Negli anni Settanta, ogni qual volta tra cattolici democratici si
discuteva di abbandonare la Democrazia cristiana, i caveat che
spuntavano fuori erano sempre gli stessi. Primo: attenti a non fare la
fine del Movimento cristiano dei lavoratori di Livio Labor, fallimentare
tentativo post-sessantottino di creare un secondo partito cattolico.
Secondo: attenti a non fare la fine degli «indipendenti di sinistra»,
cattolici eletti nel 1976 nelle liste del Pci a titolo personale ma
incapaci di influire sulla linea del partito, e tantomeno di favorirne
la modernizzazione. La «diaspora» dei cattolici – si sente ripetere più
volte nella Lega democratica – non serve a nessuno: né ai cattolici né
ai comunisti. (…)
Quella
tra pluralismo e diaspora è una distinzione sottile, non priva di
ambiguità. Ai suoi esordi, la Lega democratica aveva sostenuto la tesi
che i cattolici dovessero confrontarsi con le sinistre come «componente
omogenea» per evitare quello che Antonio Gramsci aveva definito il
«suicidio» del movimento cattolico-democratico. (…) Ma qual è il confine
tra un insieme di presenze a titolo individuale nei partiti della
sinistra e l’esistenza di una «componente omogenea»
cattolico-democratica? È un discorso che in questi termini può prestarsi
a una lettura correntizia: i cattolici democratici possono entrare a
far parte dei partiti della sinistra ma solo come corrente autonoma,
magari in lotta per la leadership (o l’egemonia culturale) del partito.
La «specificità» dei cristiani in politica, così interpretata, diventa
separatezza, segregazione rispetto al mondo. Invece di un partito
cattolico, una corrente cattolica.
E non è in questa direzione che punta la vicenda della Lega
democratica. Non ci si può relazionare col mondo come una «cittadella
assediata», scrive Paolo Giuntella. Bisogna puntare piuttosto ad essere
«sale della terra»: anche se minoritari, i cattolici democratici possono
rendere «fertile» il terreno che li circonda. Tradotto in termini
politici è un discorso che conduce lontano dal partito cattolico, o dai
partiti cattolici al plurale, ma anche da qualsiasi ipotesi correntizia.
(…)
La prospettiva della Lega non è mai quella del Partito d’Azione, uno
schieramento di intellettuali che parla solo alle élite. L’azione
politica dei cattolici democratici può esplicarsi solo nel contesto di
una grande forza «popolare». Ma un partito popolare non può limitarsi a
«rappresentare l’esistente»: se così fosse, un partito del genere
sarebbe condannato all’immobilismo. (…) Nel mondo degli anni Ottanta la
Lega guarda con paura a una politica che banalizza i problemi, che si
adegua ai tempi della televisione, che sempre più si limita ad
assecondare tutte le pulsioni che provengono dalla società, senza
filtro. Non iniziativa politica, ma populismo. Di certo, tra i
contributi della presenza cattolico-democratica al nuovo centrosinistra,
si può annoverare un fermo «no al populismo». La questione del consenso
elettorale però rimane sostanzialmente inevasa. (…)
Il tema della specificità dei cattolici nei partiti di sinistra si fa
più spinoso quando si entra nel campo dei famosi (o famigerati)
«principî non negoziabili». Per i cattolici della Lega la realizzazione
di una società pienamente cristiana è un compito che sfugge alle
possibilità umane. La secolarizzazione ha reso questo dato
particolarmente evidente: vista in questa luce anche la secolarizzazione
ha un valore positivo, di liberazione del cristiano dalla pretesa di
costruire nel presente un feticcio della Città di Dio. Le due Città sono
e rimangono distinte. (…)
Non è una scelta di disimpegno, ma l’impegno politico non sfocia
nella crociata. È chiaro però che questa indicazione non dice nulla
sulle scelte partitiche concrete dei cattolici democratici. Dopo
l’Assemblea nazionale della Dc del 1981, l’Assemblea degli esterni, gran
parte della Lega democratica decide di allontanarsi dai partiti,
guardando solo alla società civile. È una decisione che per certi
aspetti può ricordare la situazione che si è ripresentata alle elezioni
politiche del febbraio 2013, in cui alcuni cattolici – insoddisfatti
dell’attuale offerta partitica – hanno proposto di «saltare un giro», di
lasciar perdere gli schieramenti esistenti in attesa magari di una
nuova aggregazione di cattolici in politica.
Ma è proprio qui la differenza sostanziale tra la proposta politica
cattolico-democratica e le ipotesi di nuovi partiti cattolici che
affollano questi scampoli di Seconda Repubblica. Sia che si scelga la
militanza in un partito, sia che si preferisca agire nella società
civile, resta fermo il rifiuto del partito confessionale, che porta con
sé l’inevitabile tentazione di schierare la Chiesa da una parte o
dall’altra dello scacchiere politico. Per la Chiesa – scrive Pietro
Scoppola – «un annuncio di salvezza è altra cosa da una opinabile scelta
di schieramenti». Se i cattolici scelgono lo scontro col mondo, il
rischio maggiore che corrono non è la sconfitta, ma perdere di vista
proprio l’«annuncio della salvezza», cioè il cuore stesso della loro
fede.
fonte: Europa, Lorenzo Biondi 20 novembre 2013
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