Al liceo lo chiamavano il Bomba, perché le sparava grosse. Così almeno raccontò un suo ex compagno in una perfida telefonata a un’emittente fiorentina, Lady Radio. Avevano sorriso anche i professori, leggendo il suo articolo su «Il divino», mensile del liceo ginnasio Dante di Firenze: «Forlani ha commesso molti errori, anche nella formazione delle liste, e dovrà passare la mano, com’è giusto che sia per un segretario che perde il 5%. La Dc deve veramente cambiare, in modo netto e deciso, mandando a casa i Forlani, i Gava, i Prandini e chi si oppone al rinnovamento...». Era il 1992. Matteo Renzi aveva 17 anni.
È laureato in giurisprudenza (con 109; mancò il 110 perché discutendo la tesi litigò con il relatore), ma non ha un curriculum di eccellenza. Parlotta l’inglese con l’accento toscano, ma non ha fatto master all’estero. Matteo Renzi non è frutto delle élites. È un politico puro. Con i suoi limiti, e con due punti di forza: il fiuto e l’energia. Il fiuto gli ha suggerito che l’unico modo per emergere a sinistra era andare contro la vecchia guardia, cavalcando l’insofferenza della base per leader che non vincevano mai. Poi ha usato contro l’intera classe politica lo stesso linguaggio e gli stessi argomenti della gente comune. Infine ha alzato il tiro contro l’establishment, dalle banche ai sindacati. Si è insomma costruito contro il Palazzo. Per questo l’opinione pubblica è perplessa, ora che lui nel Palazzo entra senza passare dal voto popolare. Ma la sua energia può imprimere uno scossone a un Paese sprofondato in una crisi di fiducia.
Il più giovane presidente del Consiglio è nato l’11 gennaio 1975 a Rignano sull’Arno, 9 mila abitanti, 23 chilometri da piazza della Signoria. Il padre Tiziano - piccolo imprenditore che diventerà consigliere comunale per la Dc - e la madre Laura Bovoli vivono in un palazzone di via Vittorio Veneto, con la primogenita Benedetta di tre anni (nel 1983 arriverà Samuele e nel 1984 Matilde, l’unica impegnata nei comitati elettorali del fratello). Dopo un mese di prima elementare, la maestra, signora Persello, lo promuove: il bambino è sveglio, può passare in seconda. Serve messa a don Giovanni Sassolini, parroco di Santa Maria Immacolata. Gioca stopper nella Rignanese, ma riesce meglio come arbitro e come radiocronista. (Ancora l’anno scorso, in una partita di beneficenza, ha preteso di tirare un rigore: parato, per giunta dal sottosegretario Toccafondi, alfaniano). Si fa eleggere rappresentante di classe. Entra negli scout. Guida un gruppo in una gita in Garfagnana: si perdono in un bosco, passano la notte all’addiaccio. I compagni lo chiamano «Mat-teoria», perché parla parla ma poi a lavorare sono sempre gli altri. Il capo scout Roberto Cociancich scrive: «Matteo ha doti di leader. Lo vedremo crescere». Oggi Cociancich è senatore pd, inserito nel listino in quota Renzi.
Nel 1994, mentre l’Italia antiberlusconiana inorridisce nel vedere il padrone delle tv private entrare a Palazzo Chigi, Renzi va nelle tv private di Berlusconi: in cinque puntate della «Ruota della fortuna» con Mike Bongiorno vince 48 milioni. L’anno dopo, a vent’anni, fonda a Rignano un circolo in sostegno di Prodi. Nel 1999 si laurea con una tesi su «La Pira sindaco di Firenze» e sposa Agnese Landini, conosciuta agli esercizi spirituali nell’Agesci.
Organizza la rete di strilloni per conto dell’azienda del padre, per distribuire La Nazione in strada. Con i soldi che ha guadagnato parte assieme agli amici scout per il Cammino di Santiago: una settimana di pellegrinaggio a piedi. Al ritorno i capi gli propongono di candidarsi alla guida del partito popolare di Firenze, che ha appena toccato il minimo storico: 2 per cento. Renzi accetta e vince il congresso. Segretario nazionale è Franco Marini.
Palazzo Vecchio è in mano ai postcomunisti. Ai cattolici, cioè a lui, tocca la Provincia. La trasforma «da cimitero degli elefanti a fucina della propria carriera», come scrive il suo biografo David Allegranti. Si inventa la kermesse culturale «Il Genio fiorentino», la società di comunicazione Florence Multimedia, e Florence Tv, un canale che ne illustra le gesta. Il primo a invitarlo in una tv vera è Corrado Formigli su Sky. Gli spettatori scoprono un ragazzo che non parla come un politico ma come uno di loro. Fa gaffe e le racconta, confonde Churchill con De Gaulle e ne ride. Nel 2006 passa in città Berlusconi. Ai suoi uomini confida: «Quel Matteo è bravo, ma sbaglia a vestirsi di marrone: fa tanto sinistra perdente».
Scrive Claudio Bozza del Corriere Fiorentino che qualcuno lo riferisce all’interessato. Il marrone è abolito. Da allora, Renzi evita anche di vestirsi come un politico. Preferisce i jeans Roy Rogers Anni 80 e il giubbotto di pelle da Fonzie («ma la pelletteria è un settore trainante dell’export italiano!»), oppure le camicie bianche senza cravatta con le giacche blu elettrico di Scervino. Taglia il ciuffo. Dimagrisce mangiando banane e iniziando a correre. Martella i colleghi. Corteggia la categoria che lo attrae di più: gli imprenditori. Una città abituata a perpetrare le sue gerarchie si riconosce nel giovanotto venuto dal contado.
Nel 2009 Renzi si candida alle primarie per Palazzo Vecchio. Il partito ha prescelto Lapo Pistelli, di cui è stato assistente parlamentare. Lo batte con il 40,5% contro il 26,9. Dirà un anno e mezzo dopo: «Non ho vinto io perché ero un ganzo, è che gli altri erano fave». Supera al ballottaggio il portiere Giovanni Galli ed è sindaco. Come primo provvedimento, elimina le auto blu: tutti a piedi. Lui gira in bicicletta (prova anche l’auto elettrica: tampona la macchina davanti. Poi impara). Comunica che la tranvia in centro, di cui si discute da anni, non si farà, anzi: piazza Duomo diventerà pedonale. Addio comunicati stampa: le notizie le dà direttamente lui, su Facebook e poi su Twitter. Nomina dieci assessori, cinque uomini e cinque donne, tra cui Rosa Maria Di Giorgi, che gli chiede: «Ma in giunta si vota?». Lui risponde: «Certo. Però il mio voto vale undici». Oggi non ne è rimasto neanche uno. Il sindaco li ha sempre scavalcati, parlando direttamente con i funzionari. Quando intuisce che qualcuno passa informazioni riservate ai giornalisti, per scovarlo racconta con tono da cospiratore a tre assessori tre piani diversi per il traffico: individua così il colpevole.
Il presidente di Confindustria Firenze, Giovanni Gentile, critica la sua proposta di introdurre la tassa di soggiorno, lui replica: «Gentile conta come il presidente di un club del burraco». In una vecchia stazione ferroviaria, la Leopolda, riunisce i giovani del partito, affida il format a Giorgio Gori e la regia a Fausto Brizzi. Dice che la classe dirigente del Paese va «rottamata», come le automobili. La settimana dopo, va a pranzo da Berlusconi ad Arcore. «Per Firenze questo e altro» si giustifica. In realtà, Renzi non è antiberlusconiano; semmai postberlusconiano. Frase-chiave: «Io lo voglio mandare in pensione, non in galera».
Nell’estate 2012 sfida Bersani per la candidatura a Palazzo Chigi. Ma il vero obiettivo polemico è D’Alema. D’Alema consiglia a Bersani di evitare lo scontro, il segretario fa cambiare lo statuto per indire le primarie: «Renzi non vince». Il giro d’Italia di Renzi in camper è trionfale. Lo slogan: «Adesso!». La nomenklatura del Pd lo avversa come un usurpatore. Bersani è costretto al ballottaggio, ma prevale, anche a causa del regolamento che restringe la partecipazione. Renzi respinge l’idea di una lista con il suo nome, quotata nei sondaggi al 15%. L’appoggio alla campagna del partito è blando; ma neppure lui immagina la débâcle. Quando Bersani tenta di aprire ai Cinque Stelle, Renzi lo gela: «Si è fatto umiliare». Bersani rinuncia a formare il governo.
Si vota per il Quirinale. Marini gli telefona per chiedere appoggio. Renzi sbotta con i presenti: «Ma vi rendete conto? Mi ha chiamato per dirmi di aiutarlo a diventare presidente della Repubblica, perché lui è cattolico. Che vuol dire? Anche io sono cattolico, ma per me è un valore prezioso e privato». I renziani votano Chiamparino, poi Prodi, infine Napolitano. Lui si illude per un giorno che il presidente rieletto possa affidargli l’incarico, che tocca a Letta. È allora che decide di candidarsi alla segreteria del Pd. Per la nomenklatura l’usurpatore è diventato un male necessario. L’obiettivo minimo è evitare che Letta e Alfano si accordino per una legge elettorale proporzionale che renda eterne le larghe intese. L’obiettivo massimo è Palazzo Chigi. Frase-chiave: «La vecchia sinistra ha sempre voluto cambiare gli italiani. Io voglio cambiare l’Italia».
Corriere della Sera, 6 febbraio 2014
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