Sergio Rizzo per il "Corriere della Sera - CorrierEconomia"
Sale
sulle ferite, le parole con cui Salvatore Nottola ha commentato
pubblicamente giovedi 26 giugno il dilagare delle società pubbliche. Non
solo al centro, dove il magma ribollente assume ormai dimensioni
incontenibili. Il loro numero, intanto. Nessuno sa esattamente quante
siano, considerando che «esse», spiega il procuratore generale della
Corte dei conti, «sono soggette a frequenti modifiche dell’assetto
societario».
L’ultima rilevazione della stessa
Corte ha censito 50 società partecipate dallo Stato: ma va tenuto conto
che queste «a loro volta partecipano ad altre 526 società». Per un
totale di 576 partecipazioni dirette e indirette. Poi ci sono quelle
degli enti locali, e qui il numero sale vertiginosamente. Siamo infatti a
quota 5.258. Alle quali, precisa ancora Nottola «vanno aggiunti 2.214
organismo di varia natura» come «consorzi, fondazioni...» Per una cifra
complessiva che tocca quota 8.048.
I confini
finanziari di tale universo sono sterminati. «Il movimento finanziario
delle società partecipate dallo Stato, costituito dai pagamenti a
qualsiasi titolo erogati dai ministeri nei loro confronti ammonta a
30,55 miliardi nel 2011, 26,11 miliardi nel 2012 e 25,93 nel 2013».
Totale in tre anni, 82,6 miliardi, come il costo annuale degli interessi
sul nostro enorme debito pubblico. Ancora.
«Il
peso delle società strumentali sul bilancio dei ministeri», rimarca
Nottola, «è stato di 785,9 milioni nel 2011, 844,61 milioni nel 2012 e
579,41 milioni nel 2013». Totale in tre anni, 2 miliardi 205 milioni:
come la metà dell’Imu sulla prima casa. «Quanto agli enti partecipati
dagli enti locali», sottolinea il procuratore della Corte dei conti, «un
terzo è in perdita». E non è molto difficile comprendere il perché.
La
ragione del proliferare di queste società tanto a livello centrale
quanto locale ha ufficialmente a che fare con l’«esigenza di snellezza
dell’azione amministrativa». Traduzione: siccome la burocrazia è lenta e
inefficiente, allora ci si traveste da soggetti privati.
Peccato
soltanto che questo abbia una serie di conseguenze piuttosto singolari.
La prima è quella che portano con sé le società cosiddette in house,
quelle controllate dal soggetto pubblico e costituite per erogare
servizi in esclusiva a favore dell’azionista: l’effetto evidente,
argomenta Nottola, è che la loro attività viene sottratta completamente
alla concorrenza.
Ma è niente al confronto di
altri indigeribili riflessi. Come certe «scelte indotte da logiche
assistenzialistiche o dall’intento di eludere i vincoli di finanza
pubblica, specialmente riferiti all’attività contrattuale e alle
assunzioni di personale». È sempre il procuratore generale della Corte
che parla: «Tali enti spesso ricorrono, e la forma privatistica glielo
consente, a reperire risorse lavorative all’esterno della struttura
pubblica ricorrendo ad assunzioni e al conferimento di incarichi di
prestazioni professionali e di consulenza esterna».
Il
travestimento da privati consente di aggirare in questo modo, per
esempio, il blocco delle assunzioni stabilito per la pubblica
amministrazione, per giunta evitando i concorsi. Le cronache degli
ultimi anni, del resto, sono piene di scandali piccoli e grandi che si
inseriscono in questo capitolo. Basta ricordare la famosa vicenda della
«parentopoli» al Comune di Roma.
Di fronte a tutto
ciò, dice chiaramente Nottola, le armi a disposizione sono alquanto
spuntate. «La carenza dei controlli favorisce episodi di cattiva
gestione, non di rado di illeciti anche penali, i cui effetti dannosi si
riflettono sul bilancio degli enti conferenti». In ultima istanza,
quindi, sulle tasche dei contribuenti. Non vi chiedete perché finora
nessuno abbia voluto mettere mano a una riforma radicale di questo
sistema, imponendo regole chiare e controlli ineludibili. La risposta,
ahimè, sarebbe scontata.
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