Il Natale
per me è speranza e tenerezza..
Francesco racconta a «La Stampa» il
suo primo Natale da vescovo di Roma. Casa Santa Marta, martedì 10
dicembre, ore 12.50. Il Papa ci accoglie in una sala accanto al
refettorio. L'incontro durerà un'ora e mezzo. Per due volte, durante il
colloquio, dal volto di Francesco sparisce la serenità che tutto il
mondo ha imparato a conoscere, quando accenna alla sofferenza innocente
dei bambini e alla tragedia della fame nel mondo.
Nell'intervista il Papa parla anche dei rapporti con le altre
confessioni cristiane e dell'«ecumenismo del sangue» che le unisce nella
persecuzione, accenna alle questioni su matrimonio e famiglia che
saranno trattate dal prossimo Sinodo, risponde a chi lo ha criticato
dagli Usa definendolo «un marxista» e parla del rapporto tra Chiesa e
politica.
Che cosa significa per lei il Natale?
«È
l'incontro con Gesù. Dio ha sempre cercato il suo popolo, lo ha
condotto, lo ha custodito, ha promesso di essergli sempre vicino. Nel
Libro del Deuteronomio leggiamo che Dio cammina con noi, ci conduce per
mano come un papà fa con il figlio. Questo è bello. Il Natale è
l'incontro di Dio con il suo popolo. Ed è anche una consolazione, un
mistero di consolazione. Tante volte, dopo la messa di mezzanotte, ho
passato qualche ora solo, in cappella, prima di celebrare la messa
dell'aurora. Con questo sentimento di profonda consolazione e pace.
Ricordo una volta qui a Roma, credo fosse il Natale del 1974, una notte
di preghiera dopo la messa nella residenza del Centro Astalli. Per me il
Natale è sempre stato questo: contemplare la visita di Dio al suo
popolo».
Che cosa dice il Natale all'uomo di oggi?
«Ci
parla della tenerezza e della speranza. Dio incontrandoci ci dice due
cose. La prima è: abbiate speranza. Dio apre sempre le porte, mai le
chiude. È il papà che ci apre le porte. Secondo: non abbiate paura della
tenerezza. Quando i cristiani si dimenticano della speranza e della
tenerezza, diventano una Chiesa fredda, che non sa dove andare e si
imbriglia nelle ideologie, negli atteggiamenti mondani.
Mentre la semplicità di Dio ti dice: vai avanti, io sono un Padre che
ti accarezza. Ho paura quando i cristiani perdono la speranza e la
capacità di abbracciare e accarezzare. Forse per questo, guardando al
futuro, parlo spesso dei bambini e degli anziani, cioè dei più indifesi.
Nella mia vita di prete, andando in parrocchia, ho sempre cercato di
trasmettere questa tenerezza soprattutto ai bambini e agli anziani. Mi
fa bene, e mi fa pensare alla tenerezza che Dio ha per noi».
Come si può credere che Dio, considerato dalle religioni infinito e onnipotente, si faccia così piccolo?
«I
Padri greci la chiamavano "synkatabasis", condiscendenza divina. Dio
che scende e sta con noi. È uno dei misteri di Dio. A Betlemme, nel
2000, Giovanni Paolo II disse che Dio è diventato un bambino totalmente
dipendente dalle cure di un papà e di una mamma. Per questo il Natale ci
dà tanta gioia. Non ci sentiamo più soli, Dio è sceso per stare con
noi. Gesù si è fatto uno di noi e per noi ha patito sulla croce la fine
più brutta, quella di un criminale».
Il Natale viene spesso presentato come fiaba zuccherosa. Ma Dio nasce in un mondo dove c'è anche tanta sofferenza e miseria.
«Quello
che leggiamo nei Vangeli è un annuncio di gioia. Gli evangelisti hanno
descritto una gioia. Non si fanno considerazioni sul mondo ingiusto, su
come faccia Dio a nascere in un mondo così. Tutto questo è il frutto di
una nostra contemplazione: i poveri, il bambino che deve nascere nella
precarietà. Il Natale non è stata la denuncia dell'ingiustizia sociale,
della povertà, ma è stato un annuncio di gioia. Tutto il resto sono
conseguenze che noi traiamo. Alcune giuste, altre meno giuste, altre
ancora ideologizzate. Il Natale è gioia, gioia religiosa, gioia di Dio,
interiore, di luce, di pace. Quando non si ha la capacità o si è in una
situazione umana che non ti permette di comprendere questa gioia, si
vive la festa con l'allegria mondana. Ma fra la gioia profonda e
l'allegria mondana c'è differenza».
È il suo primo Natale, in un mondo dove non mancano conflitti e guerre...
«Dio
mai dà un dono a chi non è capace di riceverlo. Se ci offre il dono del
Natale è perché tutti abbiamo la capacità di comprenderlo e riceverlo.
Tutti, dal più santo al più peccatore, dal più pulito al più corrotto.
Anche il corrotto ha questa capacità: poverino, ce l'ha magari un po'
arrugginita, ma ce l'ha. Il Natale in questo tempo di conflitti è una
chiamata di Dio, che ci dà questo dono. Vogliamo riceverlo o preferiamo
altri regali? Questo Natale in un mondo travagliato dalle guerre, a me
fa pensare alla pazienza di Dio. La principale virtù di Dio esplicitata
nella Bibbia è che Lui è amore. Lui ci aspetta, mai si stanca di
aspettarci. Lui dà il dono e poi ci aspetta. Questo accade anche nella
vita di ciascuno di noi. C'è chi lo ignora. Ma Dio è paziente e la pace,
la serenità della notte di Natale è un riflesso della pazienza di Dio
con noi».
In gennaio saranno cinquant'anni dallo storico viaggio di Paolo VI in Terra Santa. Lei ci andrà?
«Natale
sempre ci fa pensare a Betlemme, e Betlemme è in un punto preciso,
nella Terra Santa dove è vissuto Gesù. Nella notte di Natale penso
soprattutto ai cristiani che vivono lì, a quelli che hanno difficoltà,
ai tanti di loro che hanno dovuto lasciare quella terra per vari
problemi. Ma Betlemme continua a essere Betlemme.
Dio è venuto in un punto determinato, in una terra determinata, è
apparsa lì la tenerezza di Dio, la grazia di Dio. Non possiamo pensare
al Natale senza pensare alla Terra Santa. Cinquant'anni fa Paolo VI ha
avuto il coraggio di uscire per andare là, e così è cominciata l'epoca
dei viaggi papali. Anch'io desidero andarci, per incontrare il mio
fratello Bartolomeo, patriarca di Costantinopoli, e con lui commemorare
questo cinquantenario rinnovando l'abbraccio tra Papa Montini e
Atenagora avvenuto a Gerusalemme nel 1964. Ci stiamo preparando».
Lei ha incontrato più volte i bambini gravemente ammalati. Che cosa può dire davanti a questa sofferenza innocente?
«Un
maestro di vita per me è stato Dostoevskij, e quella sua domanda,
esplicita e implicita, ha sempre girato nel mio cuore: perché soffrono i
bambini? Non c'è spiegazione. Mi viene questa immagine: a un certo
punto della sua vita il bambino si "sveglia", non capisce molte cose, si
sente minacciato, comincia a fare domande al papà o alla mamma. È l'età
dei "perché". Ma quando il figlio domanda, poi non ascolta tutto ciò
che hai da dire, ti incalza subito con nuovi "perché?".
Quello che cerca, più della spiegazione, è lo sguardo del papà che dà
sicurezza. Davanti a un bambino sofferente, l'unica preghiera che a me
viene è la preghiera del perché. Signore perché? Lui non mi spiega
niente. Ma sento che mi guarda. E così posso dire: Tu sai il perché, io
non lo so e Tu non me lo dici, ma mi guardi e io mi fido di Te, Signore,
mi fido del tuo sguardo».
Parlando della sofferenza dei bambini non si può dimenticare la tragedia di chi soffre la fame.
«Con
il cibo che avanziamo e buttiamo potremmo dar da mangiare a tantissimi.
Se riuscissimo a non sprecare, a riciclare il cibo, la fame nel mondo
diminuirebbe di molto. Mi ha impressionato leggere una statistica che
parla di 10 mila bambini morti di fame ogni giorno nel mondo. Ci sono
tanti bambini che piangono perché hanno fame. L'altro giorno all'udienza
del mercoledì, dietro una transenna, c'era una giovane mamma col suo
bambino di pochi mesi. Quando sono passato, il bambino piangeva tanto.
La madre lo accarezzava. Le ho detto: signora, credo che il piccolo
abbia fame. Lei ha risposto: sì sarebbe l'ora... Ho replicato: ma gli
dia da mangiare, per favore! Lei aveva pudore, non voleva allattarlo in
pubblico, mentre passava il Papa. Ecco, vorrei dire lo stesso
all'umanità: date da mangiare! Quella donna aveva il latte per il suo
bambino, nel mondo abbiamo sufficiente cibo per sfamare tutti. Se
lavoriamo con le organizzazioni umanitarie e riusciamo a essere tutti
d'accordo nel non sprecare il cibo, facendolo arrivare a chi ne ha
bisogno, daremo un grande contributo per risolvere la tragedia della
fame nel mondo. Vorrei ripetere all'umanità ciò che ho detto a quella
mamma: date da mangiare a chi ha fame! La speranza e la tenerezza del
Natale del Signore ci scuotano dall'indifferenza».
Alcuni brani dell'«Evangelii Gaudium» le hanno attirato le
accuse degli ultra-conservatori americani. Che effetto fa a un Papa
sentirsi definire «marxista»?
«L'ideologia marxista è
sbagliata. Ma nella mia vita ho conosciuto tanti marxisti buoni come
persone, e per questo non mi sento offeso».
Le parole che hanno colpito di più sono quelle sull'economia che «uccide»...
«Nell'esortazione
non c'è nulla che non si ritrovi nella Dottrina sociale della Chiesa.
Non ho parlato da un punto di vista tecnico, ho cercato di presentare
una fotografia di quanto accade. L'unica citazione specifica è stata per
le teorie della "ricaduta favorevole", secondo le quali ogni crescita
economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una
maggiore equità e inclusione sociale nel mondo.
C'era la promessa che quando il bicchiere fosse stato pieno, sarebbe
trasbordato e i poveri ne avrebbero beneficiato. Accade invece che
quando è colmo, il bicchiere magicamente s'ingrandisce, e così non esce
mai niente per i poveri. Questo è stato l'unico riferimento a una teoria
specifica. Ripeto, non ho parlato da tecnico, ma secondo la dottrina
sociale della Chiesa. E questo non significa essere marxista».
Lei ha annunciato una «conversione del papato». Gli incontri con i patriarchi ortodossi le hanno suggerito qualche via concreta?
«Giovanni
Paolo II aveva parlato in modo ancora più esplicito di una forma di
esercizio del primato che si apra ad una situazione nuova. Ma non solo
dal punto di vista dei rapporti ecumenici, anche nei rapporti con la
Curia e con le Chiese locali. In questi primi nove mesi ho accolto la
visita di tanti fratelli ortodossi, Bartolomeo, Hilarion, il teologo
Zizioulas, il copto Tawadros: quest'ultimo è un mistico, entrava in
cappella, si toglieva le scarpe e andava a pregare. Mi sono sentito loro
fratello. Hanno la successione apostolica, li ho ricevuti come fratelli
vescovi. È un dolore non poter ancora celebrare l'eucaristia insieme,
ma l'amicizia c'è. Credo che la strada sia questa: amicizia, lavoro
comune, e pregare per l'unità. Ci siamo benedetti l'un l'altro, un
fratello benedice l'altro, un fratello si chiama Pietro e l'altro si
chiama Andrea, Marco, Tommaso...».
LA RENAULT QUATTRO DI DON ZOCCA REGALATA AL PAPA BERGOGLIO
L'unità dei cristiani è una priorità per lei?
«Sì,
per me l'ecumenismo è prioritario. Oggi esiste l'ecumenismo del sangue.
In alcuni paesi ammazzano i cristiani perché portano una croce o hanno
una Bibbia, e prima di ammazzarli non gli domandano se sono anglicani,
luterani, cattolici o ortodossi. Il sangue è mischiato. Per coloro che
uccidono, siamo cristiani. Uniti nel sangue, anche se tra noi non
riusciamo ancora a fare i passi necessari verso l'unità e forse non è
ancora arrivato il tempo. L'unità è una grazia, che si deve chiedere.
Conoscevo ad Amburgo un parroco che seguiva la causa di
beatificazione di un prete cattolico ghigliottinato dai nazisti perché
insegnava il catechismo ai bambini. Dopo di lui, nella fila dei
condannati, c'era un pastore luterano, ucciso per lo stesso motivo. Il
loro sangue si è mescolato. Quel parroco mi raccontava di essere andato
dal vescovo e di avergli detto: "Continuo a seguire la causa, ma di
tutti e due, non solo del cattolico". Questo è l'ecumenismo del sangue.
Esiste anche oggi, basta leggere i giornali. Quelli che ammazzano i
cristiani non ti chiedono la carta d'identità per sapere in quale Chiesa
tu sia stato battezzato. Dobbiamo prendere in considerazione questa
realtà».
Nell'esortazione lei ha invitato a scelte pastorali prudenti e audaci per quanto riguarda i sacramenti. A che cosa si riferiva?
«Quando
parlo di prudenza non penso a un atteggiamento paralizzante, ma a una
virtù di chi governa. La prudenza è una virtù di governo. Anche
l'audacia lo è. Si deve governare con audacia e con prudenza. Ho parlato
del battesimo, e della comunione come cibo spirituale per andare
avanti, da considerare un rimedio e non un premio. Alcuni hanno subito
pensato ai sacramenti per i divorziati risposati, ma io non sono sceso
in casi particolari: volevo solo indicare un principio. Dobbiamo cercare
di facilitare la fede delle persone più che controllarla. L'anno scorso
in Argentina avevo denunciato l'atteggiamento di alcuni preti che non
battezzavano i figli delle ragazze madri. È una mentalità ammalata».
E quanto ai divorziati risposati?
«L'esclusione
della comunione per i divorziati che vivono una seconda unione non è una
sanzione. È bene ricordarlo. Ma non ho parlato di questo
nell'esortazione».
Ne tratterà il prossimo Sinodo dei vescovi?
«La
sinodalità nella Chiesa è importante: del matrimonio nel suo complesso
parleremo nelle riunioni del concistoro in febbraio. Poi il tema sarà
affrontato al Sinodo straordinario dell'ottobre 2014 e ancora durante il
Sinodo ordinario dell'anno successivo. In queste sedi tante cose si
approfondiranno e si chiariranno».
Come procede il lavoro dei suoi otto «consiglieri» per la riforma della Curia?
«Il
lavoro è lungo. Chi voleva avanzare proposte o inviare idee lo ha
fatto. Il cardinale Bertello ha raccolto i pareri di tutti i dicasteri
vaticani. Abbiamo ricevuto suggerimenti dai vescovi di tutto il mondo.
Nell'ultima riunione gli otto cardinali hanno detto che siamo arrivati
al momento di avanzare proposte concrete, e nel prossimo incontro, in
febbraio, mi consegneranno i loro primi suggerimenti. Io sono sempre
presente agli incontri, eccetto la mattina del mercoledì per via
dell'udienza. Ma non parlo, ascolto soltanto, e questo mi fa bene. Un
cardinale anziano alcuni mesi fa mi ha detto: "La riforma della Curia
lei l'ha già cominciata con la messa quotidiana a Santa Marta". Questo
mi ha fatto pensare: la riforma inizia sempre con iniziative spirituali e
pastorali prima che con cambiamenti strutturali».
Qual è il giusto rapporto fra la Chiesa e la politica?
«Il
rapporto deve essere allo stesso tempo parallelo e convergente.
Parallelo, perché ognuno ha la sua strada e i suoi diversi compiti.
Convergente, soltanto nell'aiutare il popolo. Quando i rapporti
convergono prima, senza il popolo, o infischiandosene del popolo, inizia
quel connubio con il potere politico che finisce per imputridire la
Chiesa: gli affari, i compromessi... Bisogna procedere paralleli, ognuno
con il proprio metodo, i propri compiti, la propria vocazione.
Convergenti solo nel bene comune. La politica è nobile, è una delle
forme più alte di carità, come diceva Paolo VI. La sporchiamo quando la
usiamo per gli affari. Anche la relazione fra Chiesa e potere politico
può essere corrotta, se non converge soltanto nel bene comune».
Posso chiederle se avremo donne cardinale?
«È una
battuta uscita non so da dove. Le donne nella Chiesa devono essere
valorizzate, non "clericalizzate". Chi pensa alle donne cardinale soffre
un po' di clericalismo».
Come procede il lavoro di pulizia allo Ior?
«Le
commissioni referenti stanno lavorando bene. Moneyval ci ha dato un
report buono, siamo sulla strada giusta. Sul futuro dello Ior si vedrà.
Per esempio, la "banca centrale" del Vaticano sarebbe l'Apsa. Lo Ior è
stato istituito per aiutare le opere di religione, missioni, le Chiese
povere. Poi è diventato come è adesso».
Un anno fa poteva immaginare che il Natale 2013 lo avrebbe celebrato in San Pietro?
«Assolutamente no».
Si aspettava di essere eletto?
«Non me
l'aspettavo. Non ho perso la pace mentre crescevano i voti. Sono rimasto
tranquillo. E quella pace c'è ancora adesso, la considero un dono del
Signore. Finito l'ultimo scrutinio, mi hanno portato al centro della
Sistina e mi è stato chiesto se accettavo. Ho risposto di sì, ho detto
che mi sarei chiamato Francesco. Soltanto allora mi sono allontanato. Mi
hanno portato nella stanza adiacente per cambiarmi l'abito. Poi, poco
prima di affacciarmi, mi sono inginocchiato a pregare per qualche minuto
insieme ai cardinali Vallini e Hummes nella cappella Paolina».