Quanto sia costata l’imponente esibizione
di povertà di cui papa Francesco è stato protagonista il 4 ottobre ad
Assisi non è dato sapere. Certo che, in tempi in cui va così di moda la
semplificazione, viene da dire che la storica giornata abbia avuto ben
poco di francescano. Una partitura ben scritta e ben interpretata, se si
vuole, ma priva del quid che ha reso unico lo spirito di Francesco, il
santo: la sorpresa che spiazza il mondo. Francesco, il papa, che
abbraccia i malati, che si stringe alla folla, che fa la battuta, che
parla a braccio, che sale sulla Panda, che molla i cardinali a pranzo
con le autorità per andare al desco dei poveri era quanto di più
scontato ci si potesse attendere, ed è puntualmente avvenuto.
Naturalmente con gran concorso di stampa cattolica e paracattolica a
esaltare l’umiltà del gesto tirando un sospirone di sollievo perché,
questa volta, il papa ha parlato dell’incontro con Cristo. E di quella
laica a dire che, adesso sì, la Chiesa si mette al passo con i tempi.
Tutta roba buona per il titolista di medio calibro che vuole chiudere in
fretta il giornale e domani si vedrà.
Non c’è stata neanche la sorpresa del
gesto clamoroso. Ma, anche questa, sarebbe stata ben povera cosa, visto
quanto papa Bergoglio ha detto e fatto in solo mezzo anno di pontificato
culminato negli ammiccamenti con Eugenio Scalfari e nell’intervista a
“Civiltà Cattolica”.
Gli unici a trovarsi spiazzati, in
questo caso, sarebbero stati i "normalisti", quei cattolici intenti
pateticamente a convincere il prossimo, e ancor più pateticamente a
convincere se stessi, che nulla è cambiato. E’ tutto normale e, come al
solito, è colpa dei giornali che travisano a bella posta il papa, il
quale direbbe solo in modo diverso le stesse verità insegnate dai
predecessori.
Per quanto il giornalismo sia il mestiere più antico del mondo, riesce difficile dare credito a questa tesi. “Santità” chiede per esempio Scalfari nella sua intervista “esiste una visione del Bene unica? E chi la stabilisce?”.
“Ciascuno di noi” risponde il papa “ha una sua visione del Bene e anche
del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa
sia il Bene”. “Lei, Santità” incalza gesuiticamente Eugenio, al
quale non pare vero, “l’aveva già scritto nella lettera che mi
indirizzò. La coscienza è autonoma, aveva detto, e ciascuno deve
obbedire alla propria coscienza. Penso che quello sia uno dei passaggi
più coraggiosi detti da un Papa”. “E qui lo ripeto” ribadisce
il papa, al quale non pare vero neanche a lui. “Ciascuno ha una sua idea
del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il
Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il
mondo”.
A Vaticano II già concluso e a
postconcilio più che ben avviato, nel capitolo 32 della “Veritatis
splendor”, Giovanni Paolo II scriveva, contestando “alcune correnti del
pensiero moderno”, che “si sono attribuite alla coscienza individuale le
prerogative di un'istanza suprema del giudizio morale, che decide
categoricamente e infallibilmente del bene e del male (…) tanto che si è
giunti ad una concezione radicalmente soggettivista del giudizio
morale”. Anche il “normalista” più estroso dovrebbe trovare difficile
conciliare il Bergoglio 2013 con il Woityla 1993.
Al cospetto di tale inversione di
rotta, i giornali fanno il loro onesto e scontato lavoro. Riprendono le
frasi di papa Francesco in evidente contrasto con ciò che i papi e la
Chiesa hanno sempre insegnato e le trasformano in titoli da prima
pagina. E allora il “normalista”, che dice sempre e ovunque quello che
pensa l’”Osservatore Romano”, tira in ballo il contesto.
Le frasi estrapolate dal benedetto
contesto non rispecchierebbero la mens di chi le ha pronunciate. Ma, ed è
la storia della Chiesa che lo insegna, certe frasi di senso compiuto
hanno senso e vanno giudicate a prescindere. Se in una lunga intervista
qualcuno sostiene che “Hitler è stato un benefattore dell’umanità”,
difficilmente potrà cavarsela davanti al mondo invocando il contesto. Se
un papa dice in un’intervista “Io credo in Dio, non in un Dio
cattolico” la frittata è fatta a prescindere. Sono duemila anni che la
Chiesa giudica le affermazioni dottrinali isolandole dal contesto. Nel
1713, Clemente XI pubblica la costituzione “Unigenitus Dei Filius” in
cui condanna 101 proposizioni del teologo Pasquier Quesnel. Nel 1864,
Pio IX pubblica nel “Sillabo” un elenco di proposizioni erronee. Nel
1907, San Pio X allega alla “Pascendi dominici gregis” 65 frasi
incompatibili con il cattolicesimo. E sono solo alcuni esempi per dire
che l’errore, quando c’è, si riconosce a occhio nudo. Una ripassatina al
“Denzinger” non farebbe male.
Per altro, nel caso delle interviste di
Bergoglio, l’analisi del contesto può persino peggiorare le cose.
Quando, per esempio, papa Francesco dice a Scalfari che “il proselitismo
è una solenne sciocchezza”, il “normalista” subito spiega che si sta
parlando del proselitismo aggressivo delle sette sudamericane.
Purtroppo, nell’intervista, Bergoglio dice a Scalfari: “Non voglio
convertirla”. Ne scende che, nell’interpretazione autentica, quando si
definisce “solenne sciocchezza” il proselitismo, si intende il lavoro
fatto dalla Chiesa convertire le anime al cattolicesimo.
Sarebbe difficile interpretare il
concetto altrimenti, alla luce delle nozze tra Vangelo e mondo, che
Francesco ha benedetto nell’intervista alla “Civiltà Cattolica”. “Il
Vaticano II” spiega il papa “è stato una rilettura del Vangelo alla luce
della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento
che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi.
Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato
un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una
situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di
continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica
di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del
Concilio è assolutamente irreversibile”. Proprio così, non più il mondo
messo in forma alla luce del Vangelo, ma il Vangelo deformato alla luce
del mondo, della cultura contemporanea. E chissà quante volte dovrà
avvenire, a ogni torno di mutamento culturale, ogni volta mettendo in
mora la rilettura precedente: nient’altro che il concilio permanente
teorizzato dal gesuita Carlo Maria Martini.
Su questa scia, si sta alzando
sull’orizzonte l’idea di una nuova Chiesa, “l’ospedale da campo” evocato
nell’intervista a “Civiltà Cattolica” dove pare che i medici fino a ora
non abbiano fatto bene il loro mestiere. “Penso anche alla situazione
di una donna che ha avuto alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha
pure abortito” dice sempre il papa. “Poi questa donna si è risposata e
adesso è serena con cinque figli. L’aborto le pesa enormemente ed è
sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Che
cosa fa il confessore?”. Un discorso costruito sapientemente per essere
concluso da una domanda dopo la quale si va capo e si cambia argomento,
quasi a sottolineare l’inabilità della Chiesa di rispondere. Un
passaggio sconcertante se si pensa che la Chiesa soddisfa da duemila
anni tale quesito con una regola che permette l’assoluzione del
peccatore, a patto che sia pentito e si impegni a non rimanere nel
peccato. Eppure, soggiogate dalla straripante personalità di papa
Bergoglio, legioni di cattolici si sono bevute la favola di un problema
che in realtà non è mai esistito. Tutti lì, con il senso di colpa per
duemila anni di presunte soperchierie ai danni dei poveri peccatori, a
ringraziare il vescovo venuto dalla fine del mondo, non per aver risolto
un problema che non c’era, ma per averlo inventato.
L’aspetto inquietante del pensiero
sotteso a tali affermazioni è l’idea di un’alternativa insanabile fra
rigore dottrinale e misericordia: se c’è uno, non può esservi l’altra.
Ma la Chiesa, da sempre, insegna e vive esattamente il contrario. Sono
la percezione del peccato e il pentimento di averlo commesso, insieme al
proposito di evitarlo in futuro, che rendono possibile il perdono di
Dio. Gesù salva l’adultera dalla lapidazione, la assolve, ma la congeda
dicendo: “Va, e non peccare più”. Non le dice: “Va, e sta tranquilla che
la mia Chiesa non eserciterà alcuna ingerenza spirituale nella tua vita
personale”.
Visto il consenso praticamente unanime
nel popolo cattolico e l’innamoramento del mondo, contro il quale però
il Vangelo dovrebbe mettere in sospetto, verrebbe da dire che sei mesi
di papa Francesco hanno cambiato un’epoca. In realtà, si assiste al
fenomeno di un leader che dice alla folla proprio quello che la folla
vuole sentirsi dire. Ma è innegabile questo viene fatto con grande
talento e grande mestiere. La comunicazione con il popolo, che è
diventato popolo di Dio dove di fatto non c’è più distinzione tra
credenti e non credenti, è solo in piccolissima parte diretta e
spontanea. Persino i bagni di folla in piazza San Pietro, alla Giornata
Mondiale della Gioventù, a Lampedusa o ad Assisi sono filtrati dai mezzi
di comunicazione che si incaricano di fornire gli avvenimenti
unitamente alla loro interpretazione.
Il fenomeno Francesco non si sottrae
alla regola fondamentale del gioco mediatico, ma, anzi, se ne serve
quasi a diventarne connaturale. Il meccanismo fu definito con grande
efficacia all’inizio degli anni ottanta da Mario Alighiero Manacorda in
un godibile libretto dal godibilissimo titolo “Il linguaggio televisivo.
O la folle anadiplosi”. L’anadiplosi è una figura retorica che, come
avviene in questa riga, fa iniziare una frase con il termine principale
contenuto nella frase precedente. Tale artificio retorico, secondo
Manacorda, è divenuto l’essenza del linguaggio mediatico. “Questi modi
puramente formali, superflui, inutili e incomprensibili quanto alla
sostanza” diceva “inducono l’ascoltatore a seguire la parte formale,
cioè la figura retorica, e a dimenticare la parte sostanziale”.
Con il tempo, la comunicazione di massa
ha finito per sostituire definitivamente l’aspetto formale a quello
sostanziale, l’apparenza alla verità. E lo ha fatto, in particolare,
grazie alle figure retoriche della sineddoche e della metonimia, con le
quali si rappresenta una parte per il tutto. La velocità sempre più
vertiginosa dell’informazione impone di trascurare l’insieme e porta a
concentrarsi su alcuni particolari scelti con perizia per dare una
lettura del fenomeno complessivo. Sempre più spesso, giornali, tv, siti
internet, riassumono i grandi eventi in un dettaglio.
Da questo punto di vista, sembra che
papa Francesco sia stato fatto per i massmedia e che i massmedia siano
stati fatti per papa Francesco. Basta citare il solo esempio dell’uomo
vestito di bianco che scende la scaletta dell’aereo portando una
sdrucita borsa di cuoio nera: perfetto uso di sineddoche e metonimia
insieme. La figura del papa viene assorbita da quella borsa nera che ne
annulla l’immagine sacrale tramandata nei secoli per restituirne una
completamente nuova e mondana: il papa, il nuovo papa, è tutto in quel
particolare che ne esalta la povertà, l’umiltà, la dedizione, il lavoro,
la contemporaneità, la quotidianità, la prossimità a quanto di più
terreno si possa immaginare.
L’effetto finale di tale processo porta
alla collocazione sullo sfondo del concetto impersonale di papato e la
contemporanea salita alla ribalta della persona che lo incarna.
L’effetto è tanto più dirompente se si osserva che i destinatari del
messaggio recepiscono il significato esattamente opposto: osannano la
grande umiltà dell’uomo e pensano che questi porti lustro al papato.
Per effetto di sineddoche e metonimia,
il passo successivo consiste nell’identificare la persona del papa con
il papato: una parte per il tutto, e Simone ha spodestato Pietro. Questo
fenomeno fa sì che Bergoglio, pur esprimendosi formalmente come dottore
privato, trasformi di fatto qualsiasi suo gesto e qualsiasi sua parola
in un atto di magistero. Se poi si pensa che persino la maggior parte
dei cattolici è convinta che quanto dice il papa sia solo e sempre
infallibile, il gioco è fatto. Per quanto si possa protestare che una
lettera a Scalfari o un’intervista a chicchessia siano persino meno di
un parere da dottore privato, nell’epoca massmediatica, l’effetto che
produrranno sarà incommensurabilmente maggiore a qualsiasi
pronunciamento solenne.
Anzi, più il gesto o il discorso
saranno formalmente piccoli e insignificanti, tanto più avranno effetto e
saranno considerati come inattaccabili e incriticabili.
Non a caso la simbologia che sorregge
questo fenomeno è fatta di povere cose quotidiane. La borsa nera portata
in mano sull’aereo è un esempio di scuola. Ma anche quando si parla
della croce pettorale, dell’anello, dell’altare, delle suppellettili
sacre o dei paramenti, si parla del materiale con cui sono fatte e non
più di ciò che rappresentano: la materia informe ha avuto il sopravvento
sulla forma. Di fatto, Gesù non si trova più sulla croce che il papa
porta al collo perché la gente viene indotta a contemplare il ferro in
cui l’oggetto è stato prodotto. Ancora una volta la parte si mangia il
Tutto, che qui va scritto con la “T” maiuscola. E la “carne di Cristo”
viene cercata altrove e ciascuno finisce per individuare dove vuole
l’olocausto che più gli si confà. In questi giorni a Lampedusa, domani
chissà.
E’ l’esito della saggezza del mondo,
che San Paolo bandiva come stoltezza e che oggi viene usata per
rileggere il Vangelo con gli occhi della tv. Ma già nel 1969, Marshall
McLuhan scriveva a Jacques Maritain: “Gli ambienti dell’informazione
elettronica, che sono stati completamente eterei, nutrono l’illusione
del mondo come sostanza spirituale. Questo è un ragionevole facsimile
del Corpo Mistico, un’assordante manifestazione dell’anticristo. Dopo
tutto, il principe di questo mondo è un grandissimo ingegnere
elettronico”.
Prima o poi ci si dovrà pur risvegliare
dal grande sonno massmediatico e tornare a misurarsi con la realtà. E
bisognerà anche imparare l’umiltà vera, che consiste nel sottomettersi a
Qualcuno di più grande, che si manifesta attraverso leggi immutabili
persino dal Vicario di Cristo. E bisognerà ritrovare il coraggio di dire
che un cattolico può solo sentirsi smarrito davanti a un dialogo in cui
ognuno, in omaggio alla pretesa autonomia della coscienza, venga
incitato a proseguire verso una sua personale visione del bene e del
male. Perché Cristo non può essere un’opzione tra le tante. Almeno per il suo Vicario.
Gnocchi&Palmaro
Il Foglio, 9 ottobre 2013
Nessun commento:
Posta un commento