Conferenza Episcopale Italiana
CONSIGLIO PERMANENTE
Ancona, 24 - 27 gennaio 2011
PROLUSIONE
DEL CARDINALE PRESIDENTE
Venerati e cari Confratelli,
ci ritroviamo insieme, all’inizio del nuovo anno 2011, per la sessione invernale del nostro Consiglio Permanente, mentre nubi ancora una volta preoccupanti si addensano sul nostro Paese. Già la convocazione nella sede di una delle nostre Diocesi dice i propositi che ci muovono, l’attendere cioè all’attività della Conferenza, compresi gli appuntamenti che interessano comunitariamente le Chiese particolari che sono in Italia. Salutiamo, quindi, con grande cordialità l’Arcivescovo di Ancona-Osimo, Sua Eccellenza Monsignor Edoardo Menichelli, e lo ringraziamo per l’ospitalità che unitamente alla sua comunità diocesana ci offre, assicurandolo fin d’ora della nostra corale partecipazione al Congresso Eucaristico Nazionale che qui avrà luogo dal 3 all’11 settembre 2011. Sappiamo che da tempo, e d’intesa con il Comitato per i Congressi Eucaristici Nazionali, è in atto un’accurata preparazione all’evento che – non fatichiamo ad immaginarlo – si rivelerà non solo impegnativo, ma anche prezioso e corroborante per la vita di questa Diocesi, nonché di tutte le Diocesi marchigiane.
Al Santo Padre Benedetto XVI vogliamo subito esprimere il nostro filiale pensiero e la cordiale gratitudine per l’imminente beatificazione del Servo di Dio Giovanni Paolo II: l’annuncio di questo evento ha colmato di gioia non solo l’animo dei credenti, ma il mondo intero che con ammirazione e riconoscenza custodisce il ricordo di questo straordinario pastore del nostro tempo. Contemporaneamente, autorizzando la pubblicazione di altri nove decreti, il Papa ha aperto la strada della beatificazione per il professor Giuseppe Toniolo, fondatore delle Settimane Sociali, laico caro all’Azione Cattolica Italiana e all’Università Cattolica del Sacro Cuore, e per suor Antonia Maria Verna, fondatrice delle Suore della Carità dell’Immacolata Concezione di Ivrea. Ci rallegriamo per la compagnia di questi nuovi modelli che la Chiesa ci propone sulla strada della santità.
1. Conserviamo come preziosa in noi l’eco delle celebrazioni natalizie, con il loro corredo di tradizioni e di clima intensamente familiare, in coincidenza delle quali s’è potuto ancora una volta constatare il fascino benefico che la tradizione cristiana continua a far sentire ovunque nel nostro Paese. E ciò sembra muoversi in un quadro interpretativo nel quale una de-cristianizzazione progressiva apparirebbe ad alcuni ineluttabile. In realtà, sugli esiti possono influire una serie non interamente ponderabile di cause, che determinano situazioni in continua evoluzione. La fede religiosa può far fronte alle intemperie, e ciascuno di noi è testimone di esperienze positive, capaci di rinvigorire e proporre una concezione della vita tipicamente cristiana. C’è, d’altra parte, un legame personale con lo spazio e il tempo che solo la religione riesce ad assicurare. Conosciamo il fascino che esercita il mistero di un Dio mai stanco degli uomini, che si fa loro incontro nella forma
scandalosamente più dimessa, fino a permettere alla nostra presuntuosa libertà di ignorarlo o addirittura sentirlo come rivale (cfr Benedetto XVI, Omelia nella Solennità dell’Epifania, 6 gennaio 2011). Dio supera il nostro metro di misura e lo sorprende, non in astratto però, bensì nel Bimbo deposto in una grotta. Pur inerme, è la Verità per contemplare la quale è indispensabile «invertire la rotta» e «uscire dall’autonomia del pensiero arbitrario verso la disposizione all’ascolto, che accoglie ciò che è» (Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al convegno sull’Eredità spirituale e intellettuale di Romano Guardini, 29 ottobre 2010). Certo, nel mistero del Natale riusciamo ad avvertire nitidissimo anche lo strazio per chi si tiene lontano, e non vuol essere raggiunto neppure da un Dio Bambino; ma anche per chi è talmente compreso di sé e della sua propria intelligenza, da non lasciarsi insidiare dallo stupore né ghermire dal sorriso, gratuito e totale che, dalla grotta di Betlemme, si spande sul mondo. Nell’umiltà di quella carne, troviamo le parole più preziose, le verità più decisive per l’uomo peccatore e il destino eterno del tempo e del cosmo. Il mistero colà annunciato si svilupperà nel corso dell’anno liturgico, dispiegando le profondità della fede. Verità e parole che sono il corpo del Vangelo, quale risuona costantemente sulle labbra dei Pastori ed è alla base di ogni gesto che appartiene alla missione della Chiesa amica dell’uomo, ma non solo, amica della società e del mondo.
Nel periodo natalizio, ad esempio, com’è consuetudine siamo stati, noi e i nostri Confratelli Vescovi, in visita alle carceri presenti nei rispettivi territori. Ed insieme alla calorosa accoglienza del gesto e del messaggio, si è riscontrato il persistere amaro dei problemi legati principalmente al sovraffollamento, di cui già dicemmo nella prolusione dello scorso settembre.
2. La strage avvenuta ad Alessandria d’Egitto il primo giorno del 2011, che ha causato la morte di ventitré cristiani copti e il ferimento di altri novanta, è stato probabilmente l’episodio oltre il quale l’opinione pubblica non poteva più far finta di non vedere, ossia lo stillicidio di situazioni persecutorie, che nell’ultimo periodo si erano verificate in diverse zone del mondo, e avevano avuto i cristiani come vittime designate. Questi da tempo sono diventati il gruppo religioso che deve affrontare il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede. Un crescendo di episodi sanguinosi che nel corso dei mesi aveva interessato India, Pakistan e Filippine, Sudan e Nigeria, Eritrea e Somalia. Ma i fatti più gravi sono avvenuti in Iraq ed infine in Egitto; in entrambe le situazioni, a precedenti episodi di sangue trascurati o non chiariti, ne sono seguiti altri sempre più gravi. Impressiona che il momento di preferenza scelto per condurre gli agguati contro i cristiani sia il giorno di festa, durante la celebrazione liturgica o all’uscita di chiesa. E ciò non fa che aggiungere orrore ad orrore. Naturalmente ciascun episodio fa caso a sé, così come ciascuna Nazione ha uno scenario proprio. Il Medio Oriente è di sicuro la regione a più alta tensione; lì la cristianofobìa, che è la versione più corrente dell’intolleranza religiosa, non è lontana dal porsi ormai nelle forme della pulizia etnica o religiosa, benché i cristiani siano colà una componente certo non aggiuntiva né importata, e per secoli quella terra sia stata laboratorio di convivenza tra fedi ed etnie diverse.
Per i cattolici, e probabilmente non solo per loro, la coincidenza della strage di Alessandria d’Egitto con la 44ª Giornata mondiale della Pace ha gettato una luce ulteriore sul tema che quest’anno è stato scelto dal Papa, ossia «Libertà religiosa, via per la pace». Un’indicazione questa – si ricorderà – che aveva avuto un’ampia trattazione negli anni Ottanta del secolo scorso, allorché si trattava di far maturare oltre-cortina la situazione interna ai Paesi dell’Est europeo, dove i regimi comunisti non potevano tollerare la libertà religiosa. Come non ricordare Giovanni Paolo II e la sua penetrante azione, volta a iscrivere – dinnanzi al mondo – il principio della libertà religiosa tra i diritti fondamentali dell’uomo, e a farne anzi il coronamento oltre che il criterio veritativo? Il suo Successore, Benedetto XVI, ha inteso riprendere esplicitamente quel magistero e nel Messaggio pubblicato per la Giornata del 1° gennaio 2011 ne offre la trattazione – ad oggi – più consequenziale ed organica. «Nella libertà religiosa, infatti – scrive il Papa – trova espressione la specificità della persona umana, che per essa può ordinare la propria vita personale e sociale a Dio, alla cui luce si comprendono pienamente l’identità, il senso e il fine della persona». E continua: «Negare o limitare in maniera arbitraria tale libertà significa coltivare una visione riduttiva della persona umana; oscurare il ruolo pubblico della religione significa generare una società ingiusta, poiché non proporzionata alla vera natura della persona» (n. 1). E se il diritto alla libertà religiosa è radicato nella dignità umana (n. 2), e sta all’origine della libertà morale (n. 3), significa anche che la stessa libertà religiosa gode di uno statuto speciale giacché quando essa «è riconosciuta, la dignità della persona è rispettata nella sua radice, e si rafforzano l’ethos e le istituzioni dei popoli» (n. 5). La libertà religiosa – ancora – «è un bene essenziale: ogni persona deve poter esercitare liberamente il diritto di professare e di manifestare, individualmente o comunitariamente, la propria religione o la propria fede, sia in pubblico che in privato, nell’insegnamento, nelle pratiche, nelle pubblicazioni, nel culto e nell’osservanza dei riti. Non dovrebbe incontrare ostacoli se volesse eventualmente aderire ad un’altra religione o non professarne alcuna» (ib). Per questo motivo ai diritti di natura religiosa, l’ordinamento internazionale assegna «lo stesso status del diritto alla vita e alla libertà personale, a riprova della loro appartenenza al nucleo essenziale dei diritti dell’uomo, a quei diritti universali e naturali che la legge umana non può mai negare […]. È elemento imprescindibile di uno Stato di diritto» (ib). La mia, qui, è un’evocazione solo per rapidissimi cenni, desiderando piuttosto incoraggiare i credenti ad una lettura approfondita del testo, notevole davvero per compattezza ed ispirazione, e che va meditato unitamente all’Omelia tenuta nella solennità di Maria Madre di Dio, e al Discorso pronunciato dinanzi al Corpo Diplomatico il 10 gennaio 2011. Anche per gli osservatori e opinionisti laici si va, per fortuna, diffondendo la consapevolezza che la religione, elemento personale e interiore più di ogni altro, non va intesa in senso privato, e dunque isolabile, rispetto al quale assumere atteggiamenti apparentemente neutri, seppur in realtà indifferenti, quando non scettici.
3. Nessuno Stato accetta oggi tranquillamente condizioni di disuguaglianza nei rapporti economici, politici e culturali: se questo è vero, ed è fatto valere nelle sedi internazionali, occorre che il problema delle più elementari garanzie negate alle minoranze religiose – in non poche situazioni nazionali – venga posto con la lucidità e l’energia necessarie. Si apre qui, è noto, un problema drammatico di reciprocità, che non si risolve minacciando ritorsioni o attenuando, in Italia e in Occidente, le garanzie dei cittadini provenienti dagli Stati che non assicurano parità di trattamento. Anziché procedere con mezzo passo in avanti, se ne farebbe uno indietro. Questo però non può essere un alibi per incrementare colpevoli acquiescenze o finti pragmatismi. Si può e si deve urgentemente porre la questione della libertà religiosa nelle sedi internazionali – Unione Europea, Onu…– al fine di aprire gli occhi e mantenerli aperti, insistendo affinché nei singoli Stati vi sia un sistema minimo di garanzie reali per la libertà di tutte le fedi. Esiste la possibilità di istituire degli osservatori internazionali in grado di controllare quello che concretamente avviene nei singoli territori. È ragionevole presumere ci siano, in ogni Paese, settori di opinione pubblica sufficientemente maturi da comprendere che l’estinguersi delle minoranze interne non può non segnare un’involuzione massimalista, quando non totalitaria. Ciò spiega il dibattito magari sottotraccia che esiste anche nelle situazioni più blindate, come pure gli appoggi che i cristiani ricevono sempre di più anche da esponenti di religione diversa. La questione tuttavia, di una fondamentale libertà religiosa, è da sollevarsi opportunamente nelle sedi multilaterali, come nelle relazioni bilaterali, e nei rapporti informali tra rappresentanti di Paesi diversi, avendo cura che l’interessamento puntuale non abbia a scatenare ritorsioni sulle spalle già oberate di chi soffre. Passi molto importanti in questo senso sono stati compiuti dall’Italia, e di ciò noi Vescovi non possiamo non essere grati.
Saremmo – per così dire – ancora più soddisfatti se tutti i nostri stimati interlocutori prendessero atto che subdole minacce ad un’effettiva libertà religiosa esistono anche nei Paesi di tradizione democratica, a partire da quelli europei. Dovremmo guardarci infatti dai sottili tranelli dell’ipocrisia, che induce a cercare lontano ciò che invece è riscontrabile anche vicino. Il Papa nel suo Messaggio non manca di rilevarlo (cfr n. 13; e anche il Saluto all’Angelus, 1 gennaio 2011, e il Discorso cit.), e dal canto nostro, al pari di Confratelli di altri Paesi, non manchiamo di ripeterlo quando serve, ad esempio nella vicenda del Crocifisso esposto nelle scuole o in ambito pubblico.
Convinti come siamo che la libertà religiosa è un perno essenziale e delicatissimo, compromesso il quale è l’intero meccanismo sociale a risentirne, solitamente anche oltre le previsioni. C’è talora un argomentare infastidito sulla neutralità dello Stato che si rivela non poco capzioso. E c’è un’aggressività laicista dalle singolari analogie con certe ossessioni ideologiche che ci eravamo lasciati alle spalle senza rimpianti. Colpisce, in questo senso, la denuncia che nel mese scorso è stata diffusa durante un convegno viennese dell’Osce secondo la quale un’astratta applicazione del principio di non discriminazione finisce paradossalmente per comportare un’oggettiva limitazione al diritto dei credenti a manifestare pubblicamente la propria fede. Un male sottile insomma sta affliggendo l’Europa, provocando una lenta, sotterranea emarginazione del cristianesimo, con discriminazioni talora evidenti ma anche con un soffocamento silente di libertà fondamentali. Il caso su cui ci si sofferma è quello dell’obiezione di coscienza sui temi di alta rilevanza etica che, in più nazioni, si tenta ormai di ridimensionare. Ciò segnerebbe un regresso sul crinale della libertà. Emarginare simboli, isolare contenuti, denigrare persone è arma con cui si induce al conformismo, si smorzano le posizioni scomode, si mortificano i soggetti portatori di una loro testimonianza in favore di valori cui liberamente credono.
Osiamo con ciò chiedere, come Vescovi, un esame di coscienza per tutti impegnativo. C’è infatti qualcosa che ciascuno può fare per determinare miglioramenti concreti. Chi non comprende come l’invito rivolto dal Papa alle popolazioni bersagliate a «non cedere allo sconforto e alla rassegnazione» (Saluto all’Angelus, 1 gennaio 2010) suoni più efficace se quanti vivono in situazioni di libertà mettono in campo gesti concretamente volti alla solidarietà e alla condivisione? Intanto, poiché cittadini di altre religioni sono già in mezzo a noi, dobbiamo imparare a vivere con la diversità prossima a noi stessi, dando all’altro considerazione, facendolo esistere nell’attenzione e nel rispetto. In questo modo si può diventare quasi degli ambasciatori informali che, nelle forme della ferialità, danno un apporto significativo per modellare positivamente le relazioni tra gruppi etnici e contribuiscono a determinare l’inflessione dei rapporti tra i popoli. Nel contempo, dobbiamo interpretare a tutto tondo i dettami della nostra religione, senza subire inibizioni striscianti, e ritenendo a nostra volta che vivere fino in fondo la fede, oltre a non essere uno stato di minorità, è un modo eccellente per rendere migliore il mondo. È il momento, come cristiani, di vincolarci di più alla Parola di Dio, in un approccio orante, personale e comunitario: è quanto ci chiede l’esortazione apostolica Verbum Domini (cfr ad esempio i nn. 86 e 87), pubblicata il 30 settembre scorso, e proposta alla coscienza ecclesiale come un’eredità condivisa dell’ultimo Sinodo mondiale dei Vescovi. In occasione del viaggio papale in Gran Bretagna ci furono osservatori, solitamente non proprio favorevoli alla Chiesa cattolica, che riservarono a Benedetto XVI apprezzamenti non formali a proposito del suo modo di porsi, di essere convincente, di indurre negli interlocutori interrogativi non scontati. Proprio questo stile, mite ma anche coraggioso e insieme persuasivo, vorremmo raccomandare a noi stessi e alle nostre Chiese.
È noto, inoltre, che su invito di Papa Benedetto nell’ottobre prossimo avrà luogo ad Assisi un Incontro interreligioso tra i rappresentanti delle Religioni mondiali, a venticinque anni da quello promosso da Giovanni Paolo II. Gesto tuttavia che nel contesto odierno rivelerà non solo la pertinenza della religione nel mondo di oggi ma il potenziale di pace e di sviluppo connesso alle relazioni interreligiose. E qui verrebbe spontanea una considerazione sul profilo del nostro Paese, chiamato ancora una volta a vivere da testimone privilegiato eventi di grande e universale significato simbolico. Ebbene, in vista di questo appuntamento, ci piacerebbe che i nostri fedeli mettessero fin d’ora in moto il cuore e l’anima così da preparare spiritualmente e culturalmente l’Italia ad accoglierlo come conviene. Per questa convocazione del Santo Padre, le comunità parrocchiali e quelle religiose sono chiamate infatti a pregare in modo speciale, sulla scia della giornata di preghiera indetta per domenica 21 novembre, affinché il Dio di ogni misericordia voglia far scendere da essa frutti copiosi di concordia e di pace. Domani, nella festa della Conversione di San Paolo, si conclude la Settimana dedicata all’unità dei cristiani: è stata l’occasione per interiorizzare ancora meglio che il cammino verso l’unità «abita nella preghiera» e che, dispiegandosi nella «comune responsabilità verso il mondo, dobbiamo rendere un servizio comune» (Benedetto XVI, Discorso all’Udienza Generale, 19 gennaio 2011).
4. Accennavo un attimo fa al profilo interiore dell’Italia. Più precisamente, vorrei riferirmi a ciò che ancora oggi la fa essere qualcosa di più della somma di tanti singoli individui, ossia un popolo, e tale in forza non dello Stato, il quale viene dopo, ma di una comunità di destino che cammina con gli altri popoli, e tra gli altri ha una sua indole, un suo carattere, una sua vocazione, potremmo dire una sua anima. Quando, ad esempio, san Francesco e santa Caterina evocavano nei loro scritti l’Italia – molti secoli prima dell’unità raggiunta nel 1861, di cui si sta felicemente celebrando il 150° anniversario – si riferivano con ogni evidenza ad un’entità geografica che con quel nome era già identificabile, tant’è che sul territorio circolava, oltre alle parlate locali, anche una lingua comune, c’erano scambi e commerci, c’erano letterati, giuristi ed artisti che lavoravano per le diverse corti, e in qualche modo anzi le accomunavano. E potevano farlo in ragione di una predicazione cristiana che, toccando le varie città e contrade, aveva dato forma agli archetipi fondamentali di base. Intendo dire che il vincolo religioso è stato realmente l’incunabolo da cui è scaturita la prima coscienza di una identità italiana. E ciò non per rimarcare diritti o primati, ma per ricordare che nella storia dei popoli vi sono caratteristiche «che non possono essere negate, dimenticate o emarginate», e che quando è accaduto «si sono causati squilibri e dolorose fratture»
(Benedetto XVI, Discorso al nuovo Ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede, 17 dicembre 2010). Va da sé che la fede, nella misura in cui punta all’interiorità, non possa ridursi al fenomeno di «religione civile»; nello stesso tempo non si può negare che abbia una ricaduta nella vita comunitaria e pubblica. La religione è certo apprezzabile nella società civile per le sue attività caritative e assistenziali, dunque per la sua dimensione orizzontale. Essa però prospera nella misura dell’intensità della dimensione verticale. L’apertura al trascendente, che pure è indisponibile allo Stato, non può essergli tuttavia indifferente, in quanto struttura la persona, la mette in grado di interpretare ciò che la circonda, le dona quell’idealità e quella forza morale che la materialità non garantisce. Soprattutto, la rende capace di scegliere il bene anziché il male. Che per una società è la direzione primordiale e insostituibile. Vale anche nella nostra attualità, in cui non è difficile riscontrare – osserva il Papa – «una perversione di fondo del concetto di ethos» (Discorso per gli auguri alla Curia romana, 20 dicembre 2010). In una situazione in cui «esisterebbe soltanto un “meglio di” e un “peggio di”. […] tutto dipenderebbe dalle circostanze e dal fine inteso. A seconda degli scopi e delle circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male» (ib). In una situazione del genere, quando in certi momenti sembra che a vacillare siano i fondamenti stessi di una civiltà, si comprende forse meglio quale sia «il patrimonio di principi e di valori espressi da una religiosità autentica […]. Essa parla direttamente alla coscienza e alla ragione degli uomini e delle donne, rammenta l’imperativo della conversione morale, motiva a coltivare delle virtù e ad avvicinarsi l’un l’altro con amore, nel segno della fraternità, come membri della grande famiglia umana» (Messaggio cit. n. 9). È la religione ad aiutare la persona a distinguere tra l’assenza di costrizioni e il comportarsi secondo i doveri della coscienza. Non è un caso che la cultura moderna abbia indotto a sovrapporre i due concetti. Scriveva Newman: «Al giorno d’oggi, per una buona parte della gente, il diritto e la libertà di coscienza consistono proprio nello sbarazzarsi della coscienza, nell’ignorare il Legislatore e Giudice, nell’essere indipendenti da obblighi che non si vedono. […] La coscienza è una severa consigliera, ma in questo secolo è stata rimpiazzata da una sua contraffazione, di cui i diciotto secoli passati non avevano mai sentito parlare o dalla quale, se ne avessero sentito, non si sarebbero mai lasciati ingannare: è il diritto ad agire a proprio piacimento» (Lettera al Duca di Norfolk, Milano 1999). Ora, a parte il rilievo che il secolo in cui viveva Newman sembra essersi d’incanto prolungato fino ad oggi, com’è possibile non farsi aiutare dal nuovo Beato a identificare proprio nello stravolgimento del concetto di coscienza la causa di tanti equivoci? Forse non è vero che l’origine di troppe scelte sbagliate sta nello scambiare l’opzione di coscienza con la pretesa di essere padroni di agire come ci pare? Oppure com’è, sul momento, più conveniente e redditizio? Troppe volte, nella cultura come nella vita, si confonde il concetto di coscienza, ossia la capacità della persona di riconoscere la verità e decidere di incamminarsi in essa, con l’ultima perentorietà dell’istanza soggettiva (cfr anche Benedetto XVI, Discorso ai Dirigenti e Agenti della Questura di Roma, 21 gennaio 2011). In pratica, è lo stordimento attorno al falso concetto di autonomia ciò che incrina la cultura odierna, quella secondo cui la persona si pensa tanto più felice quanto si sente prossima a fare ciò che vuole. Peccato, tuttavia, che da lì in poi scoprirà che la felicità è altrove, e la si conquista in ben altro modo. Si può cogliere da qui il senso degli Orientamenti pastorali che l’Episcopato ha deciso, per questo decennio (2011-2020), in ordine all’emergenza educativa, «il cui punto cruciale sta nel superamento di quella falsa idea di autonomia che induce l’uomo a concepirsi come un “io” completo in se stesso, laddove invece egli diventa “io” nella relazione con il “tu” e il “noi”» (n. 9). Più di quanto non si pensi oggi è avvertito – seppur non ammesso – il bisogno di un’educazione coerente e duratura, che dia cioè gli ormeggi oggettivi, essendo in se stessa anche morale (cfr Benedetto XVI, Messaggio alla 62a Assemblea Generale della CEI, 4 novembre 2010).
5. La crisi economica e finanziaria che, a partire dal 2009, ha investito in pratica il mondo intero non è finita. E che non sia esaurita lo dicono studiosi ed economisti, ma del fatto abbiamo conferma anche nella concreta vicinanza alla gente, nostra e dei nostri cari sacerdoti, ai quali indirizziamo il pensiero grato e fraterno. Non mancano germi di nuovo, segnali di ripresa e di innovazione, con esperimenti rilevanti nelle relazioni lavorative, ma persistono varie situazioni impaludate. E dentro ciascuna di esse ci sono persone e, di conseguenza, famiglie in grande allarme e in comprensibile sofferenza. Noi siamo anzitutto con loro. Contribuisce poi ad impensierirci ulteriormente il senso di spaesamento che perdura, non come un’atmosfera evidentemente artificiosa e momentanea, ma come stato d’animo concreto, affatto passeggero. Per questo resta sempre necessario ascoltare per meglio comprendere e opportunamente decidere. Ad esempio, la contestazione studentesca, sviluppatasi nelle settimane precedenti il Natale, è un fatto che merita una riflessione non scontata. Non si è trattato di un evento ripetitivo del passato; troppo diverse le situazioni e le condizioni. Certo, hanno inquietato gli innesti di violenza e di grave devastazione che si sono registrati. Si è parlato di infiltrazioni improprie, e non tutti né ovunque sono stati pronti a dissociarsi dalla violenza. Ma in ogni campo bisogna dare ascolto alle preoccupazioni reali e ai dubbi sinceri per meglio capirsi e per poter procedere con l’apporto più ampio e onesto possibile. Riconoscendo anche, come è accaduto non di rado, che l’esperienza diretta e concreta del nuovo ha riservato sorprese positive, magari non subito colte nella concitazione degli animi e degli eventi. Resta l’esigenza evidente, comunque, che ogni riforma richiede risorse indispensabili.
La prospettiva infatti del ridimensionamento di quello che ai giovani appare come il più consistente cespite di spesa che lo Stato stanzia in loro favore, deve essere apparsa incomprensibile. Ma oltre a queste motivazioni psicologiche – di impellenza immediata – ci sono quelle lunghe, ossia la consapevolezza che essi hanno di arrivare alla ribalta in cui dovrebbe cominciare la vita adulta e autonoma, quando una serie di condizioni sono diventate sfavorevoli. Si dice che questa sia la prima generazione della decrescita, e la si chiama generazione inascoltata o non garantita. La disoccupazione giovanile è un dramma per l’intera società, e non solo per i giovani direttamente interessati. Stando alle statistiche, ci sono oltre due milioni di giovani tra i 15 e 34 anni che non studiano, non lavorano, né ormai cercano più un impiego. Dicono di saper già di non trovarne uno stabile e sono poco disponibili ad abbracciarne uno qualsiasi. La svalutazione del lavoro manuale, anche specializzato, è evidente. E questo non è un bene. Il mondo degli adulti, secondo le diverse responsabilità, è in debito nei confronti delle nuove generazioni, “in debito di futuro”. I giovani non vogliono certo essere accarezzati come degli eterni adolescenti, desiderano essere considerati responsabili e quindi trattati con serietà, ma chiedono di non sentirsi soli, gettati nella vita e privi di possibilità.
6. In un documento del nostro Episcopato pubblicato trent’anni or sono e che ebbe a suo tempo una notevole accoglienza (La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, 1981), si diceva icasticamente: «Il consumismo ha fiaccato tutti» (n. 11). Ed eravamo appena agli inizi di quel processo di trasformazione che interesserà l’Italia e l’Occidente nei decenni a seguire, e troverà rappresentazione nella cosiddetta “modernità liquida” dominata da quella che alcuni hanno definito “ideologia del mercato”. Colpisce l’efficacia di quella predizione, dove ad apparire centrato è in particolare il verbo usato: “fiaccare”. La desertificazione valoriale ha prosciugato l’aria e rarefatto il respiro. La cultura della seduzione ha indubbiamente raffinato le aspettative ma ha soprattutto adulterato le proposte. Ha così potuto affermarsi un’idea balzana della vita, secondo cui tutto è a portata di mano, basta pretenderlo. Una sorta di ubriacatura, alle cui lusinghe ha – in realtà – ceduto una parte soltanto della società. Però il calco di quel pensiero è entrato sgomitando nella testa di molti, come un pensiero molesto che pretende ascolto. Un ascolto peraltro che diventava sempre più improbabile, considerato il nuovo clima sociale, determinato da un volano economico che senza tanti complimenti si era messo a girare all’incontrario. Noi siamo testimoni della dignità con cui la nostra gente sta normalmente reagendo alle difficoltà che si sono presentate, arrivando a configurare un andamento diverso nel passo del mondo. Sembrava che il trend della crescita dovesse tutto sommato aumentare sempre, in un movimento espansivo che avrebbe via via incluso sempre nuove fette di popolazione. Invece la crisi si è presentata come una sorta di drenaggio generale, obbligando un po’ tutti a rivedere le proprie ambizioni. C’è una verità, forse non troppo detta, ma che la gente ha intuito abbastanza presto: si stava vivendo al di sopra delle proprie possibilità. Bisogna allora imprimere una moderazione complessiva dell’andamento di vita, senza dimenticare anzi! – tutti coloro che già prima vivevano sul filo e oggi si trovano sotto. Con bilanci meno ambiziosi, occorre far fronte a tutte le necessità di una società moderna, per di più senza poter più contare sullo sfogo del debito pubblico che invece dovrà rientrare. Ma che fare se ognuno difende a spada tratta il livello di vita già acquisito? Questo è il punto in cui i problemi dei giovani vengono a coincidere con le questioni di ordine generale: bisogna infrangere l’involucro individualista e tornare a pensare con la categoria comunitaria del “noi”, perché tutto va ricalibrato secondo un diverso soggetto. Anziché una somma di tanti “io”, sicuramente legittimi e forse un po’ pretenziosi, occorre insediare il plurale che abita in ogni famiglia, il plurale di cui si compone ogni società. Non sarà un’operazione facile, ma occorrerà convertire una parte di ciò che eravamo abituati a considerare nella nostra esclusiva disponibilità, e metterlo nella disponibilità di tutti. E naturalmente chi nel frattempo aveva accumulato di più, qualcosa di più ora deve mettere a disposizione. Quando un anno e mezzo fa cercavamo di trovare il senso di ciò che la crisi poteva richiedere, si parlò ad un certo punto di una necessaria conversione degli stili di vita. Ora ci siamo arrivati. C’è un’alfabetizzazione etica su questa nuova stagione che occorre saper alimentare anche al livello dei nostri gruppi, delle nostre associazioni, dei nostri movimenti. Se una parte di reddito va ridistribuita per poter corrispondere alle essenziali attese delle ultime generazioni, che diversamente rimarrebbero sul lastrico, ecco che c’è un lavoro di rimotivazione da compiere per dare un orizzonte convincente alla dose di sacrifici che bisogna affrontare. Si torna qui alla sfida educativa che ci siamo prefissi. Nella mentalità più diffusa, la sofferenza è l’ambito oscuro della vita che è meglio mettere tra parentesi, e da cui in ogni caso è necessario preservare i più giovani. Ma questo, pur scaturito dalle migliori intenzioni, è l’autoinganno più fatale che si sia indotto nei figli, nei nipoti, nei discepoli. Tentando di preservarli dalle difficoltà e dalle durezze dell’esistenza, si rischia di far crescere persone fragili, poco realiste e poco generose. Se a questo si aggiunge una rappresentazione fasulla dell’esistenza, volta a perseguire un successo basato sull’artificiosità, la scalata furba, il guadagno facile, l’ostentazione e il mercimonio di sé, ecco che il disastro antropologico in qualche modo si compie a danno soprattutto di chi è in formazione. «Non esiste una vita senza sacrificio», ammoniva il Papa parlando proprio ai giovani (Omelia nella Domenica delle Palme, 5 aprile 2010), non si può diventare liberi da sé «senza osare il grande Sì» (ib). E poi spiegava : «Se getto uno sguardo retrospettivo sulla mia vita personale, devo dire che proprio i momenti in cui ho detto “sì” ad una rinuncia sono stati momenti grandi ed importanti della mia vita» (ib).
Anche la crescente allergia che si registra nei confronti dell’evasione fiscale è un segnale positivo, che va assecondato. Adesso più che mai è il momento di pagare tutti nella giusta misura le tasse che la comunità impone, a fronte dei servizi che si ricevono. Bisogna snellire e semplificare, ma nessuno è moralmente autorizzato ad autodecretarsi il livello fiscale. Chi fa il furbo non va ammirato né emulato. Il settimo comandamento, «Non rubare», resiste con tutta la sua intrinseca perentorietà anche in una prospettiva sociale.
7. L’intelligenza collettiva ha il dovere di riscattare l’istituto familiare dalle visioni ristrette e impacciate in cui è stato relegato. I riconoscimenti che nell’ultimo periodo sono giunti da istituzioni insospettabili alla famiglia italiana quale soggetto-baluardo della finanza nazionale e salvadanaio in grado di riequilibrare la finanza pubblica agli occhi delle autorità europee, acquistano oggi il valore di una riabilitazione culturale della famiglia stessa dinanzi a quei grandi poteri da cui è stata spesso ignorata. Conviene appena ricordare che tale esito non nasce accidentalmente, ma è il risultato paziente dell’antropologia di riferimento della nostra cultura, per la quale da sempre noi viviamo anzitutto in una società di famiglie. Questa è la campata sotto la quale l’Italia vive, avendo − sotto il profilo sociologico − una connotazione sua propria, la quale ha ripercussioni decisive a livello educativo, nel contenimento dei disagi giovanili, nella resa scolastica, nelle strategie di prevenzione sociale, nel recupero dalle dipendenze, nella comunicazione intergenerazionale. Va da sé che una ricognizione lucida della condizione nazionale deve portare il Paese a darsi una politica familiare preveggente, che mantenga la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, e aperta alla vita, quale base per rilanciare il Paese, e rilanciarlo sul proprio caratteristico equilibrio esistenziale, dunque senza ossessivi cedimenti alla struttura del «soggetto singolare». Le risultanze della Conferenza nazionale sulla Famiglia, svoltasi di recente a Milano, vanno indubbiamente in questa direzione e meritano – sia per il versante culturale sia per il versante politico-fiscale – la pronta considerazione delle forze politiche. L’individuazione del “fattore famiglia” come criterio ad oggi più evoluto, in quanto più equilibrato rispetto ad ipotesi precedenti, suggerisce che l’auspicata, urgente riforma del fisco dispone già di un elemento centrale di grande convergenza. Diremo anche noi con Benedetto XVI che tutto ciò che si fa per sostenere il matrimonio e la famiglia accresce la grandezza dell’uomo, rafforzando nel contempo la società (cfr Benedetto XVI, Discorso all’Udienza Generale, 10 novembre 2010; e anche Discorso agli Amministratori della Regione Lazio, del Comune e della Provincia di Roma, 14 gennaio 2011).
Come ho già più volte auspicato, bisogna che il nostro Paese superi, in modo rapido e definitivo, la convulsa fase che vede miscelarsi in modo sempre più minaccioso la debolezza etica con la fibrillazione politica e istituzionale, per la quale i poteri non solo si guardano con diffidenza ma si tendono tranelli, in una logica conflittuale che perdura ormai da troppi anni. Si moltiplicano notizie che riferiscono di comportamenti contrari al pubblico decoro e si esibiscono squarci – veri o presunti – di stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza, mentre qualcuno si chiede a che cosa sia dovuta l’ingente mole di strumenti di indagine. In tale modo, passando da una situazione abnorme all’altra, è l’equilibrio generale che ne risente in maniera progressiva, nonché l’immagine generale del Paese. La collettività, infatti, guarda sgomenta gli attori della scena pubblica, e respira un evidente disagio morale. La vita di una democrazia – sappiamo – si compone di delicati e necessari equilibri, poggia sulla capacità da parte di ciascuno di auto-limitarsi, di mantenersi cioè con sapienza entro i confini invalicabili delle proprie prerogative. «Muoversi secondo una prospettiva di responsabilità − ammoniva il Papa in occasione dell’ultima Settimana Sociale − comporta la disponibilità ad uscire dalla ricerca del proprio interesse esclusivo per perseguire insieme il bene del Paese» (Benedetto XVI, Messaggio alla 46a Settimana Sociale dei cattolici italiani, 12 ottobre 2010). Come ho già avuto modo di dire, «chiunque accetta di assumere un mandato politico deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore che esso comporta, come anche la nostra Costituzione ricorda (cfr art. 54)» (Prolusione al Consiglio Permanente, 21-24 settembre 2009, n. 8). Dalla situazione presente – comunque si chiariranno le cose – nessuno ricaverà realmente motivo per rallegrarsi, né per ritenersi vincitore. Troppi oggi – seppur ciascuno a modo suo – contribuiscono al turbamento generale, a una certa confusione, a un clima di reciproca delegittimazione. E questo − facile a prevedersi − potrebbe lasciare nell’animo collettivo segni anche profondi, se non vere e proprie ferite. La comunità nazionale ha indubbiamente una propria robustezza e non si lascia facilmente incantare né distrarre dai propri compiti quotidiani. Tuttavia, è possibile che taluni sottili veleni si insinuino nelle psicologie come nelle relazioni, e in tal modo – Dio non voglia! – si affermino modelli mentali e di comportamento radicalmente faziosi. Forse che questo non sarebbe un attentato grave alla coesione sociale? E quale futuro comune potrà risultare, se il terreno in cui il Paese vive rimanesse inquinato? È necessario fermarsi − tutti − in tempo, fare chiarezza in modo sollecito e pacato, e nelle sedi appropriate, dando ascolto alla voce del Paese che chiede di essere accompagnato con lungimiranza ed efficacia senza avventurismi, a cominciare dal fronte dell’etica della vita, della famiglia, della solidarietà e del lavoro. Come Pastori che amano la comunità cristiana, e come cittadini di questo caro Paese, diciamo a tutti e a ciascuno di non cedere al pessimismo, ma di guardare avanti con fiducia. È questo l’atteggiamento interiore che permetterà di avere quello scatto di coscienza e di responsabilità necessario per camminare e costruire insieme.
Così, non possiamo non porre mente particolare alle giovani generazioni e al dovere educativo che investe in primissimo luogo la famiglia, e irrinunciabilmente i genitori, sostenuti dai parenti, in particolare dai nonni. La Chiesa è consapevole di questo diritto, primordiale perché naturale, dei genitori quali essenziali educatori dei loro figli, e si concepisce anzitutto al loro servizio, e questo fa con profondo rispetto e la premura che viene da un patrimonio umano e religioso a tutti noto. A sua volta, la Chiesa stessa ha un irrinunciabile mandato educativo, che intende assolvere con dedizione assoluta e santità di vita. Certamente l’istituzione scolastica fa tutto quello che può, specialmente attraverso l’impegno serrato di una moltitudine di docenti e operatori, competenti e generosi. Eppure, questo dispiegamento di disponibilità pare non bastare, tanto è grande e delicata oggi «la sfida educativa». Per questo deve entrare in campo la società nel suo insieme, e dunque con ciascuna delle sue componenti e articolazioni. Se la scuola – come oggi si intende – dev’essere «comunità educante», bisogna convincersi con una maggiore risolutezza che la società nel suo complesso è chiamata ad essere «comunità educante». Affermare ciò, a fronte di determinati «spettacoli», potrebbe apparire patetico o ingenuo, eppure come Vescovi dobbiamo caricarci sulle spalle anche, e soprattutto, questo onere di richiamare ai doveri di fondo, di evidenziare le connessioni, di scoprire i pilastri portanti di una comunità di vita e di destino. Se si ingannano i giovani, se si trasmettono ideali bacati cioè guasti dal di dentro, se li si induce a rincorrere miraggi scintillanti quanto illusori, si finisce per trasmettere un senso distorcente della realtà, si oscura la dignità delle persone, si manipolano le mentalità, si depotenziano le energie del rinnovamento generazionale. È la speranza, pane irrinunciabile sul tavolo dei popoli, a piegarsi e venire meno. Il cuore dei giovani tende − per natura − alla grandezza e alla bellezza, per questo cerca ideali alti: bisogna che essi sappiano che nulla di umanamente valevole si raggiunge senza il senso del dovere, del sacrificio, dell’onestà verso se stessi, della fiducia illuminata verso gli altri, della sincerità che soppesa ogni proposta, scartando insidie e complicità. In una parola, di valori perenni. Gesù è il modello affascinante, l’amico che non tradisce e viene sempre incontro, che prende per mano e riaccende ogni volta la forza sorgiva che sostiene la fiducia verso la realizzazione di sé e la vera felicità. Questo – come adulti e come giovani − abbiamo bisogno di vedere e di sentire sempre, oltre ogni moralismo ma anche oltre ogni libertarismo, l’uno e l’altro spesso dosati secondo le stagioni.
Bisogna che nel suo complesso il Paese ringiovanisca, torni a crescere dal punto di vista culturale e quindi anche sociale ed economico, battendo i catastrofismi. Cambiare in meglio si può e si deve. Le cortine fumogene svaniscono, arroganze e supponenze portano a poco. I sacrifici che i cittadini stanno affrontando acquistano un senso se vengono prospettati obiettivi credibili e affidabili. Tra questi, c’è l’orizzonte di una maggiore giustizia sociale e di una modernizzazione effettiva in ogni articolazione pubblica, anche quella a beneficio dell’utenza più larga, specialmente se perseguita nel rispetto delle regole, e respingendo il malaffare e le intimidazioni di ogni mafia. Come è obiettivo inderogabile l’avvio delle riforme annunciate, applicandosi in un’ottica puntigliosamente coinvolgente tutte le forze politiche, ciascuna secondo la misura intera nella parte assegnata dai cittadini. Bisogna avere fiducia nelle nostre qualità e potenziare la capacità elaborativa di ogni sede responsabile, affinando l’attitudine a captare umori e orientamenti per poterli comporre in vista di una mediazione d’insieme la più alta possibile. Un Paese complesso richiede saggezza e virtù.
Vi ringrazio, Confratelli cari, per il Vostro paziente ascolto e per l’accoglienza ragionata che vorrete riservare a queste considerazioni. Con la discussione, entriamo già nel vivo dell’ordine del giorno, mentre ci attendono argomenti importanti in merito alla vita cristiana del nostro popolo e all’efficacia della nostra Conferenza. Ci assista Maria, che il popolo anconetano venera come Regina di tutti Santi, e che dalla sacra Casa di Loreto ci segue e ci protegge. E ci assistano i Santi Patroni, san Ciriaco e san Leopardo, san Giuseppe da Copertino e san Francesco di Sales: la loro compagnia ci incoraggia e ci sostiene. Grazie.
Card. Angelo Bagbasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
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