Un condannato a morte sale i gradini che lo porteranno alla decapitazione, inciampa e un ufficiale lo sorregge. L’uomo
sorride e sussurra: “Grazie, poi a scendere ci penserò da solo”. Anche
sulla soglia della morte, proprio come quando prendeva in giro la moglie
– “Certo, signora, vi farebbe gran torto il Signore Iddio se non vi
mandasse all’inferno, dal momento che ve lo guadagnate con tanta fatica”
– e i figli che studiavano – “mi assicurano che sapete perfino
distinguere il sole dalla luna” – Sir Tommaso Moro, umanista, scrittore,
giurista e politico inglese del 1500 proclamato nel 2000 patrono dei
governanti e dei politici, non smise di far sorridere e, per questo, di
pensare. Proprio alla sua figura è dedicata una mostra esposta a Montecitorio, su iniziativa di Maurizio Lupi, e inaugurata ieri con il premier Mario Monti.
Tommaso Moro è però un patrono paradossalmente scomodo,
visto che la sua azione principale – quella ricordata da tutti – fu
quella di dimettersi. In lui si trovava una bizzarra commistione di
magnanimità personale e culturale, fermezza e al contempo divertito
umorismo (caratteristiche di cui oggi si avverte decisamente la
mancanza). Di lui colpiscono certamente la sua incorruttibilità – “se un
tuo amico avesse in corso una causa davanti a me, potrei certo dare
udienza prima a lui che non a un altro. Ma in ogni caso puoi star sicuro
che se le parti avranno rimesso la causa nelle mie mani, allora, anche
se uno dei contendenti fosse mio padre e l’altro il diavolo, e il
diavolo avesse ragione, ti assicuro che sarebbe il diavolo a vincere la
causa” – e la celerità con cui snellì la burocrazia processuale
dell’epoca; così come la sua clamorosa iniziativa presso il re, a cui
chiese formalmente, in difesa della libertà di parola, “di dare a tutti
coloro che fanno parte di questa assemblea la Sua generosa licenza e
benevola assicurazione di poter liberamente parlare, senza temere di
incorrere nel Vostro temutissimo sdegno, e francamente esporre il
proprio pensiero su tutto ciò che concerne quello per cui siamo qui
riuniti”. Fu giudice capace di distinguere eccome, soprattutto con i
poveri – “quando si ha a che fare non con gente arrogante e maliziosa,
ma con persone ignoranti o semplici e sprovvedute, io desidero che si
usi grande misericordia e poco rigore”.
Aveva sostenuto che “non si deve abbandonare la nave in piena tempesta,
solo perché non potete comandare ai venti… se non potete far andare
bene tutte le cose, dovete almeno aiutare, perché vadano il meno male
possibile”, ma a un certo punto capì di non poter fare più niente, e
chiese solo di essere lasciato nel suo silenzio, che pure ai suoi nemici
si fece clamore insopportabile come le domande di Socrate; ed egli al
pari di Socrate fu arrestato. Gli uomini di Enrico VIII, dopo le sue
dimissioni in risposta allo scisma anglicano, cercarono di inchiodarlo
con l’accusa di aver tradito, ma egli ribatté loro che a quel re col
quale si era spesso trovato non per discutere affari di stato, ma per
conversare e ammirare le stelle, egli non augurava che bene, ma che non
poteva accompagnarlo in una menzogna.
Ecco il suo segreto: Moro, che considerava
l’amicizia “un ottavo sacramento”, è stato sempre e anzitutto un amico:
del mondo, della cultura antica e recente, per cui “non si finirebbe più
di spiegare quante cose mancano a chi non conosce i greci”; un
apologeta cattolico che pure preferiva “discutere servendomi della
ragione piuttosto che dell’autorità”; del re, consapevole che “se la mia
testa potesse procurargli un castello in Francia, essa non tarderebbe a
cadere”, e dello stato, di cui assunse la massima carica di Lord
cancelliere scherzando con Erasmo da Rotterdam: “Mi fanno tutti le
congratulazioni, sono sicuro che almeno tu mi compiangerai”.
Il segreto di tale costante capacità è a sua volta
paradossalmente possibile non nonostante la fermezza delle sue
convinzioni, ma in virtù di esse, della sua amicizia con Dio, che lo
faceva respirare la vastità di una grandezza che non dipendeva da lui:
come notò lo scrittore e suo ammiratore Gilbert K. Chesterton, “tanto
egli era strenuo patrono di libertà spirituale, altrettanto era convinto
che dovesse esserci qualcuno, o qualcosa, a disciplinarla, e non gli
passava per la testa di poter essere lui questo qualcuno”. Questo lo
rendeva e lo rende scomodo, sorridentemente e salutarmente scomodo per
chi lo legge o a lui intende richiamarsi, visto che, sempre nelle parole
di Chesterton “è facile, a volte, donare il proprio sangue alla patria e
ancora più facile donarle del denaro. Talvolta è più difficile donarle
la verità”.
Il foglio: Edoardo Rialti | 24 Ottobre 2012
Il foglio: Edoardo Rialti | 24 Ottobre 2012
Nessun commento:
Posta un commento