PARTE PRIMA
LA PROVINCIA FRANCESCANA
PER ECCELLENZA
ANNO DOMINI 1208: DUE PAZZI SI AGGIRANO PER LA MARCA
Francesco unitamente a Egidio andò nella Marca di Ancona, gli altri due (Bernardo e Silvestro) si posero in cammino verso un'altra regione. Andando verso la Marca, esultavano giocondamente nel Signore. Francesco, a voce alta e chiara, cantava in francese le lodi del Signore, benedicendo e glorificando la bontà dell'Altissimo. Tanta era la loro gioia, che pareva avessero scoperto un magnifico tesoro nel podere evangelico della signora Povertà, per amore del quale si erano generosamente e spontaneamente sbarazzati di ogni avere materiale, considerandolo alla stregua di rifiuti.
E disse il Santo a Egidio: “ Il nostro movimento religioso sarà simile al pescatore, che getta le sue reti nell'acqua e cattura una moltitudine di pesci, poi, lasciando cadere nell'acqua quelli piccoli, ammucchia nelle ceste quelli grossi ”. Profetava con questa similitudine l'espansione del suo Ordine.
L'uomo di Dio non teneva ancora delle prediche al popolo ma, attraversando città e castelli, tutti esortava ad amare e temere Dio, a fare penitenza dei loro peccati. Egidio esortava gli uditori a credere nelle parole di Francesco, dicendo che dava ottimi consigli.
Gli ascoltatori si domandavano l'un l'altro: “ Chi sono questi due? cosa ci stanno dicendo? ”. A quei tempi l'amore e il timor di Dio erano come spenti nei cuori, quasi dappertutto; la penitenza era ignorata, anzi la si riteneva una insensataggine. A tanto erano giunte la concupiscenza carnale, la bramosia di ricchezza e l'orgoglio, che tutto il mondo pareva dominato da queste tre seduzioni diaboliche. Su questi uomini evangelici correvano perciò opinioni contrastanti. Alcuni li consideravano dei pazzoidi e dei fissati; altri sostenevano che i loro discorsi provenivano tutt'altro che da demenza. Uno degli uditori osservò: “ Questi qui o sono uniti a Dio in modo straordinariamente perfetto, o sono dei veri insensati poiché menano una vita disperata: non mangiano quasi niente, camminano a piedi nudi, hanno dei vestiti miserabili ”.
Ciò nonostante, vedendo quel modo di vivere così austero eppure così lieto, furono presi da trepidazione. Nessuno però osava seguirli. Le ragazze, al solo vederli da lontano, scappavano spaventate, nella paura di restare affascinate dalla loro follia.
Percorsa che ebbero quella provincia, fecero ritorno al luogo di Santa Maria (Leggenda dei tre compagni 33,34).
Ciò nonostante, vedendo quel modo di vivere così austero eppure così lieto, furono presi da trepidazione. Nessuno però osava seguirli. Le ragazze, al solo vederli da lontano, scappavano spaventate, nella paura di restare affascinate dalla loro follia.
Percorsa che ebbero quella provincia, fecero ritorno al luogo di Santa Maria (Leggenda dei tre compagni 33,34).
A distanza di ottocento anni, nella Vallesina sono ancora visibili tracce alquanto significative dei passaggi del Santo.
Presumibilmente nel 1210, Francesco ed Egidio provenienti da Valleremita, si diressero al monastero benedettino di S. Urbano dell’Esinante; i monaci, conquistati dal fervore spirituale dei due pellegrini, posero a loro disposizione un'area boscosa situata nei pressi del castello di Favete, a due miglia da Apiro.
Nella zona saranno, in seguito, realizzati un conventino e una chiesetta in pietra dedicata a S. Francesco (oggi in condizioni fatiscenti, dopo il terremoto del 1997) sulle cui pareti è ancora parzialmente visibile un pregevole affresco del 1490 con i ritratti della Madonna che allatta Gesù, affiancati da San Francesco e S. Antonio.
Proseguendo il viaggio verso il fiume Musone, un’altra tappa del percorso fu la contrada delle Crocette, nel territorio di Staffolo. I due frati, stanchi per il cammino, ebbero il desiderio di dissetarsi e pregarono il Signore per il dono di sorella acqua.
Secondo la tradizione, dalla terra scaturì, per miracolo, una polla d’acqua ancora oggi zampillante.
Nel 1244, il Ministro Generale dell’Ordine Crescenzio Grizi, di cui tratteremo in un paragrafo successivo, fece apporre, sul luogo del prodigio, una lapide con il seguente contenuto:
“Hanc (aquam) eduxit oratio B. Francisci
cum Frate Aegidio precantis
anno Domini 1210
Frater Crescentius de Aesio
fieri fecit A.D. 1244”
Questa (acqua) fece scaturire la preghiera del beato Francesco in preghiera insieme a frate Egidio nell’anno del Signore 1210. Frate Crescenzio da Jesi fece realizzare (questa lapide) nell’anno del Signore 1244.
In prossimità della sorgente, luogo di frequenti pellegrinaggi per gli effetti benefici di quell’acqua, nel 1796 fu edificata un’umile chiesa, in onore del Santo di Assisi.
La “follia” di Francesco fu straordinariamente contagiosa! In meno di 20 anni da quel primo viaggio il numero degli insediamenti si moltiplicò a dismisura.
Nel 1226, anno della morte del Santo, il movimento francescano era già organizzato in sei Province religiose: la Thuscia (Toscana, Umbria, Sabina e Lazio), la Lombardia (da Rimini alle Alpi), la Terra Laboris (Abruzzo e Campania), l’Apulia (Capitanata, Terre di Bari, Lecce e Otranto), la Calabria (unitamente alla Sicilia) e la Marca Anconetana (dal Tronto al Foglia con Massa Trabaria e il Montefeltro).
Quest’ultima Provincia, nonostante la limitatezza del territorio, poteva già annoverare oltre trenta Fraternità: Acquaviva, Ancona, Ascoli Piceno, Camerino, Castel d’Emilio, Castiglioni d’Appignano, Cessapalombo, Civitanova, Fabriano, Falerone, Fano, Faggiola di Macerata Feltria, Favete di Apiro, Forano, Fratterosa, Jesi, Lunano, Massa Fermana, Matelica, Mercatello, Mondaino, Mondavio, Montalto, Mombaroccio, Montefalcone, Morrovalle, Polesio detto poi Poggio Canoso, Pontelatrave, Recanati, Saltara, San Leo, Roccabruna di Sarnano, Sirolo, Venarotta e forse Osimo, Penna e Pesaro.
Ma proprio nelle Marche emersero, come vedremo, le prime profonde inquietudini provocate da divergenti interpretazioni della volontà del fondatore.
Nel suo Testamento, Francesco, dopo aver ripercorso con commozione le origini della sua straordinaria esperienza, aveva formulato chiare indicazioni operative per il futuro dell’Ordine:
“E dopo che il Signore mi dette dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. Ed io la feci scrivere con poche parole e con semplicità, e il signor Papa me la confermò.
E quelli che venivano per abbracciare questa vita, distribuivano ai poveri tutto quello che potevano avere, ed erano contenti di una sola tonaca, rappezzata dentro e fuori, del cingolo e delle brache. E non volevamo avere di più.
Noi chierici dicevamo l'ufficio, conforme agli altri chierici; i laici dicevano i Pater noster, e assai volentieri ci fermavamo nelle chiese. Ed eravamo illetterati e sottomessi a tutti.
Ed io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare; e voglio fermamente che tutti gli altri frati lavorino di un lavoro quale si conviene all'onestà. Coloro che non sanno, imparino, non per la cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma per dare l'esempio e tener lontano l'ozio.
Quando poi non ci fosse data la ricompensa del lavoro, ricorriamo alla mensa del Signore, chiedendo l'elemosina di porta in porta.
Il Signore mi rivelò che dicessimo questo saluto: “Il Signore ti dia la pace!”.
Si guardino bene i frati di non accettare assolutamente chiese, povere abitazioni e quanto altro viene costruito per loro, se non fossero come si addice alla santa povertà, che abbiamo promesso nella Regola, sempre ospitandovi come forestieri e pellegrini.
Comando fermamente per obbedienza a tutti i frati che, dovunque si trovino, non osino chiedere lettera alcuna [di privilegio] nella curia romana, né personalmente né per interposta persona, né per una chiesa né per altro luogo né per motivo della predicazione, né per la persecuzione dei loro corpi; ma, dovunque non saranno accolti, fuggano in altra terra a fare penitenza con la benedizione di Dio”.
D’altra parte la Regola (capitolo VI) conteneva disposizioni di analogo tenore:
“I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né alcuna altra cosa. E come pellegrini e forestieri in questo mondo, servendo al Signore in povertà ed umiltà, vadano per l’elemosina con fiducia. Né devono vergognarsi, perché il Signore si è fatto povero per noi in questo mondo. Questa è la sublimità dell’altissima povertà, quella che ha costituito voi, fratelli miei carissimi, eredi e re del Regno dei cieli, vi ha fatto poveri di cose e ricchi di virtù. Questa sia la vostra parte di eredità, quella che conduce fino alla terra dei viventi. E, aderendo totalmente a questa povertà, fratelli carissimi, non vogliate possedere niente altro in perpetuo sotto il cielo, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo”.
Che la povertà costituisca il tratto qualificante dell’esperienza umana di Francesco (non a caso chiamato Pater pauperum dal Celano), è cosa tanto certa quanto universalmente nota, non solo ai seguaci e ai credenti, ma anche all’immaginario collettivo, come risulta attestato anche da innumerevoli testimonianze artistiche.
Se volessimo considerare il poeta come un testimone qualificato della società del proprio tempo, scopriremmo che i massimi autori di tutte le epoche sono rimasti affascinati dal rapporto tra il Santo di Assisi e Madonna Povertà.
Agli estremi temporali di questi otto secoli di francescanesimo, Dante Alighieri (1265 – 1321) e Alda Merini (1931 – 2009) si sono posti in contemplazione di questa singolare relazione amorosa.
Dal Canto XI del Paradiso, apprendiamo che la Povertà, rimasta vedova di Cristo, suo primo sposo, dovette attendere la nascita di Francesco per essere nuovamente corteggiata (“privata del primo marito, millecent’anni e più dispetta e scura, fino a costui si stette sanza invito”).
L’amore tra Francesco e la povertà ebbe conseguenze dilaganti “tanto che ‘l venerabile Bernardo si scalzò prima” e, subito dopo “scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro dietro a lo sposo, sì la sposa piace”.
Al momento della morte, ai suoi frati, come legittimi eredi, Francesco “raccomandò la donna sua più cara, e comandò che l’amassero a fede”.
Dal “Canto di una creatura” della Merini, cogliamo, invece, il senso di gioia e di gratitudine di Francesco per la sua vita in povertà:
“Felice Colui
che mi ha rivestito di un saio
che è diventato un pavimento di rose.
Non ho mai sentito
l’asperità di questo tessuto,
ma odorava di fresco,
odorava di mattino,
odorava di resurrezione.
Le mie spalle sono diventate deboli ma forti:
sono diventato un contadino di fede.
Aravo solo la terra di Dio, la sua volontà”.
INIZIANO LE DIVISIONI…
Come era umanamente prevedibile, il carattere radicale della volontà testamentaria di Francesco finì per creare, nei suoi seguaci, serie difficoltà sul piano operativo.
A pochi anni dalla morte del Fondatore, si assistette ad un fenomeno di clericalizzazione dell’Ordine (la definizione è riferita dallo storico Bartoli): con le Costituzioni del 1239 vengono impartite precise indicazioni normative in base alle quali “nessuno può essere accolto nell’Ordine se non sia chierico così da essere competente in grammatica, istruito in logica, o in medicina, o nel diritto canonico, o in quello civile, o in teologia”.
Con il medesimo atto si dispone che “i frati non stiano per strada o nei luoghi pubblici a chiedere l’elemosina”, in evidente controtendenza rispetto a quanto previsto dalla Regula non bullata (“Et cum necesse fuerit, vadant pro elemosynis” FF 31)
L’applicazione dei nuovi orientamenti , che coincide con la fase di abbandono dei primitivi insediamenti periferici e il conseguente trasferimento nelle zone urbane, determina una svolta identitaria e suscita sconcerto e confusione soprattutto tra alcuni frati della “prima ora”.
E’ il caso di Frate Ginepro protagonista di un episodio straordinario (anche perché percorso da una sottile vena di “umorismo” di tipica marca francescana):
“Tanta pietà aveva alli poveri Frate Ginepro e compassione, che quando vedea alcuno che fusse vestito male o ignudo, di subito toglieva la sua tonica, o lo cappuccio della sua cappa, e davalo al così fatto povero; e però il Guardiano gli comandò per obbedienza, ch’egli non desse a nessuno povero tutta la sua tonica, o parte del suo abito. Avvenne caso, che a pochi dì passati scontrò uno povero quasi ignudo, domandando a Frate Ginepro limosina per lo amore di Dio: a cui con molta compassione disse: Io non ho ch’io ti possa dare, se non la tonica; ed ho dal mio prelato per la obbedienza, che io non la possa dare a persona, né parte dello abito: ma se tu me la cavi di dosso, io non ti contraddico.
Non disse a sordo; che di subito cotesto povero gli cavò la tonica a rovescio, e vassene con essa, lasciando Frate Ginepro ignudo. E tornando al luogo, fu addomandato dove era la tonica, risponde: Una buona persona la mi cavò di dosso, e andossene con essa. E crescendo in lui la virtù della pietà, non era contento di dare la sua tonica, ma dava e’ libri, paramenti e mantella, e ciò che gli venia alle mani dava ai poveri. E per questa cagione li Frati non lasciavano le cose in pubblico, perocchè Frate Ginepro dava ogni cosa per l’amore di Dio, e a sua laude”.
D’altra parte, la dissidenza all’interno del francescanesimo non era altro che il riflesso della più vasta “questione pauperistica”, simbolo di una lacerante contraddizione che stava attraversando la vita della Chiesa durante il medioevo.
Mentre parte dell’Ordine propugnava il primato assoluto della “santa povertà”, altri esponenti (sostenuti dalla Curia Romana) vollero coltivare un obiettivo di proselitismo e di penetrazione francescana nella società dell’epoca: tale strategia poteva essere perseguita attraverso l’edificazione di nuovi conventi e lo sviluppo territoriale di una solida struttura organizzativa.
Molto presto i fautori della spinta apostolica entrarono in conflitto con i sostenitori del carisma contemplativo delle origini: con la bolla Quo elongati del 1230, Gregorio IX – ovvero proprio colui che, da Cardinale, era stato il protettore di Francesco - giunse a dichiarare che i frati non erano obbligati alla stretta osservanza del Testamento.
La presa di posizione del Papa fece divampare lo scontro tra la componente degli zelanti (strenui “custodi” del Testamento) e quella dei lassisti.
La situazione di crisi fu affrontata, attorno al 1240, dallo jesino Crescenzio Grizi (sesto successore di San Francesco), il quale si contrappose apertamente agli zelanti, in sintonia con l’autorità papale.
Appartenente a una delle più nobili famiglie della città, in gioventù aveva avuto moglie e prole. Alla morte della coniuge, aveva deciso di entrare, insieme ad un figlio, nell’Ordine francescano.
Le Fonti così descrivono l’operato del Grizi:
Entrato nell’Ordine già vecchio, esperto in diritto canonico e in medicina. Non molto tempo dopo fu fatto Provinciale della Marca anconetana. Vi trovò una setta di uomini superstiziosi, che non camminavano secondo le verità del Vangelo (…) ritenendosi più spirituali degli altri e volendo vivere secondo il proprio arbitrio, attribuendo tutto questo alla mozione dello Spirito. Frate Crescenzio, mentre era ministro provinciale li sterminò con mano forte”(FF 2671)
Controverso fu il giudizio dei contemporanei sull’opera di Crescenzio: un giudizio sicuramente condizionato dalle contrapposte appartenenze dei suoi critici.
La fazione avversaria degli zelanti gettò discredito su di lui considerando la sua azione “inutile” ed “insufficiente” (FF 2671)
Per altri, al contrario, “il suo zelo era infiammato dalla carità, modellato dalla scienza e fortificato dalla fermezza”.
Quella di Crescenzio, tuttavia, si dimostrò una vittoria momentanea, poiché appena dopo pochi anni il testimone degli zelanti fu raccolto, con maggior vigore, dal nuovo gruppo degli spirituali, anche essi paladini intransigenti del principio evangelico della povertà.
Questa volta la famiglia francescana si trovò divisa tra i frati della comunità (nucleo storico dei conventuali) e i frati spirituali, i cui massimi esponenti marchigiani furono Angelo Clareno da Fossombrone e Pietro da Macerata.
Con l’intenzione di comporre la spaccatura interna, nel 1279 Papa Nicolo III emanò la bolla Exiit qui seminat nella quale veniva esplicitata una singolare soluzione alla “questione pauperistica” consistente in un artificio giuridico: la Santa Sede avrebbe avocato a sé tutte le proprietà dell’Ordine per poi riaffidarle alle Fraternità nella forma dell’usufrutto.
In tale maniera, si sarebbe realizzata la separazione tra il soggetto titolare della proprietà (la Chiesa) e il soggetto mero utilizzatore dei beni (l’Ordine), garantendosi il formale rispetto della volontà testamentaria di Francesco.
Il conflitto all’interno dell’Ordine fu tremendo: 5 Province (tra cui quella delle Marche) invocarono e ottennero pesanti sanzioni contro i capi della fazione spirituale.
Angelo e Pietro furono privati della libertà, fino a quando non ottennero dal Papa Celestino V l’autorizzazione a separarsi dall’Ordine per creare la Fraternità dei Poveri Eremiti.
Ma la condizione di autonomia organizzativa cessò molto presto a causa dell’ascesa al soglio pontificio, nel 1294, di Bonifacio VIII il quale, come suo primo atto, dichiarò nulle tutte le decisioni assunte dal suo predecessore.
Le frange più estremiste degli spirituali aderirono alle dottrine di Gioacchino da Fiore, considerate eretiche dalla Curia romana. Da quell’area di pensiero sorsero i Fraticelli di cui tratteremo nella seconda parte.
La disputa sulla povertà sembra giungere ad una svolta nel 1316, anno nel quale vengono eletti, a distanza di pochi mesi, il nuovo Papa Giovanni XXII e il nuovo Generale dell’Ordine Michele da Cesena.
Il Papa chiese al Generale di stroncare la corrente degli Spirituali. Di fronte all’esitazione di Michele, Giovanni XXII avviò un periodo di persecuzioni culminate in scomuniche e condanne a morte.
Nel 1322, mentre il Capitolo dei frati era riunito a Perugia, il Papa lanciò a Michele un ultimatum, sotto forma di un quesito capzioso destinato a saggiare l’ortodossia dell’Ordine sulla questione della povertà: Utrum asserire quod Christus et Apostoli non habuerunt aliquid sive in proprio sive in communi sit hereticum ovvero “è eresia affermare che Cristo e gli Apostoli non possedettero alcunché né in proprio né in comune?
La risposta del Capitolo fu chiara e univoca: Gesù e gli Apostoli erano stati effettivamente e sicuramente poveri.
Il Papa, il quale aveva formulato il quesito in termini ingannevoli pensando al ruolo di amministratore della “cassa comune” svolto da Giuda Iscariota (Gv. 12,6), reagì con impeto alla risposta del Capitolo di Perugia.
Con la bolla Cum inter nonnullos dichiarò eretica la proposizione del Capitolo e convocò Michele alla Corte di Avignone affinché rendesse conto della sua posizione.
Con mossa imprevedibile, Michele e i suoi più stretti collaboratori respinsero l’ordine del Papa e cercarono protezione presso l’Imperatore Ludovico il Barbaro, suo acerrimo nemico.
Nel maggio del 1328 era stato proprio Ludovico - molto interessato, per motivi di supremazia, alla disputa sulla povertà – a sostenere l’elezione dell’antipapa Niccolò V, proveniente dalla corrente dei francescani spirituali.
A questo punto Giovanni XXII non esitò a deporre Michele dalla carica di Generale dell’Ordine e a scomunicarlo.
La nuova condizione di Michele – esplicitamente contrastante con il voto di obbedienza verso la Chiesa che aveva sempre caratterizzato l’insegnamento di Francesco – provocò il venir meno del consenso di tanti sostenitori del movimento spirituale, segnandone – di fatto – l’inesorabile declino.
Con il Capitolo del 1329 iniziò la fase della “normalizzazione”: il conventuale Guiral Ot (Geraldo di Oddone) venne eletto nuovo Generale, confermando totale obbedienza al sacro soglio. Nel frattempo l’imperatore Ludovico, detestato dagli stessi ghibellini italiani, fece ritorno in Germania e Niccolò V, rimasto privo di protezione, si sottomise all’autorità di Giovanni XXII.
LA RIFORMA DELL’OSSERVANZA
Nelle Marche la sconfitta del movimento degli spirituali non riuscì a soffocare l’anelito di quanti volevano abbracciare l’ideale dell’altissima povertà.
Mentre nella Vallesina continuava a svilupparsi – in una logica di deviazione dottrinale – la setta dei fraticelli, nell’altopiano di Colfiorito, a Brogliano, prendeva vita la nuova esperienza dell’Osservanza.
Nel 1334 un piccolo gruppo di frati, guidato da Fra Giovanni della Valle, seguace di Angelo Clareno, ottenne dai superiori l’autorizzazione ad osservare la Regola in condizione eremitica.
La Curia Romana, che aveva guardato con sospetto al sorgere di una nuova realtà di matrice radicale, ordinò ben presto la fine dell’esperienza.
Ma nel 1368 Frate Paoluccio Trinci da Foligno ebbe un nuovo permesso per ritirarsi a Brogliano: da allora l’Osservanza conobbe una crescita incessante.
Già nel 1415 il movimento accoglieva oltre 200 frati, distribuiti in 34 comunità marchigiane, le più importanti delle quali posizionate a Forano, Massa Fermana e Montefalcone Appennino.
Dopo il Concilio di Costanza (1418) i membri, ormai presenti anche in altre regioni d’Italia e d’Europa, vennero ufficialmente chiamati “frati minori della regolare osservanza”.
Tra i massimi esponenti dell’Osservanza, accanto a Bernardino da Siena e Giovanni da Capestrano, si erge la figura di Giacomo della Marca (Monteprandone 1393 – Napoli 1476).
Implacabile difensore dell’ortodossia contro le eresie dei Fraticelli in Italia, dei Manichei in Bosnia, degli Ussiti e Patareni in Boemia, Austria e Ungheria, Nunzio e Legato al servizio di sette Pontefici, ispiratore di Statuti comunali, promotore dei Monti di Pietà contro la piaga dell’usura, apostolo della devozione al SS. Nome di Gesù.
Alla “seconda generazione” dell’Osservanza appartennero i tre Beati, Domenico da Leonessa, Pietro da Mogliano e Marco da Montegallo.
Quest’ultimo (1425 - 1496) , incline all’impegno sociale a favore dei poveri e compagno di Giacomo della Marca in molteplici missioni di pacificazione civile, fu il teorico dei Monti di Pietà “unico humano refugio” del popolo cristiano “stracciato e devorato” dagli usurai.
Con il trascorrere degli anni, i rapporti tra le due componenti francescane dei Conventuali e degli Osservanti, finirono per deteriorarsi in maniera irreversibile: con la bolla Ite et vos del 1517, Papa Leone X sancì la divisione del primo Ordine nei due rami.
Ma neppure questa volta la drammatica sequenza delle scissioni era destinata ad interrompersi.
Dal tronco della famiglia degli Osservanti, nasceranno la famiglie dei Cappuccini (di cui parleremo nel paragrafo successivo), la famiglia dei Frati Minori Riformati ( chiamati anche “della più stretta Osservanza”) ufficialmente approvata da Clemente VII nel 1532 e la famiglia dei Recolletti (1632).
Invece, in seno ai Conventuali, nasceranno, nel 1562, gli Alcantarini (chiamati anche Scalzi o Pasqualiti).
HABITELLO STRETTO ET CAPUCCIO AGUZZO
L’indomito anelito alla radicalità – di chiara matrice spirituale – emerse con rinnovato vigore proprio dal grembo dell’Osservanza marchigiana.
Nell’anno giubilare 1525 un frate decide di fuggire dal convento di Montefalcone Appennino e di dirigersi a Roma. Veste un “habitello stretto et capuccio aguzzo”, cammina scalzo e porta una croce. Ė fra Matteo da Bascio (l’odierna Pennabilli), e lascia il convento per vivere con rigore la Regola di Francesco d’Assisi.
A Roma ottiene da papa Clemente VII il permesso verbale, ma il Provinciale dell’Osservanza Giovanni da Fano, nel corso di un drammatico Capitolo celebrato proprio a Jesi, punisce l’atto di disobbedienza, facendo imprigionare il frate ribelle a Forano.
Grazie all’intervento della duchessa di Camerino Caterina Cybo - che aveva conosciuto Matteo e i suoi primi compagni - il Papa riconobbe ufficialmente la riforma cappuccina (1528).
L’anno successivo, ad Albacina, presso l’eremo dell’Acquarella, oltre 500 frati di riunirono per il primo Capitolo Generale dei cappuccini.
Non mancarono le crisi interne : clamorosa fu quella suscitata dal passaggio al protestantesimo di uno tra i più prestigiosi esponenti, Bernardo Ochino, con la conseguenza di attirare su tutti i Cappuccini il sospetto di eresia.
Si attribuì a Papa Paolo III l’intenzione di sopprimere l’Ordine. Ma il superiore della comunità, Francesco da Jesi, dopo un’ inchiesta, poté dimostrare che mai i Cappuccini si erano discostati dalla fedeltà al Pontefice.
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Dai Fioretti apprendiamo che Francesco, recatosi a predicare a Savurniano (Cannara, secondo altri codici), venne “assediato” dagli abitanti del luogo, desiderosi di cambiare vita e di seguirlo senza indugio.
Il Santo si vide costretto a contenere l’empito di conversione di quella gente:“Non abbiate fretta ed io vi ordinerò quello che vo’ dobbiate fare per salute dell’anime vostre. E allora pensò di fare il terzo ordine per universale salute di tutti”.
Una testimonianza ulteriore dell’influsso del carisma francescano sui laici è riferita nella Leggenda dei Tre Compagni: “Anche gli uomini ammogliati e le donne maritate, non potendo svincolarsi dai legami matrimoniali, dietro suggerimento dei frati, praticavano una più stretta penitenza nelle loro case”.
Con la “Lettera ai fedeli” (1215) Francesco assolve l’impegno preso e dona ai suoi seguaci una traccia di altissima spiritualità.
Successivamente la ineluttabile esigenza di una strutturazione anche organizzativa del nuovo Ordine laico, spinge Francesco alla pubblicazione del Memoriale Propositi (1221), scritto in collaborazione con il Cardinale Ugolino.
La cosiddetta Regula antiqua contiene una serie di minuziose prescrizioni riguardanti aspetti concreti della vita quotidiana dei penitenti: dal modo di vestire (“Gli uomini indosseranno panno umile non colorato, che non superi il prezzo di sei soldi ravennati. Le sorelle vestano mantello e tunica di stoffa della stessa umiltà. Indossino un ampio copricapo di lino senza crespature, il cui prezzo non superi dodici denari pisani”), ai digiuni, alla frequenza della preghiera (“Tutti dicano ogni giorno le sette ore canoniche, cioè mattutino, prima, terza, sesta, nona, vespri e completorio”), alla sepoltura dei defunti.
La ricostruzione della storia del Terz’Ordine delle Marche è impresa avvincente, ma molto spesso disperata, stante l’esiguità delle fonti documentali, riferite ai primi secoli di vita del movimento.
Le caratteristiche organizzative dell’Ordine e, in special modo, l’assenza di insediamenti stabili, non hanno favorito la conservazione degli atti.
Per attingere ad informazioni attendibili, unica possibilità è rappresentata dalla consultazione di fonti notarili o di documenti pontifici.
La più antica attestazione della presenza terziaria è costituita da un lascito testamentario a favore dei Frati Minori di Ascoli Piceno deciso, nel 1237, da una penitente francescana di nome Beldea.
Sempre ad Ascoli, la comunità dei penitenti è destinataria, nel 1255, di una lettera di Alessandro IV con la quale viene riconosciuta l’esenzione dalle pubbliche cariche.
Ma è, soprattutto, nel nord del Marche che rifulsero, tra i primi terziari, numerosi esempi di santità con il Beato Giovanni Pelingotto da Urbino (+ 1304) ed i pesaresi Beato Cecco Zanferdini (+ 1350) e Beata Michelina Metelli (+1356).
UNA CONSIDERAZIONE CONCLUSIVA
Al termine di questo capitolo dedicato alle vicissitudini del movimento francescano vorremmo condividere con il lettore una semplice considerazione: abbiamo potuto constatare come nell'arco di trecento anni, la storia dei seguaci di Francesco sia stata segnata da frequenti scissioni (zelanti, lassisti, frati della comunità, spirituali, conventuali, osservanti, cappuccini ...) con conseguenze alquanto dolorose per i singoli protagonisti e per le fraternità coinvolte.
La fedeltà al Testamento di Francesco e l'obbedienza alla Madre Chiesa hanno rappresentato i criteri discriminanti rispetto ai quali si sono manifestate, di volta in volta, situazioni di dissidio interne all’Ordine.
Ci sia consentito, per un attimo, di inoltrarci, in un suggestivo sentiero interpretativo in compagnia di Hans Urs von Balthasar: il teologo svizzero descrive la vita della Chiesa (ma lo stesso ragionamento vale anche per una famiglia religiosa) come una dinamica tra diversi principi o profili, che perpetuano e rendono vive le esperienze idealtipiche di alcune persone che hanno vissuto a fianco di Gesù (o, in questo caso, di Francesco).
In particolare, i due principi fondativi sono denominati “petrino” e “mariano”: il principio petrino sottolinea soprattutto la componente istituzionale, gerarchica, giuridica e oggettiva della vita della Chiesa, mentre quello mariano esprime la natura carismatica, popolare, orizzontale e fraterna.
I due principi, che nelle ultime sue opere Balthasar chiama “istituzionale” e “carismatico”, sono per lui complementari, non in conflitto tra di loro, ma piuttosto in rapporto dinamico e dialogico.
La storia della Chiesa (ma anche quella dell’Ordine francescano) può essere raccontata come lo sviluppo e l’intreccio di queste due dimensioni coessenziali della Chiesa: storia di istituzioni e storia di carismi.
Paradossalmente, crediamo che i fenomeni di dissidenza possano costituire la prova della straordinaria vitalità del carisma francescano: un pensiero veramente "vivo", pur tra le contraddizioni e le discordie, produce e diffonde energia attraverso i secoli, mentre una ideologia asfittica è destinata ad un inesorabile declino.
Questa tesi trova puntuale conferma anche in avvenimenti a noi più vicini.
Con la bolla “Felicitate quadam” del 1897, Papa Leone XIII dispose l’abolizione delle antiche denominazioni di Osservanti, Riformati, Discalciati o Alcantarini e Recolletti e l’aggregazione nell’unica famiglia dei Frati Minori “simpliciter dicti (in siglia O.F.M.), sotto la guida di un solo Ministro generale.
La riforma leonina incontrò, tra i frati delle diverse appartenenze, tenaci resistenze di stampo conservatore, tant’è che nel 1940 si rese necessario un ulteriore provvedimento confirmatorio da parte del Papa Pio XII.
Da allora e sino ai giorni nostri, il Primo Ordine Francescano è articolato nelle tre famiglie dei Minori Conventuali (O.F.M. Conv.), Minori Cappuccini (O.F.M. Cap.) e, appunto, Minori "simpliciter dicti" (O.F.M.).
Ma forse neppure questo assetto può considerarsi definitivo: nuove esperienze, come, ad esempio, quella dei Frati Minori Rinnovati (Istituto diocesano sorto nel 1972 dal "ramo" dei cappuccini) continuano a nascere e diffondersi anche ai giorni nostri, sempre con l'obiettivo di far rivivere lo straordinario carisma delle origini..
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