cittadina andette incontro alla truppa (...) le signore con gli uomini che facevano a gara a chi potesse accompagnarsi al passeggio chi con gli ufficiali e chi con i (soldati) comuni e così in seguito si farà tutti con la cucarda a tre colori, bianca, rossa e verde”.
L’atteggiamento degli intellettuali anticlericali verso il governo del Papa Re è sintetizzato in un passo delle Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini, scritto all’indomani della caduta del potere temporale: “I popoli che formavano lo Stato della Chiesa erano, fra tutti gli italiani, i più straziati, perché avevano sul collo i preti e gli stranieri…I preti governavano coi codici dei sette peccati mortali; e chi non ha conosciuto il governo dei preti non sa quale sia l’ultima tirannide, la quale ormai è caduta perché Dio e gli uomini erano stanchi di tante scelleratezze”.
Il 4 e 5 novembre ebbe luogo il plebiscito per l’annessione al nascente Regno d’Italia: su una popolazione di poco meno di 18.500 unità, i votanti furono 3361 di cui 3342 favorevoli.
Il 5 gennaio 1861 si tennero le prime elezioni amministrative: questa volta i votanti furono 144 (non erano ammessi gli analfabeti e coloro che non pagavano almeno L.15 di tasse annue) ed elessero un Consiglio comunale composto quasi esclusivamente di ricchi possidenti.
Primo sindaco venne eletto il Conte Marcello Marcelli Flori che nel discorso di insediamento non esitò ad attaccare con veemenza “la mala signoria clericale”.
Nel frattempo il Regio Commissario Generale Straordinario delle Province delle Marche Lorenzo Valerio, di stanza a Senigallia, avviò una profonda trasformazione civile e politica della Regione, distinguendosi per una forte politica di contrasto verso il mondo ecclesiastico.
Durante i quattro mesi nei quali rimase in carica, Valerio emanò ben 840 decreti che ribaltarono completamente l’assetto delle Marche.
In particolare, con il Decreto n. 815 dell’11 gennaio 1861 Valerio iniziò una capillare opera di soppressione e incameramento dei beni delle corporazioni religiose.
Nella Diocesi di Jesi i beni della Mensa Vescovile, del Capitolo, delle Confraternite, delle Collegiate e delle Opere Pie vennero espropriati, per essere assegnati ai Comuni o ad Enti di beneficenza laici di nuova istituzione oppure per essere venduti.
Il provvedimento era perfettamente in linea con gli indirizzi di ispirazione antipapalina propugnati dal nuovo governo.
A seguito dell’incameramento, “ingenti beni terrieri vennero rivenduti con lo scopo di riassestare il bilancio; in tal modo venne introdotta sul mercato una grande quantità di terreni che, a parole destinati ai contadini, di fatto furono acquistati, spesso a prezzi minimi, da ricchi borghesi o, nel Sud, dai già ricchi proprietari di terre che in tal modo rafforzarono ulteriormente la loro posizione di predominio sulle masse arretrate dei contadini. Contemporaneamente fu istituito un fondo per il culto che doveva in parte risarcire il clero dell’avvenuta confisca dei beni ecclesiastici (…) Tutto questo in piena coerenza con un certo spirito laico e anticlericale che aveva animato e animava il risorgimento italiano”(Fabietti).
Per focalizzare la tragica sorte delle comunità francescane presenti nella Diocesi di Jesi, basti ricordare che il Decreto Valerio provocò l’immediata espulsione dei Conventuali da San Floriano.
Nessun esito sortì la richiesta di alcuni frati di poter restare nel convento stante l’impossibilità di fare rientro nei paesi di provenienza: a grande maggioranza, il Consiglio Comunale rigettò la proposta.
La chiesa venne sconsacrata e nel 1869 diventò sede della biblioteca comunale. I locali dell’ex convento divennero sede di istituti scolastici.
Nel 1866 i Padri Minori Riformati vennero cacciati dal convento di San Francesco al Monte: la loro chiesa venne demolita e l’annesso convento fece posto alla Casa di Riposo, ancora in funzione. Dell'antico edificio si è conservato soltanto il portale di pietra, collocato in una parete dell'atrio del Palazzo della Signoria.
Anche i Cappuccini dovettero abbandonare il loro convento (situato nell’isolato Carducci) per trovare rifugio nella Chiesa di San Bernardo presso Palazzo Pianetti in via Valle.
Analoga sorte subirono gli altri conventi francescani della Vallesina: gli Osservanti furono cacciati da Montecarotto (il loro convento sarà trasformato in Ospedale) come anche i Frati Neri dovettero allontanarsi dalla Romita di Massaccio (Cupramontana).
La ristrettezza dei locali dell’ex convento di San Floriano, indusse il Ministero della Pubblica Istruzione ad individuare una più adeguata sede per il Regio Istituto Tecnico Pietro Cuppari. Nel settembre del 1880 venne annunciato l’intendimento di requisire il Convento della S.S.Annunziata (oggi in vicolo Angeloni), legittimamente abitato sin dal 1664 dalle Clarisse.
In una lettera del 24 dicembre dello stesso anno indirizzata al Ministero, il marchese Mereghi tentò di scongiurare la realizzazione del progetto, dichiarandosi pronto a chiedere udienza anche a Sua Maestà Re Umberto pur di impedire l’espulsione delle monache “che sono in perfetta regola con la legge (…) ed hanno le educande delle primarie famiglie di Jesi”
La presa di posizione del “reazionario” Mereghi provocò l’immediata risposta della fazione anticlericale. Nel giro di pochi giorni vennero presentate al Sindaco di Jesi ben tre petizioni favorevoli alla soppressione del convento.
La prima petizione fu firmata da esponenti del mondo politico cittadino e da professori scolastici (tra gli altri, i consiglieri comunali Ruggero Rosi, Antonio Gianandrea, Guglielmo Guglielmi, Marcello Marcelli, Alessandro Ferri, Antonio Colocci, il Preside Antonio Mogni, il docente Arzeglio Felcini): “I sottoscritti, venuti a cognizione che il partito reazionario chiede la conservazione delle monache clarisse nel convento da loro abitato, protestano contro un atto così contrario alla pubblica opinione di questa patriottica città e chiedono in nome del partito liberale che quel convento sia destinato ad uso delle pubbliche scuole”.
La seconda petizione, datata 1 gennaio 1881, è del seguente tenore: “I sottoscritti, cittadini di Jesi, rivolgono istanza alla S.V. Ill.ma, affinché si degni far conoscere al Superiore Governo il loro vivo desiderio, che la cessione del fabbricato tuttora occupato dalle Monache Clarisse, per utile e decoro della Città venga quanto prima ad effettuarsi conforme alla richiesta fattagli da questa Rappresentanza Municipale”.
La terza petizione, sempre del capodanno 1881, riporta i nomi di numerosi artigiani (falegnami, tappezzieri, facchini, scalpellini, fabbri, canapini): “I quisottocrocesegnati, inalfabeti (sic), cittadini di Jesi, rivolgono istanza alla S.V. Ill.ma, affinché si degni di far conoscere…(prosegue con lo stesso testo della seconda petizione).
La soccombenza della posizione “reazionaria” non poté essere evitata: il 18 aprile 1881 le suore Clarisse furono costrette ad abbandonare per sempre la loro casa, destinata a diventare sede del Regio Istituto Tecnico Cuppari per oltre 100 anni e oggi sede universitaria.
CEFFONI…FRANCESCANI
In quel periodo di forte esasperazione si raggiunsero livelli di inaudita virulenza anticlericale: il 23 aprile 1864 il Vescovo di Jesi, Cardinale Carlo Luigi Morichini, venne addirittura arrestato e tradotto nelle carceri di Santa Palazia in Ancona.
Il motivo del grave provvedimento giudiziario – che ebbe eco in tutta Europa – era da ricercarsi nella tassativa applicazione di un decreto della S. Penitenzieria romana: fin dal 1860, infatti, il Pontefice aveva imposto ai confessori il divieto di assolvere i funzionari papalini che fossero passati al servizio del Governo italiano.
Durante la quaresima del 1864, l’Avvocato Augusto Pranzetti, già funzionario pontificio e successivamente Regio Pretore di Jesi, presentatosi al confessionale del Duomo, non venne ammesso al sacramento.
L’episodio fece scattare, a carico del Cardinale, una denuncia al Procuratore del Re per il reato di denegata assoluzione sacramentale: la detenzione durò circa 20 giorni e si concluse soltanto per l’intervento di Napoleone III.
A seri guai giudiziari andò incontro, nel 1867, anche il cappuccino P. Bonaventura da Monteroberto, il quale nel corso di un’omelia lanciò un pubblico attacco contro il nuovo regime sabaudo: “Una volta Iddio era Padre nostro, ma al dì d’oggi non è più, perché viene trascinato nella strada, tenuto come un asino, come un maiale, come un ladro.
Ora che il governo ci ha cacciati via e si è tolto questo peso dalle spalle, sarete contenti?”.
Alle risate di scherno di un uditore (tale Piero Spadoni) il frate reagì con un sonoro ceffone accompagnato da un severo rimprovero: “Così imparerai a stare in chiesa”.
Emblematica del clima avvelenato di quel periodo è una pagina del diario del Marchese Adriano Colocci : “Nei giorni successivi (siamo nel 1870) passarono treni carichi di prigionieri pontifici. Con Papà andavamo alla stazione, dove i jesini si addensavano per curiosare; ma i nostri soldati scendevano a guardia degli sportelli delle vetture e impedivano offese ai prigionieri, che si tenevano ben dentro alle vetture, senza esporsi agli sguardi della folla. E rammento che molti popolani pregavano le sentinelle di appagare la curiosità pubblica e dicevano in dialetto “Almango fàdecene vedè uno solo!”. E un bersagliere, scostandosi, ci lasciò scorgere qualche soldato papalino, la cui vista provocò un subisso di gridi e di improperi, tra cui si sentivano le parole: “Sbirro! Boja! Barbacà!”.
UNA LENTA E DIFFICILE NORMALIZZAZIONE
Si deve al Vescovo Rambaldo Magagnini (in carica dal 1872 al 1892) la gestione, a livello diocesano, della delicatissima fase successiva alla breccia di Porta Pia.
Con prudenza e determinazione, molto spesso attingendo risorse dal patrimonio di famiglia, il Vescovo risollevò le sorti della Chiesa locale, sconvolta dalle disposizioni del Decreto Valerio.
Per limitarsi alla situazione dei francescani, si deve a Magagnini l’organizzazione degli aiuti alle suore Clarisse per la costruzione della nuova casa nei pressi della Chiesa di San Marco.
Anche i Cappuccini ebbero nel 1886 il nuovo convento in via San Pietro Martire.
Al proposito, il periodico repubblicano L’intransigente in data 9 giugno 1884 pubblicava le feroci riflessioni di “Alcuni Reduci delle patrie battaglie” :
“Considerando che l’erezione di un nuovo convento di Francescani costituisce sanguinosa sfida ai principi di civiltà e di progresso; considerando che questa novella accozzaglia di sanfedisti oltre che vivamente oltraggia la patriottica Città di Jesi, sta pure a permanente insulto di quei generosi che pugnarono le patrie battaglie, con lo intendimento di abbattere le tenebrose rocche, ove si annidano i nemici più feroci della libertà e del civile consorzio, energicamente protestano contro la erezione del convento suddetto e additano allo sfregio pubblico coloro i quali anziché l’operaio e l’industria, sussidiano e spalleggiano la riorganizzazione di questi nidi di parassiti”.
Dieci anni dopo, il 4 ottobre 1894, anche la Fraternità dei Minori Riformati, cacciata da San Francesco al Monte a causa del Decreto Valerio, trovò sistemazione nel nuovo convento costruito in contrada Campolungo, a pochi metri dalla Chiesa della Madonna della Misericordia.
Negli anni tremendi della soppressione, la guida dei Minori spettò allo jesino Padre Venceslao Pieralisi (morto nel 1884) , insigne filosofo, per dieci anni Ministro della Provincia della Marca e, in seguito Generale.
A lui si deve, tra l’altro, la formazione religiosa e morale del Conte Massinissa Grizi (1853-1933) figura dominante del cattolicesimo jesino a cavallo dei due secoli, fondatore dell’Azione Cattolica diocesana e discendente di Crescenzio Grizi.
Detto dei Cappuccini e dei Riformati, per quanto riguarda, invece, i Conventuali, la soppressione del 1861 segnò la fine della loro presenza a Jesi dopo oltre 600 anni di storia. Nel capitolo provinciale di Montottone del 1892 (il primo dopo gli sconvolgimenti risorgimentali) non senza dolore venne decisa la chiusura definitiva dei conventi della Custodia jesina.
Ma 80 anni dopo, toccherà proprio ad un conventuale, Padre Oscar Serfilippi, assumere la guida della Diocesi di San Settimio.
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